Sacha Guitry. Data di nascita 21 febbraio 1885 a San Pietroburgo (Russia) ed è morto il 24 luglio 1957 all'età di 72 anni a Parigi (Francia).
Il tout-Paris non ama le miscele, i mutamenti, i violinisti di Ingres: Jean Renoir scrive una commedia? La si definisce cinematografica, antiteatrale; allo stesso modo Jean Cocteau non sarà che un giocoliere, un tutto fare; e, se si crede alla leggenda, si voleva impedire al romanziere Jean Giraudoux di scrivere per il teatro. Questi tabù, questi interdetti, queste etichette obbligatorie sono affare dei mediocri, degli imbecilli, gelosi della loro specializzazione. Per ciò che riguarda il cinema, è la tecnica complicata che è più spesso invocata per scoraggiare gli artisti provenienti da un’altra disciplina.
Sacha Guitry non aveva complessi e tanto meglio per il cinema francese che gli deve così una dozzina di buoni film tra i quali i migliori (di quelli che ho potuto vedere) sono probabilmente: Ceux de chez nous (1919), Le roman d’un tricheur (1936), Faisons un rêve (1936), Désiré (1938), Remontons les Champs-Elysées (1938), lIs étaient neuf célibataires (1939), Deburau (1951), Assassins et voleurs (1957) e da ultimo Les trois font la paire (1957). Sacha Guitry era un rafforzatore, detestava soffermarsi a levigare un film: era soddisfatto della sua sceneggiatura, sicuro dei suoi interpreti, gli piaceva riprendere il più in fretta e i più comodamente possibile, usando a volte due cineprese che ronzavano contemporaneamente, uno spettacolo necessariamente cinematografico in quanto impressionato su pellicola. L’espressione teatro filmato fu coniata per marchiare il cineasta che osa filmare una pièce teatrale senza inserirvi scene di strade, un inseguimento sui tetti, due automobili e un cavallo imbizzarrito. Celui qui doit mourir (Colui che deve morire, 1957) di Jules Dassin, adattato da un romanzo e filmato interamente all’aperto, è certamente più teatro filmato di quanto non lo sia Faisons un rêve, pièce assolutamente perfetta e non migliorabile nemmeno per la trasposizione sullo schermo.
“È cinema o non è cinema?», ci si ripete spesso. Che beffa! Nessuno ha mai notato che il neorealismo italiano, la biancheria sporca lavata in pubblico per le stradine di Napoli, è nato direttamente non dai film di Carné o di Feyder, registi “realisti”, ma da quelli di Marce! Pagnol, cioè da testi teatrali filmati tali e quali dal loro autore.
Nel 1936, Sacha Guitry girò quattro film. Pensate, quattro film in un anno. Per fortuna, li conosco tutti e quattro: Le nouveau testament, commedia di costume sul gigolisme favorito da un appuntamento mancato. Si veniva a sapere qui che esistono a Parigi tre statue di Giovanna d Arco, di qui una cascata di malintesi spassosissimi. Le roman d’un tricheur, considerato giustamente come il capolavoro di Sacha Guitry, film picaresco per due terzi commentato, ricco di trovate inedite, e mai più riprese. Faisons un réve, prodigiosamente interpretato in una sola scena da Sacha Guitry, Jacqueline Delubac e Raimu. Le mot de Cambronne (1937), mediometraggio ricco di invenzioni e di divertimento.
Rivedere oggi questi film e confrontarli con i falsi capolavori dello stesso periodo costituisce una lezione istruttiva. Sacha Guitry fu un vero cineasta, più dotato di Duvivier, Grémillon e Feyder, più divertente e certamente meno solenne di René Clair.
Sacha Guitry ha attraversato la storia del cinema incurante di mode e di tendenze, non ha mai fatto il realismo poetico o il realismo psicologico, o la commedia all’americana. Ha fatto sempre il Sacha Guitry, vale a dire che col favore di una trovata generalmente divertente ricamava su dei temi che gli erano congeniali: il vantaggio dell’incostanza amorosa, l’utilità sociale degli asociali: ladri, assassini, gigolo e carampane, sempre il paradosso della vita; ed è appunto perché la vita è paradossale che Sacha Guitry fu un cineasta realista.
Il cinema vive, sopravvive e si suicida per un certo numero di clichés che complicano le incombenze degli sceneggiatori, sempre stanchi in anticipo. Nella produzione corrente, un ladro non potrebbe essere un personaggio simpatico a meno che non rubi per eroismo, per generosità come Mandrin, Cartouche o Arsenio Lupin. Ugualmente l’adultera deve essere necessariamente antipatica a meno che suo marito non sia un sozzone o un deficiente e il suo amante un attore giovane di prestigio. Se molti film sono già in partenza brutti e esasperanti è per la loro servile osservanza di queste regole sedicenti dettate dalle abitudini del pubblico. Davanti a quasi tutti i film uno spettatore non dico sovversivo ma solamente civilizzato reagirà in modo contrario e simpatizzerà con i personaggi che gli autori hanno voluto odiosi, tanto che risulteranno leziosi e pesanti i personaggi che si volevano simpatici.
