mercoledì 3 febbraio 2016 - Celebrities
Presente in sei degli otto film di Quentin Tarantino, Samuel L. Jackson abbraccia corpo e anima la 'causa tarantiniana', adottandone la verbosità prolissa e il gesto pervasivo. Esibizione pop (e pulp) della cultura fast-food, interpreta magnificamente il tempo della discussione, tempo libero e interminabile che interrompe arbitrariamente col linguaggio secco e brutale delle pistole.
Dentro al cinema di Tarantino Samuel L. Jackson esibisce un'attitudine fino a quel momento trascurata: la coolness. Un misto di impassibilità e padronanza, freddezza e stile, manifestazione artistica e prodotto di consumo come il cowboy della Marlboro o i dischi di Chet Baker, come i militanti delle Black Panther Party o David Carradine in "Kung Fu".
Rivelato al grande pubblico nel 1994 (Pulp Fiction), con una tirata sul sistema metrico tra Stati Uniti e Europa e sul carattere erotico (o no) di un massaggio plantare, l'attore viene da lontano e va lontano. "Ciascuno ha la sua strada, ciascuno ha il suo cammino" ripete come un mantra Jackson che prima di ottenere il ruolo di comprimario a fianco di Bruce Willis (Die Hard), di essere riconosciuto con Spike Lee (Jungle Fever), consacrato con Tarantino (Pulp Fiction) e (ri)compensato con ragguardevoli cachet (Star Wars, Iron Man), langue per due decenni in produzioni teatrali o show televisivi modesti dove ricopre anche il ruolo di intrattenitore del pubblico tra una spot e l'altro ("Cosby").
Attore ciarliero e saturo dei personaggi che interpreta, supera la dipendenza dall'alcol e la cocaina traslocando esperienza e fragilità in Gator Purify (Jungle Fever), tossicodipendente col vizio del crack e l'ossessione del denaro per procacciarselo. Per quell'interpretazione i francesi nel 1991 istituiscono addirittura un premio nella cornice di Cannes, quello al miglior attore non protagonista.
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Dentro al cinema di Tarantino Samuel L. Jackson esibisce un'attitudine fino a quel momento trascurata: la coolness. Un misto di impassibilità e padronanza, freddezza e stile, manifestazione artistica e prodotto di consumo come il cowboy della Marlboro o i dischi di Chet Baker, come i militanti delle Black Panther Party o David Carradine in "Kung Fu". Una proprietà misteriosa la sua condivisa dai film di Tarantino e liberata in ciascuno dei suoi film, abitato con la parrucca riccia (Pulp Fiction), la coda di cavallo sotto il Kangol (Jackie Brown), la bombetta nera (Kill Bill vol. 2), la basetta grigia (Django Unchained). Virtù misteriosa, di cui Jackson è portatore esemplare, la coolness implica insieme l'ansia del distacco e il distacco dall'ansia. Soffrire senza averne l'aria, essere un killer spietato senza averne l'aria, militare con intransigenza senza averne l'aria. Uno sdoppiamento singolare e bizzarro che l'attore traduce nella coesistenza in superficie di due intensità contrarie e indissociabili l'una dall'altra. Che interpreti l'affrancato Major Marquis Warren (The Hateful Eight) o, dall'altra parte dello spettro, il soggiogato Stephen (Django Unchained), suo gemello malefico e doppio epocale, che incarni il felpato Rufus, organista all'angolo della chiesa (Kill Bill vol.2) o il miracolato Jules Winnfield (Pulp Fiction), avo mistico che ha riposto la pistola. Perché a furia di ripetere il versetto di Ezechiele uccidendo ne penetra il senso.
