Laura Betti è un'attrice italiana, regista, sceneggiatrice, musicista, è nata il 1 maggio 1927 a Casalecchio di Reno (Italia) ed è morta il 31 luglio 2004 all'età di 77 anni a Roma (Italia).
Questa attrice, che è stata anche una tra le più interessanti e note cantanti italiane di cabaret del nostro dopoguerra, grazie alla sua voce personalissima e vibrante, ha riscosso un significativo successo di pubblico e di critica non solo per il suo notevole talento artistico, evidente nella sua recitazione originale e disinvolta, ma anche per il suo impegno culturale e civile. Tali attività hanno reso il suo lavoro nel cinema solo marginale e limitato a ruoli secondari, ricoperti tuttavia in film di grande valore artistico. Nel 1968 la Betti ha recitato in Teorema, con la regia di Pier Paolo Pasolini, al quale era legata da una viva e sincera amicizia, durata fino alla tragica scomparsa dello scrittore, dando vita con eccezionale ricchezza d'espressione all'emblematico personaggio della cameriera preda di crisi mistiche, costretta in mezzo a personaggi del tutto incapaci di percepire, di ascoltare e di vivere il sacro.
Grandi, generosi, e se occorreva furibondi sono stati gli sforzi profusi dalla Betti in memoria di Pasolini, a cui fu legata da un sodalizio unico nel suo genere. Musa, attrice, cantante, compagna d’arte e a suo modo di vita (Pasolini avrebbe voluto un figlio da lei, raccontava), presenza costante e talvolta magari invadente lungo l’arco creativo di quella che resta la figura più scomoda del secondo ’900, dopo l’assassinio del grande cineasta-scrittore Laura Betti si era votata pressoché interamente alla difesa e alla conservazione della sua opera, del suo nome e per quanto possibile del suo messaggio.
Grazie a lei nel 1980 era nato a Roma il Fondo Pasolini, immenso archivio che raccoglieva documenti inediti del più vario genere, assegnava premi e borse di studio, organizzava rassegne pasoliniane in giro per il mondo. Un impegno sfibrante, totale negli ultimi anni il Fondo era diventato letteralmente la sua casa vissuto con il carattere battagliero e talvolta impossibile che chi ha avuto la fortuna di conoscerla ben ricorda.
Nel giro editoriale-letterario non tutti gradivano, per ragioni non sempre confessabili, questo modo personalistico e passionale di gestire l’eredità pasolinana. Così, oltre alle solite inerzie istituzionali, la Betti a volte doveva sventare trappole di matrice diciamo più nobile. Fino a quando, pochi mesi fa, stufa di ostacoli e di promesse, aveva trasferito il Fondo alla Cineteca di Bologna, ravvisando in tanta indifferenza l’ennesimo tradimento dell’amata Roma ai danni del poeta. E chissà cosa ne sarà ora che anche la sua vestale è scomparsa. Lasciandosi dietro peraltro ben 50 film molto ben scelti, in ruoli spesso di fianco ma memorabili, e ci auguriamo vengano rievocati nell’omaggio in preparazione a Venezia.
E pensiamo a quelli girati con Pasolini naturalmente, ai Racconti di Canterbury , alla diva de La Ricotta alla Desdemona tradita di Iago-Totò e uccisa da Otello-Ninetto Davoli in Che cosa le nuvole , all’indimenticabile serva santa di Teorema (Coppa Volpi a Venezia).
Ma anche a certe fulminanti apparizioni degli ultimi anni: la suora svitata e quasi autoparostica inventata per Calopresti ( La felicità non costa niente ), la mamma arci-italiana cesellata per la Breillat ( A mia sorella! ), l’infermiera abbruttita e feroce del Grande cocomero di Francesca Archibugi. Poche scene che incidono un segno profondo, come sapeva fare un’attrice personaggio che nella Dolce vita di Fellini già interpretava se stessa e che in seguito si sarebbe prestata ai talenti più diversi, a Scola e ai Taviani, a Jancso e ad Amelio, a Sergio Citti ( I magi randagi ) e ai due Bertolucci (da Novecento a I cammelli ), ma anche a Straub ( Rapporti di classe ), a Bellocchio (la truce Irina del Gabbiano ), perfino a Mario Bava. Per riapparire, icona pasoliniana, nel “maledetto” Le rose blu , 1990, docu-fiction girato nel carcere delle Vallette a Torino. E chiudere il cerchio con quello che resterà il suo unico film da regista, Pierpaolo Pasolini e la ragione di un sogno. Un commovente arazzo in memoriam cui proprio Venezia, tre anni fa, tributò un’interminabile ovazione.
