Peter O'Toole era del 1932, fa parte della generazione di Sean Connery e Clint Eastwood. Come loro ha molto rappresentato. Lo scozzese Connery (83 anni) si è ritirato, l'irlandese O'Toole ha lavorato fino a che le forze lo hanno sostenuto, Eastwood (83), americano coriaceo, continua.

Il 1962, in chiave cinematografica, presenta due eventi, e due eroi, uno di fiction, James Bond e uno reale, Lawrence d'Arabia. Lo spettacolo introduceva dunque due grandi stelle, Connery e O'Toole. Per molto tempo hanno rappresentato l'eccellenza del cinema britannico, titolari di appeal grandi e diversi. Per "arte" diciamo così, O'Toole prevaleva. Era nato nella contea di Galway, Irlanda, e si era trasferito adolescente, con la famiglia a Leeds. Giovane di buoni studi divenne cronista, dopo essere stato (pare) fattorino, dello Yorkshire Evening News, parallelamente secondo la tradizione dei predestinati, recitò in piccole filodrammatiche, poi in compagnie discrete, infine si iscrisse alla Academy of Dramatic Art di Londra, dove non entravi se non dimostravi qualità alte. Conobbe, in quelle stagioni, John Osborne, giovane prodigio della drammaturgia inglese, il profeta dei cosiddetti "arrabbiati". Osborne inserì Peter, poco più che ventenne, in un paio di suoi lavori fra cui Look Back in Anger. Fu il primo successo. Il nome e il titolo successivo sono ... pesanti: Shaw e Pigmalione. Il ruolo era quello del celeberrimo professor Alfred Doolittle, sì, quello di My Fair Lady.

Aveva dunque trent'anni quando l'attore, sicuro sul suo robusto background, si presentò al mondo, in qualità di divo, con Lawrence d'Arabia. Diede una prova di identità feroce: Peter "era" Lawrence. E il mondo conobbe quegli occhi che sembravano fiamme azzurre. È famosa una sua risposta a una cronista che lo intervistava. "Perché dovrebbero venire e vedermi? Perché sono fantastico".
Da allora, O'Toole centrò un titolo dopo l'altro, Becket e il suo re, Lord Jim, Ciao Pussycat. E poi Come rubare un milione di dollari e vivere felici, vicino a una partner sua omologa al femminile in fatto di classe, Audrey Hepburn. Furono quelle le sue stagioni migliori. I suoi registri recitativi erano infiniti. Dramma, avventura, commedia, ironia, pazzia, tutte le sfumature e tutte le patologie. Voglio ricordarlo nella "Notte dei generali", dove dà corpo e volto a un nazista alienato. Gli si addicevano la Storia e la grande epica. Ha interpretato i re: Enrico II in Becket e il suo re, dove affronta un altro mostro sacro del teatro e del cinema, Richard Burton che fa l'arcivescovo di Canterbury; di nuovo Enrico II nel Leone d'inverno; e poi Priamo in Troy, e cito ancora L'uomo della Mancha, dove interpreta contemporaneamente Don Chisciotte e Cervantes. Ha lavorato anche da noi, con Brass (Io, Caligola), Bertolucci (L'ultimo imperatore), Wertmüller (In una notte di chiaro di luna).

Colto, intelligente, un po' maledetto, gran bevitore. Presenta un record "originale", diciamo così, che tutto sommato è da lui: il maggior numero di nomination all'Oscar senza averlo mai vinto. Gliene attribuirono uno alla carriera nel 2003. Anni fa ho avuto modo di conoscerlo a Taormina, con l'immancabile bicchiere in mano. Mi parlò della Sicilia e delle sue bellezze storiche, così affascinanti e diverse. "Qui trovi davvero tutto" mi disse "ma è comprensibile, non siamo nella terra più occupata del mondo?". Peter O'Toole: competenza, classe, e una bella parte di mito. Tante perdite, che peccato.