Scoperto da Spike Lee e indissociabile da Tarantino, nondimeno l'attore corre da solo e dentro un cinema che si consuma consumando popcorn. Stimato (letteralmente) il più bankable di Hollywood, partecipa a un numero ragguardevole di saghe milionarie e nel 2011 entra nel Guinness Book con un fatturato esagerato (i suoi film hanno incassato 7,4 miliardi di dollari), relegando nelle stive della Perla Nera e del Titanic rispettivamente Johnny Depp e Leonardo DiCaprio. Titolo invidiabile a Hollywood, conquistato recitando o anche solo affacciandosi nei blockbuster degli anni Novanta (Star Wars, Die Hard, Jurassic Park), in un pugno di titoli di Tarantino e in qualche altra macchina da soldi di cui è lecito dimenticarci. Una rivincita per l'artista che trova il successo a quarantasei anni (Pulp Fiction) e che a sessantasei non smette di battere cassa. Assoldato dalla Marvel, 'chiude un occhio' e combatte il Male (Iron Man, Captain America, The Avengers).
Lontano da un'infanzia spesa nel Tennessee e sotto il cartello "Whites only", Samuel L. Jackson vive oggi il sogno di Obama e interpreta ruoli che calza come un guanto dentro film prodotti in massa e per la massa. Quei film insomma destinati a evaporare presto con le emozioni (semplici) che generano: riso, paura, tensione, eccitazione. In questo genere il suo capolavoro è senza dubbio Shaft, giustiziere solitario, troppo nero per la polizia e troppo blu (NYPD) per i fratelli. Testa rasata e pizzetto battente, Jackson impersona il nuovo John Shaft, eroe mitico della Blaxploitation, incarnato negli anni Settanta e nei pantaloni a zampa da Richard Roundtree. Vestito da Armani, lo Shaft di Jackson dà un colpo di griffe alla mitologia e si impone come un divertissement riuscito.
Matematico tra Dustin Hoffman e Sharon Stone (Sfera) o maestro Jedi tra Yoda e Obi-Wan Kenobi (Star Wars), Samuel L. Jackson naviga in una filmografia che supera ormai i cento titoli, incrocia Spielberg, Soderbergh, Scorsese, Schroeder, Shyamalan, Boorman, Buscemi, Thomas Anderson (all'esordio) e deflagra in Django Unchained e The Hateful Eight, dittico western tarantiniano. Luogo di innesco del sottotesto politico, in cui il vero duello si svolge tra schiavo emancipato e schiavo realizzato nella sudditanza (Django Unchained), tra bianco (confederato) e nero (unionista) (The Hateful Eight), i film sono agiti su un piano verbale e di concezioni del mondo. Docile 'negro di casa' ieri, 'scatenato' maggiore nordista oggi, i personaggi di Samuel L. Jackson confermano un'intelligenza superiore, debitamente occultata per non avere problemi o per studiare e poi spiazzare il rivale, fiaccato con le parole e steso con una colt.
E pensare che Samuel L. Jackson è affetto da balbuzie. La fluenza della parola, interrotta da involontarie ripetizioni, viene corretta dall'attore col lavoro e la tenacia, fino a farne, tra tecniche di respirazione, esercizi di rilassamento e motherfucker interposti, un rimarchevole oratore. Demostene hollywoodiano, anche l'abilità retorica dell'ateniese superò presunti 'blocchi verbali', l'attore non smette di parlare nell'emporio di Minnie come nel simposio con Vincent Vega, avvantaggiandosi sugli avversari e dimostrando meglio di chiunque altro il regime letale del linguaggio. Controcampo dell'America WASP o di Jackie (Jackie Brown), per cui il silenzio è d'oro e la parola mai disinteressata (soprattutto in un film di Tarantino), Samuel L. Jackson la incarna e ne incarna la violenza di cui è (quasi) sempre foriera. Così in Pulp Fiction come in The Hateful Eight il bla-bla-bla di Jackson conduce sempre a un'esecuzione, perché come nessun'altro ha capito che è lo storytelling l'arma segreta della (sua) nazione. Con Tarantino, Samuel L. Jackson riabilita gli avatar disprezzati del western classico apertamente razzista, trionfando i martiri contro gli aguzzini. Con buona pace di Spike Lee che tuona ancora sulla blackness di circostanza dell'autore e sulla yankeetudine dell'attore-fratello.