Marco Ferreri è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, scenografo, è nato il 11 maggio 1928 a Milano (Italia) ed è morto il 9 maggio 1997 all'età di 69 anni a Parigi (Francia).
Poter vedere in rassegna completa tutti i film di Marco Ferreri è pure un'occasione bellissima per riflettere sui mutamenti avvenuti durante quasi quarant'anni nella nostra vita, nelle nostre società: nessun regista ha saputo come lui intuire, cogliere, raccontare i grandi cambiamenti del costume. Lo ha fatto senza asservire il suo talento al piccolo realismo quotidiano né all'imitazione piatta della realtà, senza rinunciare alle ricchezze dell'immaginazione né alla maestria cinematografica: i suoi film anticonformisti, provocatorii, anarchici, sardonici, crudeli, sempre all'avanguardia, possono essere visti oggi come documenti esatti e seri dell'epoca. Se La grande abbuffata, storia di quattro amici che si chiudono in una villa per mangiare sino a morirne, rappresenta la metafora più forte della società dei consumi che divora se stessa; se L'ape regina e L'udienza sono simboli eloquenti d'un cattolicesimo ipocrita e misantropo, è soprattutto nei rapporti tra uomini e donne che Ferreri ha capito e narrato la massima mutazione. La nuova libertà delle donne occidentali, la padronanza di sé e della specie portata dal controllo della maternità attraverso la pillola, sono al centro di film cruciali, L'harem, L'ultima donna, Ciao maschio, Il futuro è donna; il dolore, il furore, la solitudine degli uomini spodestati dall'identità smarrita sono al centro di Dillinger è morto, Chiedo asilo, I love you, Diario di un vizio. Ma nell'opera di Marco Ferreri non mancano anche altre questioni essenziali del Novecento quali il rapporto tra Paesi del benessere e Paesi della fame (Come sono buoni i bianchi) o la nuova condizione dei vecchi sempre più numerosi nella senescenza della popolazione (La casa del sorriso). Nei suoi film bellissimi o meno belli, a volte apparentemente semplici come una parabola o una didascalia, Ferreri ha anticipato e illustrato il nostro mondo cambiato con una visione unica: senza ideologie né moralismo, senza pedanterie né nostalgia, con curiosità, comprensione fraterna, ironia, tenerezza, e con un'intelligenza meravigliosa.
Da La Stampa, 29 Novembre 1997
Un anticipatore. questo e (stato) Marco Ferreri. e scorbutico, irriverente, provocatore. Un regista mai uscito dal suo coerente, coraggioso, sfrontato percorso. Un autore a cui poco interessavano le storie personali e molto i sistemi globali. Il primo, forse nel mondo, ad accorgersi in tempi lontani di quanto il Pianeta Terra avrebbe avuto a che fare con l’involuzione: della specie umana, dell’ambiente, della cultura. Il primo, ancora, a denunciare (ma alla sua maniera, caustica e sbeffeggiante, anarchica e libera) l’imbarbarimento contemporaneo. Prendete, ad esempio, Ciao maschio, parabola sulla fine dell’uomo dei 1967, che usa i grattacieli di New York come uno specchio deforme e un fondale allucinato dell’asfissia urbana dentro alla quale uomini e donne hanno deciso di consumare gli ultimi bagliori della cosiddetta Era Moderna. Film speculare a molti altri lavori di Ferreri da Il seme dell’uomo (1969) a L ‘ultima donna (1976) a Il Futuro è donna (1984), favole per adulti crudeli e sadiche, dove il Marco meno svalutato della storia dei cinema si divertiva come un matto a scolpire rughe sui volti e i corpi malandati degli esseri umani e non umani. Convinto da sempre della superiorità storica, fisica e intellettuale delle rappresentanti dell’altra metà del cielo (ai titoli già citati vanno aggiunti almeno L’ape regina, dei 1963, e Storia di Piera, realizzato esattamente vent’anni dopo), Ferreri ha vivisezionato gli aspetti antropologici dell’uomo, sottolineandone continuamente le scomode contraddizioni. Spudorato (si pensi a La grande abbuffata), di un nichilismo solo in apparenza disperato, che da un lato celava affettuose e scandolose tenerezze e dall’altro sogghignava (per esempio I Love You), col suo cinema avvertiva e profetizzava, lanciando anatemi senza urla e proclami, rivestiti di sottilissima ironia e direzionati da uno sguardo lucido che andava a braccetto con un iperrealismo assai speciale. Intellettuale di