Vittorio De Seta è un regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, fotografo, assistente alla regia, è nato il 15 ottobre 1923 a Palermo (Italia) ed è morto il 28 novembre 2011 all'età di 88 anni a Catanzaro (Italia).
C'è stato, nella nostra storia recente, un momento ricorrente in cui le pecore facevano paura. Ed era quando comparivano puntuali sullo schermo del cinema, prima del film del giorno, annunciando dieci minuti di retorica e di banalità disperante. Erano le pecore dei documentari (passate poi sul piccolo schermo per l'Intervallo): i documentari di una stagione - gli anni Cinquanta - in cui le leggi dello Stato ne favorivano la produzione e ne decretavano al tempo stesso la programmazione obbligatoria prima dei film.
In effetti, c'erano montagne di fuffa e di retorica cinematografica in quei temuti dieci minuti. Ma ci sono state anche cose eccelse. E quella legislazione ha aperto una palestra per un bel numero di talenti - lasciando un bel numero di piccoli capolavori che adesso la stagione del dvd ci restituisce.
Come questa serie di documentari firmati da Vittorio De Seta, il grande siciliano di Banditi a Orgosolo, ancora attivo dal l'alto dei suoi brillanti 85 anni (è suo quel curioso e interessante film sull'andirivieni delle migrazioni Africa-Italia che si intitola Lettera dal Sahara<). br/>
Presentato da Feltrinelli Real Cinema sotto il titolo Il mondo perduto. I cortometraggi di Vittorio De Seta.1954/1959, il «pacchetto» (a cura di Mario Capello) comprende un libro (La fatica delle mani. Scritti su Vittorio De Seta) in cui, dopo un'introduzione di Roberto Saviano, ci sono testi molto interessanti di Goffredo Fofi, Alberto Farassino, Martin Scorsese, Vincenzo Consolo, Gian Luca Farinelli, e l'edizione, ripulita e uniformata nei formati, di alcuni dei più interessanti documentari di De Seta, da Lu tempu di li pisci spata a Surfarara, a Isole di fuoco a Pasqua in Sicilia. Documentari-documenti, semplici, secchi, senza commento (ci si accontenta delle didascalie introduttive e, come dice un'altra didascalia, «i canti, le voci, gli effetti sonori sono stati registrati interamente sul luogo e dal vero»).
Documentari bellissimi, tagliati e inquadrati senza estetismo e senza folldore ma con un perfetto occhio da artista - e insieme da antropologo, da etnografo, da studioso di un mondo che scompare e di cui si deve preservare il ricordo.
Da Il Venerdì di Repubblica, 21 novembre 2008
Per Goffredo Fofi (ma non solo per lui) sono tra i dieci capolavori assoluti della storia del cinema. Eppure, ben pochi hanno avuto occasione di vedere i dieci brevi documentari girati da Vittorio De Seta tra il 1954 e il 1959. La lacuna è colmata dalla benemerita collana «Real Cinema », della Feltrinelli, che propone tutti i cortometraggi del regista e documentarista nato a Palermo nel 1923, la cui opera ha ottenuto recentemente una rinnovata, meritatissima riconsiderazione. I titoli contenuti nel dvd già indicano, anche a chi non conosce per nulla il De Seta attento osservatore della realtà, la direzione della sua ricerca: si parte da Lu tempu di li pisci spata ( 1954)per arrivare a I dimenticati (1959), passando per Pasqua in Sicilia, Contadini del mare, Pastori di Orgosolo. Brevi "flash" su un mondo che stava finendo per sempre, testimonianze uniche di una cultura al tramonto. Il dvd è accompagnato dal libro
La fatica delle mani, con scritti, fra gli altri, di Vittorio Saviano, dello stesso Fofi e Vincenzo Consolo. Dopo aver visto questi frammenti del passato, probabilmente sarete d'accordo anche voi con Martin Scorsese: «De Seta era un antropologo che si esprimeva con la voce di un poeta».
Da Il Sole-24 Ore, 28 dicembre 2008
Vittorio De Seta, restano legati all'eccezionale exploit dell'esordio, per poi essere quasi subito messi da parte ad allenarsi tra le riserve.
