Il film di Steven Knight invita lo spettatore a interrogarsi sul senso del libero arbitrio. Al cinema.
di Matteo Arfini, Vincitore del Premio Scrivere di Cinema
La terza opera in qualità di regista del noto sceneggiatore Steven Knight, Serenity (guarda la video recensione), si presenta come un film controverso, a tratti sorprendente e a tratti forse scontato. Il cineasta britannico infatti, potendo godere di un cast d'eccezione che vede protagonisti il pescatore Baker Dill (McConaughey) e la sensuale Karen Zariakas (Hathaway), gioca fin dal principio con gli elementi di un classico noir, per poi disseminare colpi di scena e rivelazioni concentrati nella seconda parte del lungometraggio, dove il ritmo si fa più incalzante.
Se da un lato è possibile ritrovare le tematiche cardine del genere thriller, tutte incentrate sulla figura del protagonista (che ricorda molto il Mud dell'omonimo film di Jeff Nichols), con il suo passato oscuro, la vendetta e l'obbligo di una vita "ai margini", dall'altro Knight cerca di strizzare l'occhio a un plot twist in chiave contemporanea.
Alla vita del pescatore (con tanto di richiamo alla lotta eterna uomo-animale del "Vecchio e il mare" di Hemingway), egli contrappone in modo antitetico la tecnologia, il videogame attraverso quello che si rivela essere il legame più solido tra tutti: la famiglia. Sono i rapporti famigliari, idilliaci in un tempo ormai svanito, bui e violenti in un presente cupo a tessere le fila di tutta la storia e ad addolcire, per quanto possibile, la cruda rivelazione finale. Questi classici ingredienti principali vengono disseminati all'interno di un contesto molto più ampio e sfaccettato, e soprattutto in un ambiente caratteristico come quello di un'isola in mezzo all'oceano, un non-luogo caratterizzato da una vita senza tempo, che si ripete inesorabile giorno dopo giorno.