strada attratto dall’avventura (tanto per dirne una, ha cominciato a fare cinema nella Spagna di Franco), è stato tra i pochissimi cineasti della sua generazione a guardare oltre, a intuire quanto le periferie del mondo si sarebbero trasformate in agglomerati ancor più degradati ed espulsi dalla centralità capitalistica. Nessuno come lui ha saputo, in anni in cui la politica era quasi esclusivamente ideologica e dogmatica, raccontare e mostrare i lati nascosti dei mondo e l’impossibilità di essere normali. La crisi esistenziale dei maschio che non può che ripiegare verso il suicidio (Dillinger è morto) o l’autoevirazione (L’ultima donna), i casermoni di Chiedo asilo (ig8o), le ipocrisie sulla fame dei terzi mondi (Come sono buoni i bianchi), le nostalgie sui corpi (La carne, Diario di un vizio), sulle passioni impossibili (La cagna) e sul cinema (nel suo bellissimo congedo: Nitrato d’argento). E la complicità di attori che con lui si rivitalizzavano. A cominciare da Ugo Tognazzi, vero e proprio feticcio, e Marcello (Mastroianni) che di Ferreri si fidava al punto di mettere in gioco continuamente la sua stessa identità di sex symbol, latin lover e commediante. A Ferreri non piacevano le banalità, ma le idee e i personaggi forti. Giocando con la cinepresa a ribaltare schemi, a usare attori non attori (Jannacci), attori poco attori (Calà), carni (la primissima Ferilli) ed effimere icone della nostra epoca (da Lambert alla Dellera). Nato a Milano ma sudista del mondo, Ferreri è morto a Parigi, capitale che seppe ricambiare con strepitosi scorci e dentro la quale si muoveva come un privilegiato clochard .
Da Film Tv, n. 39, 2004
Il sarcasmo surreale eretto a sistema di ricerca antropologica. Gli uomini sono animali idioti (per effetto dei pregiudizi diffusi dalle religioni e dalle morali, nonché dalle abitudini), che debbono essere analizzati con distacco e divertimento. Ferreri - studente pigro che si trasforma in piazzista, in giornalista, in rappresentante di obbiettivi per macchine da presa - arriva al cinema, in Spagna, con queste semplici idee in testa. E produce satire antiborghesi e anticattoliche. Dei tre film spagnoli, El cochesito (1960) è il più crudele: prende di mira i vecchi. Ma la crudeltà rimbalza subito nei film girati in Italia: Una storia moderna - L'ape regina (1963), requisitoria contro il matrimonio; La donna scimmia (1964), sul personaggio patetico di una derelitta circuita da un cialtrone (Tognazzi); Dillinger è morto (1969), ritratto glaciale e atroce di un imbecille, ingegnere borghese dentro la società borghese. Non è necessario citare tutti i film di Ferreri per inquadrare la sua tesi. Basta osservare i più scabri e lucidi, i più gonfi di indignazione sarcastica.
La grande abbuffata (1973) ha un piglio quasi epico nel descrivere l'incontro di quattro amici a Parigi per una lugubre orgia alimentare. Non toccare la donna bianca (1974) trasforma la buca dove sorgevano le Halles demolite in un set per una fiaba western, con cavalleria, indiani e spie, ottenendo effetti di grande ilarità. Ciao maschio (1978) descrive una New York astratta, da incubo, per raccontare l'autodistruzione di un matto che rifiuta l'amore. Chiedo asilo (1979) affida al folletto Roberto Benigni il compito di salvare l'umanità e la ragione. Al limite della stravaganza fine a se stessa, Il futuro è donna(1984) non aggiunge nulla al quadro dell'idiozia umana. E nulla aggiungono nemmeno La casa del sorriso che pure, nel 1991, riceve l'Orso d'oro a Berlino (variazione ormai stanca sui temi della vecchiaia e della impossibilità dell'amore), né La carne (1991) dove si riprende il discorso di La grande abbuffata spostandolo sul versante della antropofagia, ma senza il necessario scatto macabro, né Diario di un vizio (1993), storia di un cretino e di una ragazza. Il Ferreri autentico è l'altro, il primo: un surrealista anarchico in saporita salsa italiana.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Partiti tutti con lo sguardo rivolto al presente, registi come Pasolini, Bertolucci e Olmi hanno cercato di vedere oltre l'immediatezza dei dati, per capire la persistenza del passato, la difesa e la lotta per la sopravvivenza di una civiltà contadina e di culture che stanno scomparendo.
