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C'era una volta la città dei matti: la nascita della legge 180

L'impegno sociale torna in prima serata su Raiuno.
di Alessandra Giannelli

Una fiction che stimola discussioni
Fabrizio Gifuni (57 anni) 16 luglio 1966, Roma (Italia) - Cancro. Interpreta Franco Basaglia nel film di Marco Turco C'era una volta la città dei matti.

venerdì 5 febbraio 2010 - Televisione

Una fiction che stimola discussioni
Quando si parla di Franco Basaglia si pensa subito a colui che fece chiudere i manicomi. La legge 180 del 1978 è, infatti, comunemente definita Legge Basaglia e a questa vicenda la Rai dedica la fiction in onda domenica 7 e lunedì 8 febbraio. Cosa succedeva, realmente, nelle "città dei matti"? Con questo interrogativo è stata presentata C'era una volta la città dei matti, la miniserie prodotta da Rai Fiction e Claudia Mori, per la regia di Marco Turco. Una conferenza-discussione perché ad oggi, dopo più di trent'anni, la legge in questione suscita discussioni e dibattiti. Altra miniserie, la quarta specifica il direttore Fabrizio Del Noce, di grande impegno sociale per Rai Uno, augurandosi un successo di pubblico simile alle precedenti, soprattutto perché il film avrebbe già ottenuto il consenso della critica. Approvata ad ampia maggioranza dall'allora parlamento, la Legge Basaglia ha chiuso la vecchia tipologia dei manicomi, di cui la miniserie documenta la gestione, senza però risolvere la situazione come per la legge Merlin con le "case chiuse" suggerisce Del Noce. Sono, pertanto, rimaste delle zone d'ombra e questa è la parte incompiuta (discussa) della legge, attuale del resto, considerato che il problema legato alla mente è ancora un tabù nel nostro paese e questo non fa che peggiorare la situazione. Un problema sociale dilagante che deve essere affrontato anche perché la struttura pubblica non sempre aiuta a risolvere situazioni familiari gravi. Al di là delle importanti e serie tematiche affrontate nella fiction, Del Noce si sofferma sulla qualità artistica della realizzazione perché ha dei momenti angosciosi, ma racconta, con una trama ininterrotta, gli avvenimenti dei protagonisti e dei non protagonisti del manicomio di allora e del post, mescolando i veri malati con coloro che tali non erano, ma che lì dentro avrebbero perso ogni speranza di cura. Una realizzazione preceduta da un grande studio, come ha raccontato diligentemente il regista: "Siamo partiti alla volta di Trieste, abbiamo contattato Beppe Dell'Acqua (direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste e consulente del film) che ha lavorato dieci anni con Basaglia nel manicomio di Trieste. Beppe ci ha aperto tutte le porte, ci ha fatto incontrare tutti gli psichiatri che avevano lavorato con Franco, anche quelli di Gorizia; ma anche tanti infermieri: a Trieste ci sono figure storiche come Mariuccia Giacomini che è stata l'ispirazione per uno dei personaggi della fiction che è Nives, interpretata da Michela Cescon. Un'infermiera, Mariuccia, che all'inizio era uno dei soggetti delle torture inferte ai pazienti come i bagni freddi o la scuffia (la pratica di mettere un lenzuolo sul paziente per far capire che lì non si scherzava). Ma la cosa più importante è stata l'incontro con i pazienti, con quelle persone che avevano vissuto il manicomio prima di Basaglia e poi dopo. Quello che andavamo a raccontare non poteva essere una semplice biografia dello psichiatra, ma un racconto corale perché si trattava di un'esperienza collettiva. L'intento era quello di restituire la realtà, la verità, attraverso le tante storie e i documenti che avevamo appreso, a partire dal racconto di Sergio Zavoli Il giardino di Abele del 1968 quando, d'accordo con Basaglia, l'autore portò le camere da presa all'interno di un manicomio. Un lavoro di sceneggiatura assai approfondito anche con gli attori perché non c'è niente di più rischioso che mettere in scena la malattia mentale, si può fare una caricatura. Abbiamo voluto, anche con grandi difficoltà produttive, girare nei luoghi veri, anche se a Gorizia oggi il vecchio manicomio è stato trasformato. I manicomi erano un insieme di padiglioni, tante piccole città, di qui il nome della fiction. Siamo stati nel manicomio di Imola e di Trieste. I materiali, i letti, i camicioni, le camicie di forza sono quelle reali. Anche la partecipazione sul set ha visto la presenza di tanti operatori e pazienti (a Trieste esiste l'Accademia della follia dove persone con disagi mentali fanno teatro). Un'esperienza di vita per tutti: il confrontarsi con il diverso c'ha fatto capire cosa stavamo facendo".

