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Lo spirito della nouvelle vague

Alessandro Comodin recupera un modo spesso dimenticato di intendere il cinema.
di Emanuele Sacchi

In foto Giacomo Zulian in una scena del film L'estate di Giacomo di Alessandro Comodin.
Giacomo Zulian . Interpreta Giacomo nel film di Alessandro Comodin L'estate di Giacomo.

lunedì 30 luglio 2012 - Approfondimenti

Per molto tempo si è temuto di non vederlo in sala, lo stesso Alessandro Comodin era scettico al riguardo. E invece, seppur in bassa stagione, L'estate di Giacomo ha trovato la chance che merita, in seguito a una serie di consensi raccolti in festival prestigiosi, come Locarno o il Festival dei Popoli di Firenze. Un film coraggioso, in qualche modo unico.

Non è un documentario sulla diversità, non assomiglia sostanzialmente in nulla - né per contenuti né per stile - a quel che in Italia si produce su pellicola. L'estate di Giacomo di Alessandro Comodin è molto più di una ventata di aria fresca, è il segno che anche in Italia schegge di nouvelle vague e di un modo di intendere il cinema così trascurato dalle nuove leve di sceneggiatori e registi nostrani possono esistere. Nato come documentario sul ritorno all'udito e alla parola di Giacomo, il film diventa altro in fieri, nello stile del Doinel di Truffaut o dei racconti stagionali di Eric Rohmer: "Mi sento sempre onorato - dice Comodin - rispetto a questi confronti, anche un po' imbarazzato. Ho imparato da Jean Rouch che i film sono un regalo che fai agli spettatori. Di regali ne ho ricevuti tanti, i film che ho potuto vedere in questi anni mi hanno cambiato, mi hanno "lavorato", ora è venuto il momento di farne uno mio per ricambiare la cortesia e la generosità. Non è un caso che i miei film del cuore siano film della Nouvelle Vague, ma ancor prima di Vigo, Rossellini, Rouch, e poi ovviamente Rohmer, Godard, Eustache, Pialat e tanti altri. Trovo che ultimamente i film siano troppo poco liberi formalmente e nel contenuto, anche nei film d'autore e anche purtroppo nei film di registi giovani. La libertà ora si trova nel cinema portoghese di Miguel Gomes o Joao Nicolau, nel cinema di Naomi Kawase o in quello di Apichatpong Weerasethakul, o ancora quello di Raya Martin".

Cinema che vive di piccoli ma importanti momenti, la tenerezza di un ballo, giochi innocenti sulla spiaggia, il fracasso di una batteria strapazzata da chi, come Giacomo, vuole esorcizzare la difficoltà nel sentire attraverso il rumore. Momenti di nulla o quasi che nella narrazione di Comodin divengono imprescindibili, capaci di comunicare a tutti noi quel che ci accomuna con un ragazzo speciale, la cui voglia di vivere non è minimamente frenata dai difetti sensoriali. Lo sguardo di Comodin è così discreto e la mano con cui conduce la macchina da presa così poco invasiva che ogni dubbio morale sulla scelta di un protagonista come Giacomo o su una sua ipotetica strumentalizzazione viene spazzato via dopo poche sequenze. È la narrazione nel suo complesso ad adattarsi a Giacomo e al ritmo della sua vita, giustificando così la scelta di dilatare a dismisura una parte (l'estate giocosa con Stefania, sorella del regista) e limitare a pochi minuti la seconda, quella in cui Giacomo trova infine l'amore con Barbara. "ll film, come lo vedete, è nato al montaggio. Abbiamo cominciato a costruire la storia a partire dalle immagini che ci piacevano di più, è come se le immagini avessero in sé la ragione irrazionale, la storia irrazionale del film. Al montaggio tutto è stato chiaro sin dal principio: le immagini hanno rivelato la storia, bastava saperle guardare e ascoltare. Avevo previsto di girare soltanto con Stefania, la mia sorellina. Avevo scritto una lista di luoghi in cui volevo portare i ragazzi e sapevo più o meno quello che sarebbe successo. Una settimana prima di scendere in Italia per le riprese, Giacomo mi scrive su Facebook "Mi sono innamorato di una ragazza che è come me (sorda)". Sapendo che era la prima volta che Giacomo stava assieme ad una ragazza e che per lui è sempre stato un po' complicato anche soltanto pensare di avere una ragazza a causa del suo handicap, ne ero felicissimo! Non potevo quindi non filmarla, anche se poco, anche se non sapevo perché. Sapevo solo che era importante. Nel montaggio finale, la presenza di Barbara era indispensabile per dare a tutto il film la sensazione di un presente che è già passato, per dargli lo statuto di scoperta e allo stesso tempo di ricordo”. Tra presente e passato, tra vissuto e ricordo, tra documentario e finzione. In poche parole un'opera che, nella sua scarna semplicità, nasconde la sensibilità di un autore che cerca una strada semplice e per nulla ovvia per addentrarsi in una no man's land rischiosa e poco esplorata.

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