Meno interessati alla ricomposizione di questi mondi in via di sparizione, altri autori, come Marco Ferreri o Paolo e Vittorio Taviani, usano il presente tentando di decifrarne il senso degli sviluppi possibili: il mondo (e l'uomo) non com'è e come è stato, ma come potrebbe, dovrebbe essere o presumibilmente è destinato a diventare. Su tutte le loro storie, anche quelle dislocate in epoche passate, questi autori pongono interrogativi totalizzanti e portano i loro personaggi a compiere scelte decisive.
Di qui il senso di maggiore inquietudine, di spiazzamento dello spettatore, di deformazione di tutte le misure di rappresentazione, di dilatazione iperbolica o ipertrofica di determinati elementi che entrano nel cerchio vitale quotidiano come sintomi o come semplici segni innocui. Sul versante dell'ideologia o della comunicazione interpersonale i film sia dei Taviani che di Ferreri sviluppano curve di previsione, esasperano linee di tendenza, ci parlano sempre di eventi che si svolgono o subito prima o subito dopo l'apocalisse.
Rispetto agli autori di cui finora si è parlato, che hanno una storia iscritta in una serie di avvenimenti ben identificabili e legati a una precisa esperienza spazio-temporale, Marco Ferreri è un regista nomade, privo di un naturale habitat culturale. Ma è anche colui che sviluppa un proprio processo espressivo e tematico sulla condizione dell'uomo contemporaneo con maggiore coerenza; disponendo i suoi film come capitoli successivi di una medesima opera. Su di lui e sulla sua opera, come ha osservato Alberto Scandola nella più recente monografia sul regista, a pochi anni dalla morte «è calato il silenzio [...], una sorta di oblio ha inghiottito il suo cinema nello stesso modo leggero e indolore, con cui il mare ne aveva inghiottito i fragili antieroi».
Anche nel suo bagaglio culturale l'esperienza neorealista ha un ruolo indispensabile: le prime opere, in effetti, partono da una situazione realistica, per evolvere - in base allo scontro di elementi antitetici - verso esiti surreali o dell'assurdo. Per Ferreri realtà e astrazione non sono dati opposti, ma complementari e congruenti.
In genere non gli interessa la registrazione fenomenologica del presente: il presente gli appare subito il luogo d'incontro tra un mondo preistorico di riti, convenzioni tribali e un futuro che promette assai poco di buono. In questo futuro potranno mutare le strutture apparenti, non la condizione di solitudine, di alienazione, per cui l'uomo deve ancora inventare o trovare una possibilità di uscita. «La mia sola morale - dirà ancora nel 1977 - è quella di fare film negativi». Sviluppando all'estremo una situazione comune, Ferreri mostra come la vita quotidiana sia immersa in una sorta di fantascienza ordinaria . Inquietante nella sua familiarità, nel suo riempire lo schermo di mostri quotidiani, in apparenza così dissimili e in realtà così speculari rispetto alla platea, di oggetti totemici, di residui corporei, il cinema di Ferreri funziona come un sistema tra i più coerenti e si muove come un'astronave su una quota differente rispetto a quella tenuta da tutti gli altri autori coevi.
Fin dai primi film egli privilegia l'analisi delle relazioni di coppia, mostrandole come un vero e proprio scontro biologico per la sopraffazione e l'assoggettamento reciproco. Molti suoi film (dall'Ape regina del 1963 alla Donna scimmia dell'anno seguente, dall'Uomo dei cinque palloni ad Harem, a Dillinger è morto, alla Cagna del 1972, all'Ultima donna del 1976, a Ciao maschio del 1978, fino a Storie di ordinaria follia del 1981, tratto da alcuni racconti di Charles Bukowski) presentano una vasta morfologia di questa lotta, dimostrando come il più debole della specie sia destinato a soccombere.
L'unico film, in pratica, dove funzioni il rapporto di coppia è La cagna, in cui il personaggio femminile accetta un rapporto di sottomissione totale all'uomo, perché sa che solo cosi potrà entrare a far parte dei suoi desideri, vivere in sintonia con lui (il soggetto di questo film è di Flaiano che a lungo ha sperato di poterlo anche dirigere). Il sogno che li legherà entrambi e li vedrà salire insieme su un inservibile aereo dipinto di rosa (che pure riesce a muoversi di qualche metro in discesa) è il sogno di fuga che tutti i personaggi ferreriani inseguono individualmente (i mari del Sud in Dillinger è morto).