Fabrizio Gifuni, sei destinato ad interpretare grandi personaggi. Qui sei Basaglia: puoi raccontarci questa esperienza?
Inizio a provare un certo imbarazzo nel parlare di questo tipo di lavoro perché un attore si ritrova a vestire i panni del tuttologo, ma io non mi sento autorizzato a parlare di cose così complesse, mi limito a parlare di quello che ho cercato di fare. Non credo ci sia una difficoltà maggiore o minore nell'affrontare personaggi realmente esistiti piuttosto che di fantasia. L'impegno creativo è lo stesso, cambia il lavoro di preparazione perché tentare di riportare in vita personaggi esistiti, richiede tempo e pazienza. Al termine di questa fase di lavoro puoi tentare la cosa più folle che c'è, che è ridare vita ad un prototipo umano, conquistare lo sguardo di una persona che non hai conosciuto, ma che diventa viva dentro di te. In questa seconda fase, è necessario dimenticare quello che si è conosciuto per tentare una via interpretativa originale e non rimanere schiacciato dal modello. C'è un grande senso di responsabilità che all'inizio ti attanaglia, che è un po' una grande trappola, ma io sono orgoglioso di aver fatto questo film, questo viaggio. Una delle cose che mi ha convinto è stata la sceneggiatura perché una delle cose più intelligenti mi è sembrata quella di non raccontare la biografia di Basaglia perché sarebbe stata la cosa più antibasagliana e sarebbe stato sbagliato scegliere un punto di vista privilegiato, visto che è stata un'esperienza di trasformazione collettiva. E' dai tempi de La meglio gioventù che non vivevo un'esperienza collettiva così felice, anche per la qualità dei risultati. Non basta un uomo solo per cambiare le cose perché è anche la storia di un paese.

Vittoria Puccini, interpretare la follia è una bella prova per un'attrice?
Ho visto il film ieri sera e l'unica cosa che mi sento di fare oggi è ringraziare. Sono orgogliosa di aver avuto la possibilità di girare questo film. Devo ringraziare Claudia Mori perché mi ha permesso di farlo, venendomi incontro con gli altri impegni che avevo, ma anche il regista perché è il sogno di ogni attrice potersi confrontare con un ruolo di questo tipo. E' una scrittura di ferro e mi ha aiutato tanto ad entrare nel mio personaggio. Era da tanto che non mi emozionavo così ad una conferenza stampa. Il cinema è collaborazione ma, in questo caso, se non hai l'appoggio dei colleghi e di tutti gli altri, dai costumi al trucco, è difficile rendere bene. Grazie a tutti!.
"Vittoria – aggiunge il regista – ha dato veramente tutta se stessa perché varie volte si è fatta male. Nella scena della scuffia non ha detto nulla, poverina!"
Beppe Dell'Acqua, ci dia una testimonianza diretta.
Quando è arrivata questa storia siamo rimasti colpiti e preoccupati perché è una materia incandescente, ci sono temi di attualità visto che nel film si andavano a raccontare fatti drammatici. Come si poteva raccontare tutto questo senza influssi ideologici? Alla fine, dopo i primi incontri, è stato entusiasmante veder lavorare questo gruppo. Questa storia è stata raccontata con grande delicatezza, senza togliere nulla alla drammaticità e al senso della stessa. Io non mi aspettavo l'attenzione e le parole che leggo questi giorni e sono grato a voi che avete sostenuto questa impresa, affrontando un tema simile. Una giornalista parlava di "terapia sociale" con questo film, ma la speranza è quella di uscire dalla piattezza, dai luoghi comuni.

Alberta Basaglia: quanto è importante il film? Come ha vissuto da figlia questo percorso di suo padre e sua madre?
Molto importante il film. Io vorrei ricordare a Claudia Mori e Marco Turco, che sono venuti a Venezia a proporci questa avventura, come abbiamo reagito mio fratello ed io e cioè rispondendo che non volevamo fare questa cosa; non volevamo sentirci invadere e che si dicessero delle cose sbagliate su quello che è successo nella vita nostra e di chi ha partecipato. Abbiamo tentato di convincerli a non farlo, ma quando abbiamo capito che non potevamo riuscire ad impedirglielo, abbiamo detto di non volerne sapere nulla fino a quando non finiva perché volevo essere messa nella condizione di poter dire, pubblicamente, che era brutto. Siccome, invece, sono qui e vi sto raccontando questa cosa, credo che sia sufficiente che ve lo racconti senza sperticarmi in lodi ed elogi per questo film. Poi, su cosa abbia voluto dire per me, ha voluto dire molte cose; io sono quella che sono perché sono cresciuta lì e che se a tanti ragazzini fosse data la possibilità di crescere in un clima simile, in cui ognuno conta su chi gli sta vicino e dove c'è la voglia di vedere la soluzione e si capisce che si trova, tanti adulti potrebbero capire ciò che succede, avvicinarsi alla diversità, agli altri, senza avere tanta paura.
Claudia Mori, come ha combattuto per questo film?
Quando penso di fare una fiction o un film parto da un mio desiderio di realizzare qualcosa che sento per motivi diversi: artistico, ma anche civile come non sprecare denaro. Un giorno sono andata da Marco e gli ho fatto leggere una sceneggiatura che parlava di due personaggi un po' matti, lui l'ha letta e mi ha detto di allargare il coraggio e di fare una storia sulla legge 180, su quello che ha creato e che ancora oggi è attuale. Io, che non sono normalissima, gli ho detto subito di si! Mi rendevo conto, insieme a Marco, che non sarebbe stato facile. Poi c'era lo scoglio di proporlo alla Rai, ma io sono una che non molla, una passionale combattiva e ho cominciato a fare la mia 'guerra da produttrice'. Poi c'è stato un momento intermedio, c'erano un po' di dubbi visti i temi, ci volevano tanti elementi che dovevano portare a realizzarlo. Grazie a Del Noce che, ad un certo punto, ha detto che l'avrebbe messa in onda, non saremmo qui. Adesso, per esempio, stiamo trattando il tema della violenza sulle donne, che adesso ha il titolo Un corpo in vendita (quattro storie singole per la regia di Liliana Cavani, Margarethe von Trotta e Marco Pontecorvo). Ringrazio la stampa e spero che Basaglia venga accolto come merita.