Da Il Messaggero, 1 agosto 2004
Una sibilla vestita di viola. Spruzzata di biondo. L’eye-liner sparpagliato, fino all’ultimo, sugli occhi verdi e affamati. Due vite: quella di artista in proprio e quella di musa/compagna/vindice di Pier Paolo Pasolini. Allora, signora Betti? «Dammi del tu. Allora niente. Io non ho mai celebrato. Ho solo lavorato, pensando all’attenzione e all’amore che nella testa di tanti giovani o conosco o indovino. I giovani che spesso si chiedono, in silenzio, nella loro testa: “Pasolini, chi era?”».
Un grumo di passione emiliana, Laura Betti, che dalla morte violenta di Pasolini in poi, ebbe a dimenticare un po’di sé, il ruolo di bella donna rivestito nella prima stagione della vita, la parte di cantante e attrice “intellettuale” che i teatri italiani (ma anche l’Athenée di Parigi) ancora ben ricordano. L’esordio nel mondo dello spettacolo avvenne infatti, per l’avvenente bolognese, nella rivista I saltimbanchi , di cui era protaginista assieme a Walter Chiari. Subito dopo, Luchino Visconti la volle ne Il crogiuolo di Arthur Miller. Quindi, una piccola esplosione, il recital Giro a vuoto , ovvero la capacità di essere, ante litteram, one-woman-show dall’ampio repertorio: voce pastosa, ottima interpretazione dei testi, spiccate prerogative mimiche, classe europea. Nel panorama nostrano non aveva eguali. Per trovarle un modello, occorreva semmai pescare nelle caves esistenzialiste della Greco, di Sartre, della Beauvoir. Non a caso, con questo tipo di intrattenimento piacque al pubblico parigino. Nella capitale francese Giro a vuoto replicò per sei mesi.
Fellini e La dolce vita arrivarono nel 1960. Ma lei non dimenticò il canto, i localini dove porgere, con pathos e cultura, Brecht & Weill (di Weill ha inciso tutte le canzoni, mentre, con la Filarmonica Romana, ha interpretato al teatro Eliseo I sette peccati capitali , per la regia di Luigi Squarzina).
Lo stesso teatro “di prosa” si è avvalso della Betti, del suo carisma di bambola tremenda, delle sue finte morbidezze felsinee. Con la regia di Mario Missiroli, Laura ha interpretato Potentissima signora , su testi di Pasolini; con Luca Ronconi, la commedia di Giordano Bruno Il candelaio ; con Franco Enriquez, Not I di Samuel Beckett; con la regia di Pasolini, ovviamente anche autore, Orgia .
Il cinema e la televisione l’hanno infine rapita, totalmente e definitivamente. Fatte salve poche eccezioni. Furono anni di “disperata vitalità”(del 1992 l’atto unico con questo stesso titolo, dedicato ai versi di Pasolini), che l’insublimabile lutto per la morte del poeta segnò pesantemente dal 1975 in avanti. Dopo Pier Paolo l’ha sempre e solo chimato così la Betti si è infatti trasformata in silenziosa erinni, in manifesto vivente del “complotto” al quale ha attribuito, senza tentennamenti, la fine dell’amico. In custode delle carte, degli oggetti, della memoria fisica e psichica dello scomodo signore di Casarsa. Chissà se, lasciando il mondo visibile, ha sorriso al pensiero di raggiungerlo.
