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Rassegna stampa di Aleksandr Sokurov

Aleksandr Sokurov è un attore russo, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, fotografo, è nato il 14 giugno 1951 a Podorvikha (Russia). Aleksandr Sokurov ha oggi 73 anni ed è del segno zodiacale Gemelli.

DENNIS LIM
The New York Times

THE filmmaker Alexander Sokurov is best known to American audiences for “Russian Ark” (2002), a dizzying tour through the State Hermitage Museum in St. Petersburg that sweeps up several centuries of Russian history and culture into a single 96-minute Steadicam shot.
Mr. Sokurov’s career, which took off in the post-perestroika late ’80s and now spans more than 40 fiction and documentary films, is full of seemingly perverse cinematic feats. His documentaries, many of which are tellingly titled “elegies,” include a five-part chronicle of army life on the Tajikistan-Afghanistan border (Episode 1 is a static 40-minute shot of a wintry panorama, set to Mozart and a ruminative voice-over) and a conversation with Boris N. Yeltsin, recorded at such a low volume that the viewer is forced to glean meaning from verbal inflections. (It’s titled “An Example of Intonation.”)
In his dreamlike ode to the parent-child bond, 1997’s “Mother and Son” (which spawned a companion piece, 2003’s “Father and Son”), he distorted images with special filters and lenses, even shooting through panes of glass, to evoke the Romantic landscapes of Caspar David Friedrich and J. M. W. Turner.

EDOARDO BRUNO

Il cinema di Alexandr Sokurov è un cinema di partiture, frammentato in tante zone mnemoniche, in un sistema di riferimento materialistico, di forza fisica e visionaria inserito in una prospettiva ontologica. I gesti, i corpi, la luce acquistano spessore di pensiero, sono la materia di un riflettere filosofico dove l'essere è ciò che prima di tutto 'è', e come desiderante, che è potere, il 'possibile'.
Era stato Tichie Stranicy (Pagine sommesse) a darmi al primo incontro la dimensione fortemente materica di un onirismo razionale, anche se già Dni zatnmenija (I giorni dell'eclisse) visto dopo, avevano aperto una dimensione dove l'assenza si faceva materia e il pensiero ricordo. Ma proprio in Pagine sommesse, Sokurov, rileggendo come un uomo del Rinascimento chiuso in una Biblioteca ideale, pagine sparse di Dostojevskji, di Gogol, di Ostrovskij e di Gorki, in una rivisitazione intrisa di inquietudine e di malinconia, forgia, in un'unica dimensione del tempo e dello spazio, un linguaggio che, anche nell'allegoria, rinserra in sé memoria e rigore. Le macchie oniriche, nel folle vagare del protagonista dentro la notte, sono segni espressivi che graffiano il colore brunito dei muri, il blu delle strade attraversate dai canali, il grigio degli incontri nei bassifondi con uomini, donne, soldati. Inseguendo i ritmi delle Kindertotenleader di Mahler, in una serie di piani sequenza, Sokurov segue l'uomo che cammina in un oscuro paesaggio di antiche e fatiscenti facciate, di bui corridoi, di scale intricate dove incontra la prostituta dal nome evocativo di Sonja; in filigrana e Raskolnikov, comunque un personaggio uscito dalle pagine di Dostojewskij in una situazione irreversibile. Il politico entra con forza di un discorso poetico, le uniformi dell'Armata rossa hanno un valore semantico tra vedere e sentire, accendono un senso diverso. Come in Povinnost (Confessioni) "Diario di bordo di un capitano di una nave militare", dove la struttura poetica va oltre l'immagine stessa per essenzializzare una impressione, un ricordo. Per rendere fisica la realtà di una nave ai confini dell'Artico, in un posto di frontiera, quasi in una sospensione onirica. Ma tutto nella nave è realtà: la fatica dei marinai, il lavoro nel riordinare le carte di bordo, il carico e scarico del carbone, la continua sorveglianza. La visione attraverso piani sequenza e i lenti movimenti di macchina in uno spazio forcluso si fanno intensi, ripetitivi nella ritualità dei gesti della vita militare e nelle forme di disciplina; e anche nelle confessioni del diario, nella rievocazione della vita privata, nel ricordo e nella nostalgia legata alle sorti attuali del proprio paese. Così questo gigante di ferro, con il suo carico di uomini e cose, di delusioni e speranze, diviene metafora dell'esistente, 'figura' di una rappresentazione in cui la contrapposizione con l'oggetto si dissolve nel segno che si reifica in un sentimento, tra desiderio e impotenza. Anche Dukhovnye Golosa.che potrebbe tradursi "le voci dell'anima', titolo visionario e filosofico, e un'opera su un avamposto militare, alla frontiera con il Tadjikistan, che in cinque ore 'manifesta' la vita e i sentimenti dei soldati in una assenza di operatività, metafora di un fondo oscuro della vita estenuante di un altro gigante in riposo, l'esercito. Sospeso in un silenzio rotto solo dall'entrare della musica, Mahler, Mozart, dai rumori della natura, dalle parole che agiscono come risonanze,il film si dimensiona sulle pagine del 'journal de bord' con la voce fuori campo, che è riflessione interna e dà forma all'immagine. Sokurov 'corregge' l'immagine con la forza evocatrice degli stati d'animo, dei dubbi e delle incertezze. Come nel film sulla nave, dove il vento, la neve. ghiacciata, la pioggia si uniscono con le onde del mare, in una concreta forza della visione, anche qui nei terrapieni, nelle trincee, nelle caserme, i rumori, le sonorità materializzano stati d'animo, inquietudini, dubbi. "Ho voluto filmare il destino, spiega Sokurov, non tanto dei soldati in guerra, ma il destino collettivo e quindi anche qualcosa che ha a che fare con la possibilità di una scelta, con una colpa da cui liberarsi; ma l'individuo non ha facoltà di scelta, la guerra gli viene imposta'". Come in Povinnost, dove un immenso paesaggio bianco, coperto di neve, in una Siberia attraversata, trasferiva la parola e il suono in una dimensione di attesa, in Dolce l'immagine si intesse con la parola poetica e realizza un transfert ancora una volta tutto mentale. Film che introduce, attraverso un album di fotografie di famiglia, la biografia di un celebre poeta morto, Toshio Shimao, e attraverso la revocazione mimetica della sua vedova, che vive isolata con la figlia handicappata in una isola dell'Oceano, mette in scena lo stupore della parola, l'invisibile poeticità dei suoi frammenti, la illusoria ambiguità dell'immagine. Sokurov stabilisce un formato del film che rispetta la verticalità delle pitture giapponesi su carta, l'effrazione del senso, realizzando un taglio semiotico particolare che concede una diversa significanza all'immagine; nella iteratività temporale. La persistenza dello sguardo permette di entrare nel fondo dell'immagine e di cogliere la fragilità, la discrezione, le sfumature, nella dissimulazione della sua erranza poetica, nella messinscena della morte. Con Elegia dorogi, alternando il materialismo espressivo con l'entrare nel sogno e nel dormiveglia di una rêverie, Sokurov affonda nel linguaggio dell'inconscio, ritrova l'intensità dei toni, il grumo di una rappresentazione che entra nel cerchio della ipnosi, il cogito di un sognatore.

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