Senz'ombra di dubbio, si tratta del regista meno prolifico della sua generazione, e anche di quello più fermo nel perseguire determinati obiettivi. Rispetto a Rossellini, il cui ascetismo stilistico è spesso contraddetto da un gesuitismo morale discutibile, per Pontecorvo avviene il contrario. Il rigore ideologico e la difesa a oltranza della coerenza di un proprio progetto costituiscono sì un elemento irrinunciabile, ma non di rado i compromessi e le cadute avvengono proprio sul piano espressivo (già nei due primi film, e in maniera più evidente in Kapò, in cui gli elementi e le soluzioni melodrammatiche disturbavano non poco la bontà del discorso ideologico e morale presupposto). Pontecorvo ha compiuto all'inizio la scelta di voler raccontare i suoi film, utilizzando al meglio le risorse produttive. Della sua filmografia si contano cinque titoli, realizzati a lunghi intervalli l'uno dall'altro. Tra Queimada e Ogro passano circa dieci anni. A partire dalla Battaglia di Algeri del 1966 Pontecorvo pone al centro dei suoi interessi momenti di storia presente e passata che abbiano valore di grandi rotture, di svolte rivoluzionarie. In pratica tenta di documentare, grazie alle suggestioni degli scritti di Franz Fanon e al sodalizio con Franco Solinas che lo ha accompagnato dal primo film, come, a partire da un'opposizione circoscritta, che mette in atto sporadici tentativi di guerriglia, si possa passare alla lotta di popolo, al risveglio della coscienza collettiva.
Nessuno dei quattro ultimi film mostra un diretto coinvolgimento nei confronti della storia e della realtà nazionale.
Il caso di Pontecorvo e di Franco Solinas con lui, è forse il più emblematico della biografia di una generazione che continua a coltivare sogni utopici di rivoluzione e attua i propri transfert di desiderio attraverso storie geograficamente e temporaneamente distanti, ma sentimentalmente ed emblematicamente assai vicine.
In un paese in cui il partito comunista ha perseguito sempre, con coerenza una linea di freno e controllo di tutte le spinte e frange estremistiche e pulsioni rivoluzionarie, sembra formarsi nel cinema, in uno spazio che attraversa vari generi, una sorta di zona franca in cui non solo si simpatizza con il sogno rivoluzionario, ma in un certo modo se ne stabiliscono ideali, genealogie, nobilitandone le ascendenze.
L'unico soggetto non realizzato (ideato con Franco Solinas) avrebbe dovuto parlare di un aspetto della lotta politico-sindacale negli anni della guerra fredda, rimosso dalla memoria nell'Italia del miracolo economico. Si intitolava Confino Fiat e voleva raccontare la storia di un reparto speciale della fabbrica automobilistica torinese in cui venivano confinati negli anni Cinquanta i sindacalisti o gli operai considerati come più pericolosi dalla direzione della fabbrica.
In senso storico, quella che è chiamata «la battaglia di Algeri» segna la sconfitta militare e politica del Comitato di liberazione nazionale algerino a opera dei paras francesi. È un episodio di guerriglia urbana, che ha visto momentaneamente vincitrici le truppe francesi, i cui comandanti non hanno capito come l'opposizione fosse altrimenti diffusa nelle campagne. Su un impianto di rigorosa documentazione storiografica Pontecorvo dilata poi, in senso spettacolare, le fasi degli attentati. Per raggiungere il massimo effetto, il regista frantuma il tempo giocando sugli effetti di suspense coinvolgenti al massimo, mentre la ricomposizione cronologica degli avvenimenti è fatta attraverso didascalie con funzione straniante. Il film, proprio per la sua capacità di risolvere un'equazione in apparenza impossibile di discorso rivoluzionario in termini di spettacolo, costituisce un punto di riferimento importante per il cinema politico e riscuote grandi consensi. Grazie anche alla splendida fotografia di Marcelle Gatti che dà alle immagini il senso dell'immediatezza e della verità documentaria, La battaglia di Algeri viene acclamata in tutto il mondo come un'opera che possiede una forza visiva e un realismo che non sembra solo debitore del neorealismo, ma che sembra piuttosto rifarsi al Quarto potere di Orson Welles. Pontecorvo rivela doti di grande narratore epico, confermate dal successivo Queimada, in cui l'apparenza documentaristica della Battaglia d'Algeri è lasciata da parte per poter raccontare la storia in termini di grande spettacolo.
Giustamente una critica americana ha osservato che dal punto di vista tematico Queimada comincia proprio dove finisce La battaglia di Algeri: Queimada affronta, in termini assai più generali ed emblematici, il tema del neocapitalismo e vi investe una passione e una partecipazione non inferiori a quelle del film precedente. Questa forza interna che l'opera rivela ha il potere di trasmettersi e di costituire un modello esemplare per tanto cinema sudamericano degli anni Settanta. «Siamo tutti un po' debitori verso Queimada» ha confessato Miguel Littin, un regista la cui opera sembra nascere da quella di Pontecorvo.
La sua opera deve essere ancora studiata per la coerenza ideologica e la discontinuità stilistica, ma anche per l'estrema importanza organizzatrice del sistema dei segni e strutturale della musica. La musica per lui - che ha una vera competenza avendo studiato composizione con un grande maestro, Rene Leibowitz - come per i fratelli Taviani non è un segno aggiunto, ma la partitura che determina il senso, la prosodia, la sintassi, la metrica e la ritmica del film. Dopo una serie di progetti abortiti, in cui vorrebbe abbandonare gli interessi per la cultura terzomondista e tornare a guardare le tensioni della realtà italiana, Ogro è l'ultimo film centrato sull'attentato all'ammiraglio spagnolo Carrero Bianco. Nella ricostruzione dell'attività terroristica, Pontecorvo modifica in parte il suo stile, guardando in particolare a Rosi, e cerca di far apparire in trasparenza, oltre la vicenda spagnola, anche quella italiana.
«Film di riflessione e di dibattito - come giustamente è stato definito da Militello - Ogro si interroga sulla misura del terrorismo, su quanti confidano in esso, su cosa lo giustifica come forma di lotta all'oppressione o lo qualifica come l'arma più abietta e più odiosamente contraria agli stessi principi socialisti: tragica realtà (anche) di un'Italia divisa tra reazione e giacobinismo».
In realtà il film è forse l'ultimo esempio del desiderio di gruppi sempre più ristretti di intellettuali di muoversi sotto le bandiere del sogno di una rivoluzione impossibile. L'orizzonte ideale è venuto restringendosi e le minuziose descrizioni degli attentanti, la professionalità degli esecutori nel centrare i loro obiettivi, la completa solitudine e mancanza di rapporto con le masse in nome delle quali dichiarano di agire, la perdita delle ragioni ideali in nome delle quali uccidere fanno di questo film l'atto d'addio a un'idea di rivoluzione rimasta viva per decenni e molto probabilmente seppellita per sempre sotto i colpi delle Brigate rosse.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007