Da Il Messaggero, 1 agosto 2004
Esempio di coerenza e di coraggio ostinato, bravissima attrice, molto intelligente, aspra, esigente e divertente, antiborghese e mai ipocrita, sempre spiritosa, battagliera, Laura Betti è stata un personaggio unico nello spettacolo e nella cultura in Italia. Recitava nei film e in palcoscenico, cantava, declamava, ed era pure (alla francese, alla Juliette Gréco) amica di artisti, punto di attrazione degli intellettuali: la sua casa di Roma dietro piazza Farnese e piazza Campo de’Fiori, le grandi case prese in affitto d'estate a San Felice Circeo, diventavano luogo di raduno per la gente di cultura, sedotta da una ospitalità generosa, allegra, turbolenta. Non aveva marito nè figli, non mancava alle battaglie civili: e nessuna difesa fu per lei più strenua di quella di Pasolini, amato con vana passione, con maternità furente. All'inizio degli Anni Sessanta aveva saputo creare un genere teatrale che prima non esisteva in Italia, usando una voce fuori del comune ricca di suoni bassi e a volte rauchi. Al teatro Girolamo di Milano e altrove, metteva in scena la noia, le ambiguità, gli snobismi, la demenza, le nevrosi, i capricci e i drammi dell'epoca; cantava (aveva cominciato come voce del jazz) canzoni che gli scrittori ideavano per lei, «Quella cosa in Lombardia» di Franco Fortini, «Mi butto» di Moravia, testi di Calvino e di Buzzati, «Ossigenarsi a Taranto» di Arbasino («Ossigernarsi a Taranto\è stato il primo errore\l'ho fatto per amore\di un incrociatore»). Era strana e bella, con la sua predilezione piccante per la parodia e il grottesco: guance tonde liscissime, occhi azzurri spalancati, capelli pallidi, occhi bistrati, una bocca così piccola, l'incarnato candido, pantaloni e stivaletti neri. Una bambola di Norimberga. Federico Fellini le fece recitare nell'orgia de La dolce vita un personaggio che voleva rappresentarla: ma se Laura Betti incontrava tutti per mestiere d'attrice, se prendeva gli uomini che le piacevano, per la droga e per i soldi non ha mai avuto nessun gusto. Con Vittorio De Sica realizzò la più completa antologia di musiche di Kurt Weill con testi di Brecht e di autori americani: il regista dalla bella voce pastosa interveniva soltanto ne «La ballata del magnaccia»; per il resto (ventidue canzoni dolci, amare) cantava sempre lei col suo impeto spavaldo, la sua malinconia. Era una donna rara, Laura Betti, e se voleva anche molto simpatica: non di rado il carattere poteva diventare infernale, violento, querulo, le scenate potevano oltrepassare ogni limite, i rancori potevano radicarsi troppo profondamente per tempi troppo lunghi, ma la schiettezza, lo slancio, la durezza-morbidezza della città natale Bologna, il senso del comico e l'umorismo nero, la moralità potente e prepotente la rendevano irresistibile. Al cinema ha interpretato figure memorabili. Con Teorema di Pasolini vinse a Venezia, prima di recitare ne I racconti di Canterbury, di doppiare Hélène Surgère in Salò o le 120 giornate di Sodoma. I Taviani (Allonsanfan), Bernardo Bertolucci (Novecento), Amelio (Il piccolo Archimede), Bellocchio (Nel nome del padre, Il gabbiano), Scola (Il mondo nuovo) Bolognini (Fatti di gente per bene), le affidarono personaggi laterali che per la sua intensa bravura risultavano indimenticati. Per niente snob, un ruolo di caratterista di solida tempra drammatica, arditamente incline a ruoli ingrati o sinistri, poteva recitarlo volentieri pure per Mario Bava (L'ecologia del delitto). Nel 1975, nel giorno dei morti 2 novembre, Pasolini viene trovato ucciso vicino a Roma, e la vita di Laura Betti cambia. Continua a lavorare (soprattutto in Francia, anche con registi importanti come Paul Vecchiali), ma poco: il suo tempo è soprattutto dedicato alla memoria di Pasolini. Indagini disperate sulla sua fine. Un libro che raccoglie i resoconti degli infiniti processi mossi allo scrittore durante la sua vita. La creazione di un Fondo Pasolini (sede prima a Roma, poi a Bologna) che conserva documenti e scritti. L'istituzione di un premio letterario annuale e d'un premio destinato a una tesi di laurea su tematiche pasoliniane. Una tournée internazionale di film di Pasolini scelti tra i più belli. Una propria tournée teatrale con uno spettacolo di liriche e testi pasoliniani, «Una disperata vitalità». Fatiche squattrinate e immense (come ricordava presentando l'autobiografia «Teta Veleta»), grande solitudine la hanno troppo rapidamente logorata, stancata a morte, indebolita. E adesso, come Pasolini, Laura Betti se n'è andata da un mondo a cui non poteva piacere, e che non le piaceva più.
Da La Stampa, 1 agosto 2004
Laura Betti ci ha lasciato, quasi in punta di piedi, a 70 anni, con quel garbo discreto che era l’altra faccia, nota agli amici, della sua esuberanza polemica. Era stata, da qualche tempo, sfrattata dalla sua casa romana di via di Montoro, dove invitava le volte (ricorrenti, ma non troppo frequenti) che aveva voglia di cucinare. Frequentata, tra gli altri, da Alberto Moravia e da Enzo Siciliano, la sua piccola terrazza era l’esatto opposto della Terrazza romana del film di Scola, Anziché di potere (reale) e di (esibite) utopie, vi regnava, per quanto era possibile, il gioioso materialismo del convito. Il Fondo Pasolini, sua ragione principale di vita per quasi trent’anni, si era anch’esso separato da lei, trovando nuova casa (dopo aspri contrasti che l’assessore romano Gianni Borgna ricorderà bene) a Bologna. Da qualche tempo era diventato difficile incontrarla, credo perché (lei così ricca di istintiva mitologia, tra il mondo familiare del dialetto - Teta Veleta si intitola il suo libro - ed il modello classico) voleva tenere per sé lo spettacolo dei fastidi dell’età.