Siciliano d'origine, De Seta esordisce nel lungometraggio nei 1961 con 'Banditi a Orgosolo, dopo aver realizzato, negli anni Cinquanta, una decina di documentari (Isole di fuoco, Contadini del mare, Parabola d'oro). Gli ultimi due, Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia (1958), hanno funzione di materiale preparatorio, di un primo orientamento sociologico e antropologico rispetto a Banditi a Orgosolo. In questi documentari De Seta riesce a raccogliere, con il rigore e l'intelligenza di un antropologo e la vis poetica dei grandi documentaristi - da Ivens a Flaherty - una documentazione eccezionale su un mondo che ha ripetuto per secoli gli stessi gesti e ora, sotto la spinta della modernizzazione è destinato a rapida estinzione. In questi documentari - come già nell'Uomo di Aran o in gran parte del cinema di Ivens, la natura ha ancora il sopravvento e l'uomo prova lo stesso senso di terrore panico di fronte alla potenza degli elementi, dei suoi progenitori di alcune migliaia di anni fa. Frammenti residuali di civiltà arcaiche trovano in De Seta un cantore capace di raggiungere toni epici e di usare la macchina da presa come una sorta di impluvio in cui far confluire le voci collettive. Anche nel primo lungometraggio a soggetto De Seta mostra subito le stesse qualità; sa assecondare il movimento dei suoi personaggi, mutare di continuo il passo narrativo a seconda che muti l'azione, cogliere in tutta la loro forza primitiva e simbolica i significati dei gesti, degli sguardi, dei silenzi, il valore dei rapporti tra l'uomo e l'ambiente. L'esperienza documentaristica se orienta in maniera decisiva, la sua attività successiva ne spiega il disagio espressivo a introdursi come narratore e a far sentire il suo punto di vista e la sua presenza d'autore nel film.
Banditi a Orgosolo, in minima parte un film di finzione, è, di fatto, una documentazione esemplare di alcuni meccanismi tipici di comportamento della società pastorale sarda (di tradizioni millenarie): di fronte alla estraneità delle istituzioni governative, alla cattiva amministrazione della giustizia, alla lunghezza eccessiva dei periodi di carcerazione preventiva - che portano inevitabilmente alla perdita del gregge - al pastore, che ha commesso una se pur piccola infrazione contro la legge, non resta che la fuga nelle zone interne. La latitanza è una vera e propria istituzione nei costumi della Barbagia.
Il film descrive questo percorso obbligato, che fa parte della storia collettiva sarda almeno fino alla metà degli anni Sessanta (quando le regole cambiano e si passa ai sequestri di persona, assai più redditizi), nel modo più spoglio e rigoroso, riuscendo, però, a realizzare un'opera degna di figurare accanto ai grandi capolavori del documentarismo di tutti i tempi. Il racconto si snoda secondo tappe quasi segnate dal destino: l'immagine è costruita in maniera da restituire in ogni momento il senso della durezza della vita dei pastori, ma anche quello della loro perfetta integrazione nell'ambiente e della sacralità del paesaggio. Il montaggio si adatta ai movimenti dei personaggi, li segue nei loro spostamenti e accelera fino a raggiungere ritmi parossistici del tutto inediti per il cinema italiano, quando i pastori sono in fuga.
La seconda prova, Un uomo a metà, del 1965, è così distante dalla prima per tema, stile, riferimenti culturali, da costituire un vero e proprio trauma per la critica, che la rifiuta quasi all'unanimità. In genere si considera un fenomeno mal riuscito di antonionismo e non si valuta nei giusti termini lo sforzo di tradurre in immagini, con la massima pertinenza, un caso psicanalitico da manuale. Il film racconta la storia di un'autoanalisi, condotta fino in fondo e in maniera spietata: forse non viene perdonato al regista il passaggio così netto dalla esplorazione di ragioni pubbliche a quelle dell'inconscio. La critica di sinistra non prova alcuna particolare curiosità ad avventurarsi nelle zone della malattia mentale: Antonioni ha già spiegato, in termini filosofici, che tutto un insieme di fenomeni non rientranti nelle categorie del politico e del sociale si possono catalogare sotto la voce alienazione e per il momento questo basta e avanza.
Nonostante l'insuccesso, De Seta ripete il tentativo con L'invitata del 1969, un'opera in cui la psicanalisi gioca un ruolo meno invadente e il lavoro di esplorazione dell'esperienza intcriore della sua protagonista risente in maniera positiva di una maggiore capacità, di filtrare e far decantare gli elementi individuali d'ambiente. Dopo questo film il regista comincia a lavorare per la televisione. Nel 1972-1973 porta a termine Diario di un maestro, vera e propria pietra miliare nella storia dello sceneggiato televisivo. Nonostante il successo, i nuovi e più ambiziosi progetti trovano non poche difficoltà e si arenano nelle sabbie mobili della burocrazia dell'ente. De Seta rimane così un autore con poche e intense esperienze e vive da tempo (come del resto anche altri) la condizione di confinato; continua a chiedere il diritto di prendere la parola e di esprimersi e trova sempre qualcuno che, insabbiando le sue pratiche, gli impedisce di parlare. Riesce a tornare alla regia, dopo una estenuante odissea produttiva trent'anni dopo con un film, Lettere dal Sahara (2006), che racconta una storia dura di immigrazione clandestina via mare.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007