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La politica degli autori: Kim Ki-duk

Un eccentrico regista dal cinema simbolico ed iperbolico.
di Mauro Gervasini

In foto Kim Ki-duk, durante il momento della premiazione.
Kim Ki-Duk (Kim Ki Duk) 20 dicembre 1960, Bongwha (Corea del sud) - 11 Dicembre 2020, Riga (Lettonia). Regista del film Pietà.

martedì 11 settembre 2012 - Approfondimenti

Il più discusso cineasta del momento è coreano, gira vestito come un Don Chisciotte post atomico, ha la faccia simpatica e la voce intonata, nel caso gli si chieda di cantare. Kim Ki-duk (20 dicembre 1960) ha vinto il Leone d'oro alla 69. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia con Pietà (dal 14 settembre in sala distribuito da Good Films) suscitando clamore, divisione, entusiasmo. Il suo cinema non è mai stato per tutti, e ha la memoria corta chi si è scordato l'accoglienza turbolenta di L'isola, sempre alla Mostra di Venezia, nel 2000. Non dovrebbe essere un carneade neanche per i critici (improvvisati e non) dei principali quotidiani italiani, dato che molti suoi film hanno vinto premi internazionali e sono usciti in Italia; eppure viene trattato come una mina vagante, un eccentrico folletto, spesso dimenticando la natura provocatoria e allegorica del suo cinema. In Pietà un brutale personaggio, esattore della malavita specializzato in mutilazioni, si convince in un battere di ciglia che la donna misteriosa al suo cospetto possa essere sua madre. Da qui un rapporto malato e (pseudo) incestuoso che nasconde un freddo e sconvolgente proposito di vendetta. Criticare il film perché il violento teppista non ha dubbi sulla "madre", scegliendo quindi il realismo come solo criterio di lettura, è come rifiutare Star Trek perché è impossibile teletrasportare le persone nel tempo e nello spazio. Il cinema di Kim è simbolico per definizione, procede per iperboli, può casomai essere accusato di una certa furbizia programmatica proprio per la complicata geometria narrativa delle storie, ma non ridotto alle esigenze di superficiali interpretazioni "logiche".

Kim Ki-duk riesce a fatica a scindere la propria figura di artista dalle opere. Diplomato in agraria, operaio e contadino, in marina per cinque anni, aspirante predicatore per una setta evangelica, pittore dilettante, ha trasformato il proprio furore esistenziale, ai limiti dell'autodistruzione, in una riflessione cinematografica sorprendente. Arirang (2011) è la cronaca disperata della sua afflizione successiva all'incidente che sul set di Dream (2008) provocò il ferimento di una attrice. Videocamera a tallonare se stesso, depressione vera e il tentativo di trovare un senso della vita e della morte anche attraverso l'isolamento radicale, con una regressione primitiva simile a quella dei suoi personaggi. Non a caso Kim Ki-duk in Arirang si confronta con il monaco eremita di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003), interpretato in età adulta da lui stesso. Isolamento ed eremitaggio non dovuti alla misantropia; sono invece il tentativo estremo di fuggire alla ciclicità sempre tragica degli eventi umani. Ecco il fulcro del suo cinema: in un mondo dominato da violenza e sradicamento (per questo si può credere che una sconosciuta sia tua madre, o ci si sostituisce agli inquilini di una casa senza alcuna reazione) le vie di fuga dall'ineluttabile sono la morte (come in Pietà) oppure l'amore. Spesso legati assieme ma non, banalmente, secondo il connubio tutto occidentale eros-thanatos, bensì come pulsioni non necessariamente benefiche, anzi stranianti o distruttive. È il tema di fondo del capolavoro di Kim Ki-duk Ferro 3 – La casa vuota (2004) dove l'irrazionalità di una passione tra due amanti estemporanei pare la sola forza vitale non codificabile e, soprattutto, non incatenabile.

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