Ricordo la prima volta che l’ho vista, quando fece letteralmente irruzione, senza che nessuno riuscisse a fermarla, nel mio ufficio d’assessore alla cultura di Roma, nel 77, protestando a voce spiegata perché non l’avevo ancora chiamata, nonostante stessi organizzando con Giuseppe Zigaina la mostra dei disegni di Pasolini a Palazzo Braschi. Nonostante non abbia allora acconsentito a nessuna delle sue tante richieste, è nata un’amicizia, frutto delle diversità e della curiosità. Anche l’ultima volta che l’ho incontrata è stato sotto il segno di Pasolini, quando il Fondo aveva trovato provvisorio riparo presso la Fondazione Di Vittorio di Sergio Cofferati.
Così come la perdurante attualità e fortuna critica di Pasolini si era troppo dilatata per essere contenuta nelle sole iniziative del Fondo (penso in primo luogo a Petrolio, la rassegna al centro della prima stagione del Mercadante Teatro Stabile di Napoli) - faremmo però torto a Laura Betti se limitassimo la sua importanza per la cultura europea al solo rapporto con Pasolini. Scrivo europea e non italiaim, perché Laura Betti era Commendatore dell’Ordine delle Arti e delle Lettere della Repubblica Francese istituito da Jack Lang. La cultura francese ha saputo rendere piena giustizia, negli ultimi vent’anni, al valore di molti intellettuali irregolari di casa nostra.
L’esempio più significativo è quello di Carmelo Bene, in Francia considerato, prima ancora che un grandissimo attore, un uomo di pensiero - un esponente di spicco della forma oggi possibile, dopo il Ventesimo Secolo, di filosofia, intesa come desiderio e ricerca della verità anche attraverso l’arte e i poeti. Laura Betti era un’attrice di questo tipo - in modo ugualmente istintivo, dove il pensiero non è sovrapposto alla recitazione, ma è la sua essenza ed il suo risultato.
Il primo ricordo di lei attrice che ho è una canzone, che ascoltavo ancora studente di architettura, agli inizi degli Anni Sessanta, che parlava di «millecento ferme sulla via! con i vetri appannati! di bugie e di flati! dove si va, diciamo così, a fare all’amore.! No, non dico a scambiarsi qualche bacio...«La memoria mi tradisce, ma esprimeva con tenerezza indicibile l’orrore nascosto ed i desideri celati di quegli Anni Cinquanta. Oggi penso in primo luogo a come l’attrice Laura Betti sapeva dare pieno senso alla parola poetica di Pasolini, nel recitaI Una disperata vitalità - dove il suono della sua voce arricchiva i concetti dì tutta la contraddittoria pienezza del corpo e della vita, di fronte alla quale bisogna essere in primo luogo sgomenti e perplessi. O alla sua folgorante presenza in America, uno straordinario film in bianco e nero tratto dal romanzo di Kafka. Naturalmente, non è possibile dimenticarla in Teorema, il film più filosofico di Pasolini. O nel Piccolo Archimede di Gianni Amelio, Ma forse la sua interpretazione più profonda, giocata su molteplici registri, esplicitamente dialettica rispetto al personaggio, l’ha data nel ritratto della diabolica erotomane sadica e fascista in Novecento di Bernardo Bertolucci - una sorta diversione femminile del MarIon Brando di Apocalypse Now.
Ma in lei l’attrice non è separabile dalle sue curiosità; dai circoli della prima avanguardia che si formava provenendo da tutt’ltalia a Roma nei primi Anni Cinquanta, da Elsa Morante a Pasolini fino al giovane Luca Ronconi (per cui Laura recitò nel primo Candelaio) ed al suo organizzatore, allora altrettanto giovane, Paolo Radaelli nel segno del carisma e del fascino e non del potere; dal suo sperimentalismo, che l’ha portata a cantare Brecht e Kurt Weill con Vittorio De Sica, e a recitare in Francia in un film con Jerry Lewis. E difficile pensare che questa straordinaria vitalità oggi debba restare viva soltanto nella memoria.
Da L’Unità, 1 agosto 2004