La macchina da presa è usata da subito con estrema razionalità. I movimenti sono limitati, lo sguardo il più possibile oggettivo, Ferreri cerca di ritardare la dichiarazione della propria partecipazione affettiva alla vita dei suoi personaggi, di dissimularne al massimo i segni.
«Il mio linguaggio - dichiara in un'intervista del 1974 rilasciata a Omelia Volta per "Positif" è semplice e diretto e pertanto molto evoluto in rapporto ai mezzi tecnici di cui disponiamo al momento. Io non sono al servizio della macchina da presa. È lei che è al servizio del mio film».
Nei primi film l'immagine è affastellata di oggetti che reagiscono tra loro, mentre negli ultimi si procede a un lavoro di eliminazione e rarefazione degli elementi del contesto, accentuandone il valore simbolico e metaforico. Mentre la parola e il discorso tra i personaggi vengono utilizzati in una prevalente funzione fatica, di mistificazione e falsificazione dei rapporti, l'immagine accumula attorno ai protagonisti i veri segni caratterizzanti.
I personaggi non vivono lo spazio che li circonda: ne sono piuttosto condizionati e limitati. I protagonisti lottano, con tutti i mezzi a disposizione, oltre che tra loro, anche per uscire dalle gabbie esistenziali, per liberare senza condizionamenti le forze intatte del desiderio, della capacità di inseguire e costruire sogni. Nell'osservazione del comportamento dei personaggi e nella registrazione dei gesti, Ferreri vede l'uomo in condizione difensiva, in quanto deve proteggere (mi riferisco soprattutto ai film dei primi anni Sessanta) la sua debolezza costituzionale, biologica. La donna, senza una storia, lotta per se stessa, per diventare soggetto contro una società che non intende rinunciare alla difesa di determinati privilegi. Ferreri osserva, con equidistante partecipazione, i suoi protagonisti che si dibattono in una situazione in apparenza priva di vie d'uscita per entrambi.
Nella coppia però è la donna che porta nel proprio grembo il futuro, ha il potere divino di dare e garantire la continuità della vita. Per questo, ciclicamente sono le donne, dall'Ape regina alla Grande abbuffata fino al Seme dell'uomo e al Futuro è donna, a uscire vincitrici nella lotta per la sopravvivenza e la sopraffazione, ad assumere il ruolo di sacerdotesse della vita e della morte. Mentre l'uomo prende coscienza della propria incurabile impotenza e della propria inadeguatezza biologica, la donna mantiene intatte le proprie capacità e volontà di creare la vita. L'uomo può sopravvivere accontentandosi di surrogati: dall'adozione della scimmia di Ciao maschio, al portachiavi di I Love You, ai bambini di Chiedo asilo.
Se nel futuro l'orizzonte pare chiudersi per i protagonisti maschili rimane qualche speranza nella continuità della specie.
Su un piano tematico più inclusivo coglie molto bene Maurizio Grande il senso della continuità dai primi film spagnoli fino alla Casa del sorrìso come «immensa parabola dell'adattamento alla morte e alle sue varianti premonizioni e modalità [...]. Le storie che punteggiano questa parabola non sono che episodi in cui si mostrano i processi di morte e di adattamento alla morte e ogni film ha un cuore nelle concrete condizioni in cui uno muore. Non si tratta solo del rifugio della società industriale... si tratta di qualcosa di più profondo... di piazzare la cinepresa nella dissoluzione del presente e filmare il tempo, gli spazi e i modi della morte».
Nei film di Ferreri si ripropongono ciclicamente identiche metafore o allegorie ossessive: se da un lato c'è il senso di attesa per la vita che rinasce o il sogno di approdo a un luogo edenico che coincide col grembo materno, dall'altro c'è una rappresentazione di processi autodistruttivi di gittata sempre più ampia. «In campo - ha scritto Piero Spila - c'è comunque il destino dell'uomo violento con gli altri e ancora più con se stesso, segnato da obblighi e regole che non concedono deroghe se non a prezzo di rotture drammatiche e irreversibili. In questo senso l'appartamento di Dillinger è morto o la villa triste della Grande abbuffata o le asettiche locations di Ciao maschio o la casa sulla spiaggia di La carne evocano sempre l'angustia e l'inevitabilità del labirinto in cui celebrare un rito predeterminato, ma consentono anche l'immediata riconoscibilità di un apologo che, al di là degli eccessi e delle scene madri, ci appartiene».
