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Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti: vincitore della Palma d'oro

Non un miracolo ma un buon film dalla Tailandia.
di Pino Farinotti

Una favola suggestiva con una sua poetica singolare

lunedì 18 ottobre 2010 - Focus

Una favola suggestiva con una sua poetica singolare
Ero davvero curioso di vedere Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, vincitore della Palma d'oro. Nutrivo grandi speranze: la vittoria di Cannes non poteva che essere un segnale importante, così come i giudizi prevalenti della critica che attribuivano al titolo molte stelle, accreditandolo come un capolavoro o quasi.
Nella prefazione del "Farinotti" edizione 2011 ho scritto che questa stagione sembrava dare un'indicazione importante: uno stallo, se non un declino, del cinema delle grandi potenze e il segnale di altre cinematografie più fresche e potenti. Citavo due titoli dell'evoluzione, Il segreto dei suoi occhi, di Campanella, argentino, e Il concerto, di Mihaileanu, rumeno. Vedendo i trailer e poi scorrendo la letteratura riferita al film tailandese, ho davvero creduto di poter aggiungere un altro titolo alla scheda del sorpasso. Dopo la cultura sudamericana e quella mitteleuropea, ecco l'estremo oriente. Sarebbe stata una perfetta chiusura del triangolo.
Ma dico che "Lo zio Boonmee" non è titolo da Palma d'oro, e neppure titolo da futura memoria del cinema. E il regista Apichatpong Weerasethakul non è Kurosawa e neppure Zhang Yimou. Questi sì, quando irruppero, si attestarono fra i maestri del mondo. Raccontavano vicende autoctone ma buone per una lettura universale. Così come universali diventano i contenuti di Campanella e Mihaileanu, anche se costoro non si sono ancora consegnati e forse non si consegneranno alla storia del cinema come hanno fatto i due grandi orientali.

Impennata
Va detto che, pur non essendo all'altezza di una Palma d'oro, il film tailandese è un buon film. Senza impennata universale, racconta una favola suggestiva e con una sua poetica singolare. Magia, surrealismo, mistica, metafora, il buio e la foresta, coi suoi spiriti e le sue creature. Lo zio Boonmee è malato, in dialisi, sa che morirà anche se tutti intorno lo incoraggiano e sostengono. E lo curano. Si inoltra coi suoi cari in una caverna-utero (sarà piaciuta ad Almodovar). Sceglie di morire lì in fondo, dov'era nato. Un racconto entra nell'altro, un tempo entra nell'altro, i morti siedono a tavola coi vivi, si presentano come fossero un amico della casa accanto, nessuno stupore, nessuno spavento, come se tutto fosse naturale, la morte come la vita, il passato come il presente. L'atemporalità permette il racconto, avulso dalla storia, della brutta principessa di altra epoca che entra dolcemente nell'acqua di un torrente che si allarga sotto una cascata, un luogo come un eden. La principessa lascia cadere monili preziosi e poi viene posseduta da un pesce gatto.

Licenze
Questa non-unità della narrazione consente molte licenze all'autore, che può muoversi in una certa anarchia senza logica e senza rigore narrativo. Può essere una libertà ma anche uno sconto. Weerasethakul è un regista sostenuto, quasi inventato, dalla critica e poco frequentato dal pubblico. I suoi precedenti sono una serie di video e di corti, fino al lungometraggio Blissfully yours, premiato a Cannes nel 2002 con Un certain régard, attribuzione di "competenza critica e cinefila". Sono sempre un po' sospettoso rispetto ad autori che non vogliono, o non riescono, a mediare fra pubblico e critica. Una delle qualità del film è il tempo, dilatato e lento. In macchina vedi passare i bordi della strada, il paesaggio tailandese rigoglioso, la passeggera si guarda intorno, a lungo. Un infermiere pratica la dialisi a Boonmee, cura e rito iperrealisti, dall'inizio alla fine della terapia, senza stacchi. Questa calma serena, questa lentezza del contemplativo autore è, appunto, uno dei valori del film. Soprattutto a fronte del linguaggio corrente, che non dà neppure il tempo all'attore, che se deve camminare per cinque metri, viene tagliato dopo due passi, perché sei sarebbero troppi. Nel segmento finale un giovane monaco è infastidito dal complicato costume, se lo toglie, indossa maglietta e jeans e va a sentir musica. Metafora quasi goliardica.

Sproporzionato
Ribadisco: un film certo non banale, magari sopra la media (comunque bassa), ma sproporzionato rispetto a una Palma d'oro. Ma questo 2010 sembra essere l'anno di queste anomalie. The Hurt Locker , della Bigelow, vincitore dell'Oscar, è a sua volta un buon film ma niente di più, ma era molto opportuno politicamente. Somewhere, della Coppola ha vinto il Leone a Venezia non senza polemiche. E comunque non è un titolo da Leone d'oro.
È vero che questa epoca del cinema produce questi titoli e questa qualità, ma a ben guardare e a ben giudicare, nelle rassegne c'era qualcosa di meglio. E comunque questi film troppo accreditati, sovradimensionati, non giovano ai premi, al pubblico, ai critici, soprattutto non giovano al cinema.

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