La fiction tratterà anche delle polemiche che la 180 ha suscitato?
Marco Turco: La prima parte della fiction racconta i dieci anni di Gorizia, la seconda i dieci di Trieste dove si passa all'apertura del manicomio che si apre alla città. Questo momento, noi l'abbiamo ricostruito con l'uscita di 'Marco Cavallo', una grande scultura in legno e cartapesta che costruirono i pazienti del San Giovanni di Trieste, insieme a degli artisti che collaboravano con gli psichiatri (Basaglia aveva fondato il laboratorio d'arte Arcobaleno, dove i pazienti facevano pittura, scultura, teatro). Il cavallo fu disegnato da una paziente per metterci dentro tutti i suoi desideri e si decise di farne una scultura dentro la quale tutti riponevano i loro desideri. Il cavallo uscì per la città e la attraversò tutto. La seconda parte racconta l'uscita dal manicomio e il confronto con la società e quindi la creazione del primo centro di salute mentale, voluto dagli assistenti di Franco, Dell'Acqua in primis; è stato il primo esperimento di affrontare la malattia mentale in un altro modo e lì raccontiamo il problema del lavoro attraverso una citazione di Matti da slegare, un documentario che fecero Rulli, Petraglia, Bellocchio, Agosti. Tutte queste difficoltà vengono raccontate fino al momento in cui c'è la legge e poi c'è una parte finale che fa capire che questa legge avrà un cammino molto difficile, ma che un obiettivo fondamentale l'ha raggiunto e cioè quello di restituire i diritti a quelle persone cui erano stati negati solo perché diversi.

Il personaggio interpretato che cosa vi ha lasciato?
Thomas Trabacchi (Lampo): "Quando si lavora con Marco Turco si fa un lavoro di preparazione nutriente, non solo come attore, ma come uomo. Il mio personaggio è ispirato ad un paziente che si chiama Umberto Principe, che io ho conosciuto veramente e non riesco a trovare una parola per dirvi quello che mi ha lasciato dentro, ma mi ha reso ricco umanamente e questo credo riguardi tutti. Un'esperienza umana che si lega al lavoro di Franco Basaglia e anche a quello che la Rai sta facendo ultimamente, rimettendo l'uomo al centro della vita, non più come una mera funzione economica perché è questo che stiamo diventando".
Tiziana Bagatella (Elsa): "Anche io ho avuto il privilegio di lavorare in questa produzione e ringrazio Marco per avermi affidato un ruolo che sulla carta difficilmente avrei scelto. Sono la mamma di Vittoria Puccini, e esprimo molto del territorio friulano; c'è un'adesione di questo personaggio alla realtà molto forte. Lei è costretta a sistemare questa figliola 'vivace' in manicomio ed emergono elementi del territorio friulano come il bigottismo o il problema dell'alcol".
Sig.ra Basaglia, qual è, nella sua esperienza, un episodio che l'ha colpita?
Ho i ricordi che tutti hanno della propria infanzia. Mi ricordo di essere stata felice, angosciata, ma anche di aver avuto paura, ma tutto questo mi ha permesso di essere la persona che sono.
Che cosa vorrebbe vedere realizzato che renda grazie alla Legge Basaglia?
Basaglia: Vorrei vedere quello che sto vedendo. Quello che ha iniziato mio padre lo stanno continuando i suoi collaboratori e anche altri. Sto vedendo una fatica che tante persone stanno facendo per riuscire a far si che non si torni indietro. Non mi aspetto che, con una bacchetta magica, spariscano i matti.
Nel film, lei ha ritrovato suo padre?
Basaglia: "Si, l'ho ritrovato, tanto che, da quando ho conosciuto Fabrizio, lo chiamo Professor Gifuni!".

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