Nel suo rapporto con le proprie storie Ferreri non si dichiara mai estraneo all'oggetto: «Diversamente da tanti, - come ha notato Goffredo Fofi, che è stato uno dei critici più attenti all'evoluzione del cinema di Ferreri, - egli ha il coraggio di farsi oggetto e soggetto d'analisi, di non lasciar parlare le pulsioni istintive e sentimentali, di operare su di esse con la lucidità del freddissimo distacco».
L'obiettivo con cui osserva la realtà, fin dai film spagnoli El pisito (1958) e Elcochecito (1960), usa lenti deformanti che gli consentono di caricare ogni osservazione di un senso critico ben avvertibile.
Poi, nei primi film italiani, Ferreri tende l'arco del grottesco quasi per saggiarne, come il protagonista dell'Uomo dei cinque palloni, il punto di rottura. L'ape regina (1963), La donna scimmia (1964), l'episodio II professore di Controsesso dello stesso anno, L'uomo dei cinque palloni (1965), Marcia nuziale (1966) si sviluppano lungo il medesimo asse stilistico-tematico. Il punto di rottura avviene proprio in episodi di Marcia nuziale, dove la dimensione allegorica sostituisce quella apparentemente realistica. In un mondo in cui, di film in film, i rapporti tra i personaggi si fanno sempre più rarefatti, il punto d'approdo non può essere che quello della totale ibernazione dei sentimenti e della sostituzione dell'uomo da parte di un universo di automi.
In una situazione in cui la condizione umana è sul punto di trasformarsi in qualcosa di diverso (per alcuni siamo già nella condizione post-umana) Ferreri, film dopo film, indica la necessità di ripensare anzitutto tutti i rapporti, da quelli della famiglia a quelli di coppia, dal concetto di maternità e paternità alla concezione degli affetti e delle passioni.
Dillinger è morto, pur segnando un passo indietro rispetto a questa direzione, è il punto di più rigorosa ed equilibrata combinazione di tutte le pulsioni. Come il protagonista, che smonta e rimonta la sua pistola, il regista mette a nudo le interrelazioni dei meccanismi di condizionamento, interferenze dei messaggi esterni e la loro funzione dominante di disturbo. Giornali, dischi, televisione, registratore, cinema, manifesti pubblicitari irrompono con segnali vaganti nello spazio chiuso dell'appartamento del protagonista, senza modificarne la rigorosa consequenzialità di comportamenti e senza produrre interlocuzione. Inoltre - in maniera più significante che altrove, perché meno caricati di valori simbolici - i mass media surrogano la realtà, contribuiscono a restituirne il senso di morte. Il gesto «liberatorio» dell'uccisione della moglie riporta a zero la vita del protagonista, restituendolo a tutte le possibilità del mondo esterno. La realtà a cui approda il protagonista non costituisce un'alternativa concreta e possibile, ma solo una fuga nel sogno.
«Il seme dell'uomo appare subito dopo Dillinger è morto e ne continua le istanze ideologiche e formali, radicalizzandole ancora di più [...]. Inserito in un arco di significati più ricchi, resta pur sempre il discorso sulla coppia, sui rapporti con la natura, sull'esistenza. Ma questa volta, apparentemente almeno, la coppia non è sconvolta dal cannibalismo e dalla sopraffazione». Il disastro sta oltre il discorso di coppia e coinvolge, in senso generale, l'umanità, il mondo, entro cui, nonostante l'incombere della distruzione, l'uomo cerca di assicurarsi la memoria della specie fecondando la propria compagna, mentre questa dorme, contro la sua volontà. Qui siamo alla negazione più radicale, «al ribaltamento, al rifiuto della vita, al seme come distruzione, al figlio come museo».
Da quest'opera Ferreri abbandona quegli aspetti del bagaglio grottesco che gli sembrano costituire una zavorra e si spinge verso significati assai più generalizzanti. Anche se ridistribuisce le carte del suo gioco, egli non abbandona il presente. Nella successiva vicenda del personaggio che attende un'udienza papale (L'udienza è del 1971) vi sono esplicite risonanze del racconto kafkiano II guardiano della porta e di altre vicende kafkiane, ma c'è anche una costante irruzione di segni reali del presente, che il regista evidenzia con la logica di un artista pop, e con un carico di funzioni cognitive originali.