Con Sacha Guitry come con Renoir – al quale si imparenta per certi punti in comune: una misogenia affettuosa che cresce di anno in anno, l’idea che solo la pelle della donna che si ama conta – questa nozione di personaggi simpatici o antipatici sparisce a vantaggio di uno sguardo più indulgente ma assai più lucido sulla vita come essa è: una commedia in cento atti diversi di cui solo lo schermo può offrirci il dipinto più esatto.
Il segreto di Renoir si chiama la familiarità, quello di Guitry la malizia. I loro film si corrispondono e legano per l’originalità e la franchezza con le quali trattano il primo soggetto del mondo, i rapporti tra gli uomini e le donne, e anche il secondo grande soggetto i padroni e i servi. Guitry e Renoir si ricollegano per una semplicità che autorizza ogni loro fantasia, un senso del realismo che rende poetiche tutte le loro disinvolture, senza dimenticare in tutti e due un solido pessimismo appena mascherato senza il quale l’amore dichiarato per la vita rende qualsiasi opera necessariamente sospetta.
I dialoghi, le scene d’amore, i rapporti sentimentali nella maggior parte dei film sono di una falsità incredibile. In quelli di Sacha Guitry la verità sorge bruscamente alla fine di ogni scena con una forza tale che quasi si sobbalza. In Le nouveau testament il giovane gigolo invitato a pranzo arriva in anticipo; il marito può arrivare da un momento all’altro e il gigolo propone alla borghesuccia: “Via, e se facessimo l’amore? Così, dietro la porta, in fretta ti giuro che facciamo in tempo”. Lo stesso personaggio in Le roman d’un tricheur fa il lift: nell’ascensore Marguerite Moréno lo nota. L’ascensore esce dal quadro in alto. In basso tutti aspettano l’ascensore che non discende più: quando finalmente arriva, il piccolo lift guarda l’orologio nuovo che ha appena ricevuto: Sacha Guitry è il fratello francese di Lubitsch.
Dopo molti film francamente mediocri, Toa (1949), Aux deux colombes (1949), ci fu una bella sorpresa, La poison (1951). L’idea era presa da un fatto di cronaca insolito: avendo deciso di uccidere sua moglie, un uomo (Michel Simon) consulta un avvocato facendogli credere che il delitto è già stato commesso: forte delle osservazioni del “chiacchierone” che sono per lui altrettanti consigli involontari, egli pugnala sua moglie, avendo tutte le circostanze attenuanti possibili e ottiene, con nostra grande gioia, l’assoluzione.
Si trova qui il tema abituale di Sacha: fare a sangue freddo, cinicamente ciò che generalmente si compie nell’ebbrezza o nella collera, mutare la legge e mettersi in regola con la società stando al suo gioco. Ma questa volta ciò che importava erano le scene del ménage dei vecchi coniugi, di un’asprezza e di una crudeltà che facevano pensare in certi momenti a ciò che di meglio si è fatto nel cinema realista: L’Atalante di Jean Vigo, Foolish wives (Femmine folli, 1921) di Stroheim. La donna, il “veleno” insultando Michel Simon, trattandolo da coglione, da rompiscatole, il suo odio decuplicato dalla calma prima del delitto, ecco un’uscita la cui crudezza, letteralmente, ci raggela.
In Les trois font la paire, che Sacha Guitry morendo non ha nemmeno diretto, è indiscutibile che Sophie Desmarets, Darry Cowl, Philippe Nicaud, Clément Duhour, Jean Rigaux davano il meglio di sé. Perché? Semplicemente perché il dialogo era così vero, così esatto che non poteva essere recitato male e che gli attori lasciati a se stessi trovavano in modo del tutto naturale il tono giusto, quello nel quale il testo era stato scritto. Non è inutile ricordare questa scena comica di Jean Rigaux steso nel suo letto di morte, in divisa di alto ufficiale, nel suo ruolo preferito. Sacha Guitry che veniva detto pretenzioso e fatuo sapeva prendersi gioco di se stesso e della morte al momento opportuno.
La delicatezza, l’umanità di Sacha Guitry: se ne trova una traccia recente in questa scena di Si Paris nous était conté (1956) quando il sosia di Enrico IV, che rischiava la vita ogni giorno “doppiando” il re in città, entra a casa sua dopo la sconfitta di Ravaillac accolto da sua moglie in lacrime che l’abbraccia dicendo: “Finalmente siamo liberati da questo incubo”.
C’è infine a risarcimento di questa immensa derisione dell’amore lungo tutta la sua opera, un culto dell’amicizia e dell’ammirazione quasi sconvolgente. Il primo film di Sacha Guitry, Ceux de chez nous ci mostra, “in muto”, gli artisti che il giovane Sacha ammirava di più: Mirbeau, Auguste Renoir, Claude Monet, Rodin, Degas, Saint-Saëns, Anatole France. Nel suo ultimo, Les trois font la paire, rende omaggio a Simenon, Alfred Jarry e Michel Simon. L’ultima immagine cinematografica che conosciamo di lui, è il prologo di questo film, quando telefona al suo vecchio amico Albert Willemetz e gli dà l’addio piegando un po’ il volto perché la sua magrezza non ci colpisca troppo.
Due anni fa, durante le riprese di Assassins et voleurs, ho voluto intervistare Sacha Guitry; il segretario mi disse che era possibile a condizione di preparare le mie domande e di farle leggere preventivamente al Maestro. Stupidamente rifiutai: ero scemo quel giorno.
Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975