Con la sola eccezione di Christopher Nolan, non esiste altro cineasta oggi così incisivo e personale come J.J. Abrams. Ebreo newyorkese con all'attivo la sceneggiatura di A proposito di Henry di Mike Nichols (1991), classe 1966, J.J., vale a dire Jeffrey Jacob (il secondo nome ai fan di Lost dovrebbe ben suggerire qualcosa...) ha rinnovato la serialità televisiva prima di passare al grande schermo per fondare il concetto stesso di "reboot", riformulazione di brand storici dell'immaginario popolare. Musicista prima che scrittore e regista, firma i temi musicali dei suoi serial: Alias (2001), spy story al femminile non immune al clima cupo post 11 settembre; Lost (2004), culto come altri mai, e Fringe (2008), rielaborazione più fantascientifica, ancorché non esplicita, del canovaccio di X-Files. Abrams è il classico autore postmoderno: mescola linguaggi come tv e cinema ma anche videogiochi (tra i suoi progetti la narrativizzazione di Half-Life) e fumetti; considera la classicità una sorta di Eden adolescenziale al quale attingere, come la grande fantascienza degli anni '60 e '70; reinventa senza inventare veramente, perché gli stereotipi di Lost risalgono a Jules Verne e H.G. Wells ma lui li ha stravolti come nessuno mai prima. Per questo tutti lo vogliono, tutti lo cercano. Da Tom Cruise che lo chiama per dirigere l'invero modesto Mission: Impossible III (2006) ai primi due sovvertitori della mitologia cinematografica classica: Steven Spielberg e George Lucas.

Mentre scriviamo è in sala l'episodio 2 delle avventure dell'Enterprise firmato J.J. Abrams, Into Darkness - Star Trek, altro immaginifico viaggio nelle oscurità dell'uomo prima che dello spazio, con il capitano Kirk e Spock in lotta con un terrorista sui generis interpretato efficacemente da Benedict Cumberbatch. E nel frattempo il Nostro è già in Inghilterra per le riprese di Star Wars: Episodio VII, la sua prossima impresa attesa spasmodicamente sulla Rete da una massa di trepidanti fan. Come sempre i migliori postmoderni, anche J.J. nelle sue operazioni cinematografiche sa quanto siano fondamentali gli aspetti tecnici, quanto l'illusione di realtà coincida con gli alti livelli di sperimentazione visiva. Da qui ad esempio la scelta, mai fatta da nessuno prima, di girare l'ultimo Star Trek con macchine da presa che consentano la risoluzione IMAX per poi convertire la pellicola in 3D. L'effetto visivo definitivo è spettacolare.

Però è da un punto di vista narrativo che J.J Abrams si dimostra più abile e in sintonia con un sentire e un sapere generazionali. Lo prova Super 8 (2011) la sua opera più bella e più importante, prodotta da Spielberg. Un film che si riappropria finalmente dello sguardo dei ragazzini, non a caso in una vicenda fantascientifica ambientata negli anni 70, tra rimandi a Carpenter, Romero e ovviamente allo stesso Spielberg. E lo rafforza, quello sguardo, con la scatolina di una tecnologia obsoleta (il Super 8 del titolo) così incerta nel raccontare quel che accade ma così "sporca" di vita, passione e verità come mai nessun digitale potrà essere. Super 8 è stato accolto tiepidamente dalla critica, e forse è un segno dei tempi; eppure ai meno distratti è apparso chiaro quanto abbia segnato l'incontro tra l'utopia progressista della Nuova Hollywood degli anni 70 (Spielberg e Lucas, appunto) e la densità narrativa della fiction tv degli anni Zero, il migliore antidoto all'ideologia fracassona dei blockbuster. In fondo gli effetti speciali non (r)esistono in Super 8: ci sono solo storie.