La misura più giusta del suo cinema degli anni Settanta, La cagna (1972), La grande abbuffata (1973), Non toccare la donna bianca (1974), L'ultima donna (1976), Ciao maschio (1978), Chiedo asilo (1979) e Storie di ordinaria follia (1981), è data proprio dalla prevalente reimmissione nella dimensione più quotidiana dei gesti ripetuti, della lotta di sopravvivenza: Ferreri riscopre modalità differenti dell'allegoria, riuscendo a subordinare il senso del messaggio filosofico, ormai dato, alla capacità di prospettarlo concretamente allo spettatore nella sua materialità, nella sua immediata fisicità. I titoli degli anni Ottanta e dell'inizio del nuovo decennio non consentono uno sviluppo omogeneo del discorso tematico-stilistico: da una parte sembrano accentuare il bisogno di assecondare e rendere omaggio alla cultura femminista (Storia di Pierà dal libro di Pierà Degli Esposti e Dacia Maraini e il successivo il futuro è donna in particolare), e dall'altra raccontano storie al maschile come I Love You, di ordinaria solitudine metropolitana, di paure e angosce collettive e di piccoli stratagemmi terapeutici per alleviarle. Come sono buoni i bianchi del 1988 prende invece a bersaglio i sistemi delle grandi organizzazioni della carità internazionale, mostra come non sia sufficiente donare qualche briciola per mettere a posto la coscienza della civiltà industrializzata e risolvere i problemi del terzo mondo.
Opere difficilmente assimilabili in un insieme omogeneo a meno che non siano mantenute nel macrospazio topologico della vita e della morte. Ancor meno omogenee La casa del sorriso e La carne anche se egualmente capaci di attivare un rapporto forte e diversificato con il pubblico. Nel momento stesso in cui le immagini toccano e colpiscono lo sguardo dello spettatore, comunicandogli fisicamente il senso della disgregazione del reale e dei sentimenti, viene attivata una funzione cognitiva che lo spinge inesorabilmente oltre la materialità dell'immagine. Lo scopo dominante dell'ultimo Ferreri è di costringerci a interrogarci sull'inquietante valore prolettico delle immagini nei confronti di un futuro nel quale siamo già immessi anche noi, non appena distogliamo lo sguardo dallo schermo e abbandoniamo la sala cinematografica.
Qualcuno ha osservato che il cinema di Ferreri è coinvolto con il presente nella stessa misura in cui quello dei Taviani lo è con la storia. Non si tratta però di una storia intesa come rappresentazione e successione di pure realtà fattuali; interpretate nella loro analogia o diversità rispetto al presente. Si tratta di una storia concepita come luogo di scontro tra forme e modi concreti di affermazione del potere e tensioni ideali, progettazioni di nuove società e nuovi rapporti possibili.
Ciò che in Ferreri è negazione, constatazione di una sconfitta, nei Taviani cambia di segno, diventa spesso elemento propositivo e affermativo.
Nitrato d'argento, il suo ultimo film - visto con fatica da un pugno di spettatori dispersi in sale pressoché vuote - è concepito come una sorta di collage di immagini e di emozioni legate al vissuto individuale e collettivo nel buio della sala e per quanto sgangherato nella struttura è come un'ininterrotta e intensa «laude» d'amore per il cinema raccontata quasi a nome di milioni di spettatori e involontariamente diventata il suo gioioso e leggero atto testamentario.
Non c'è mai, né sembra esserci mai stato in Ferreri (e forse questo è l'elemento che lo rende il più bunueliano dei nostri registi) il desiderio di ottenere un facile consenso da parte del pubblico, di offrirgli uno spettacolo rasserenante, né tanto meno pacificante o sedativo. Film dopo film le immagini delle opere di Ferreri cercano lo scontro con la platea e stimolano le reazioni dei singoli spettatori. Nulla è mai ovvio, nulla è mai del tutto accettabile. Nulla è mai chiaro e dato. Il viaggio verso la morte è fatto di tante tappe intermedie e della conquista da parte dei personaggi di tante verità parziali, per lo più sgradevoli, spesso inaccettabili, ma plausibili e probabili se, a partire da certi presupposti, si esplorano i megatrends sociali, antropologici e biologici.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007