L’ ultima opera di Quentin Tarantino è un omaggio al quasi omonimo cult movie di Sergio Corbucci datato 1966, se non altro dal punto di vista del titolo e dell’ ambientazione (gli anni della schiavitù nel Sud degli USA). L’ idea nasce per riprendere il discorso spaghetti western bruscamente interrotto verso la fine degli anni ‘70, allorquando cominciarono a scarseggiare idee per ravvivare il genere, ma anche e forse soprattutto per trattare il dimenticato tema dello già citato schiavismo in vigore in quell’ era negli States. Ci prova il regista americano a farlo, con la sua solita verve e con tanti buoni propositi, ma vanno prese in considerazione tante sfaccettature per giudicare la sua settima opera (escluse partecipazioni, episodi di telefilm o collaborazioni non accreditate).
Se vogliamo guardare il film da “tarantiniani” convinti, Django Unchained (USA, 2012) si colloca a metà della sua filmografia. Se lo guardiamo, invece, con gli occhi indiscreti di un semplice appassionato, allora assume i connotati di un lungometraggio tecnicamente perfetto e senza sbavature, godibilissimo ed a tratti divertente. Ma è questo il punto, ovvero quella dose di divertissement presente in un film assimilabile a commedia black, in certi passaggi addirittura comica o grottesca (per intenderci vedi i fratelli Coen). Stavolta sembra infatti che Quentin si sia divertito a girare, facendolo in modo spensierato, donando ai personaggi una caratterizzazione esclusiva e prestando (anche se meno del solito) attenzione ai dettagli, come gli enormi speroni sugli stivali di Billy Crash, ma anche con i suoi famigerati ed irripetibili dialoghi surreali.
Jamie Foxx fa il suo lavoro con regolarità e senza troppi fronzoli, Samuel L. Jackson offre una delle sue performance migliori (piazzando il personaggio di Stephen subito dietro il mitico Jules di Pulp Fiction), ma val la pena soffermarsi sui 2 attori che hanno dominato la scena, DiCaprio e Waltz. Il biondo italoamericano fa gli straordinari, entra efficacemente nel ruolo di un folle latifondista (proprietario di Candyland, immensa fortuna ereditata dal padre) che tratta gli schiavi con modalità a dir poco aberranti, seviziandoli, costringendoli ad uccidersi a vicenda e, quando non riescono nell’ intento, lasciandoli in pasto ai cani. Leo si cala nei panni di Calvin Candie in modo totalitario, bravo a sollecitare i palati fini con modi eleganti alternati a momenti di pazzia assoluta tipici di un cinico e sanguinario figlio di papà in salsa ottocentesca. Dal mio punto di vista questo ruolo sarebbe altresì calzato perfettamente al compianto Heath Ledger o magari ad un attore esperto ed attempato alla Jack Nicholson, ma DiCaprio recita comunque bene ed è abbastanza sciolto, fatta eccezione per quelle movenze degli arti superiori che richiamano ancora una volta ad un’ ispirazione vagamente “deniriana”, ma su quest’ aspetto qualcuno dovrebbe dirgli di desistere. Discorso a parte, ovviamente, merita l’ austriaco Cristoph Waltz, il quale non è più un outsider che deve conquistarsi pubblico, ma una certezza, un talento puro e raffinato che regala anche stavolta una maschera davvero irresistibile. Certo, a voler essere pignoli c’è da sottolineare che il suo personaggio in Django Unchained sembra un ‘estensione, a livello recitativo, del leggendario Colonnello Landa del precedente Bastardi senza gloria, operando una sorta di fusione con il Dr Schultz, essendoci alcuni tratti in comune come il tipico accento teutonico, i modi gentili e la spietatezza di fondo che rendono la prova straordinariamente efficace ed intellettualmente attraente anche in questo caso. E’ presente nel film, inoltre, un discreto numero di caratteristi che a vario titolo offrono prestazioni buone, compreso lo stesso (ingrassato) Tarantino che ritorna ad auto riprendersi come non accadeva dal ’94.
Film dunque godereccio e stilisticamente inattaccabile ma troppo lungo, troppo splatter in alcune sequenze (non compatibili con lo spaghetti western), sprovvisto di sequenze leggendarie e privo di sorprese: tutti gli eventi che si susseguono sono, in effetti, prevedibili. Il film nella seconda parte inizia ad avvitarsi su se stesso, volgendo verso un finale caratterizzato da un mix tra il pulp e la commedia che non sorprende e manca di quel tocco di magia che aveva contraddistinto tutti i film (chi più, chi meno) del geniaccio di Knoxville.
In ogni caso, un 7 e mezzo è d’ obbligo in quanto i 165 minuti scorrono serenamente, donandoci stile e la solita ottima fotografia del grande Robert Richardson, col quale Tarantino ha ormai stretto un forte sodalizio.
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