«L’uomo politico che stimo di più? Don Ciotti. Sarebbe un grande sindaco per Torino. Quelli che mi piacciono meno? I tipi che fanno vita mondana. Ho perso fiducia anche in Gianfranco Fini; una volta lo vedevo impegnato dentro il suo partito, oggi rischia di utilizzare l’arroganza del potere. Sono nato comunista e adesso mi sento, trenta anni dopo, un individualista. Penso che soltanto le persone, una per una, possano trasmettere le emozioni e la forza che servono alla politica per andare avanti, per non rassegnarsi, per non cedere alla mediocrità e rinunciare ai sogni. Non credo più all’idea di organizzazione di massa, ai grandi gruppi collettivi che si muovono con gli slogan: il terrorismo ha ucciso per sempre, negli anni Settanta, la forza dei movimenti spontanei promossi dagli operai e dagli studenti. Esattamente come ora i kamikaze hanno cancellato i no-global. Da due anni lavoro per creare la sezione italiana della Shoa Foundation (www.vhf.org) creata a Los Angeles da Steven Spielberg: sto raccogliendo centinaia di testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto, un patrimonio di dolore, ricordi, vite che aiuterà a non dimenticare mai l’Orrore. I film vanno in onda sulla Rai, in occasione della giornata della memoria. Poi manderemo i dvd nelle scuole: intendiamo immaginarlo come un vaccino da somministrare alle generazioni future. Contro il negazionismo, contro coloro che vorrebbero utilizzare la ripetitività delle testimonianze come prova della loro falsità. E vero, anche io ho avvertito un fastidio, all’ingresso di Auschwitz, il biglietto, l’aria da supermercato turistico. Poi, all’interno, la sensazione cambia di colpo: i particolari del treno, i ganci, le forche, sono agghiaccianti. La stessa idea di sterminio di gente innocente, la contabilizzazione dei cadaveri, le mille esecuzioni quotidiane... Hai pensato che, in fondo, anche le bombe islamiche hanno un carattere neonazista?»
Mimmo Calopresti è un ragazzo cinquantenne ancora molto alternativo, nei modi, nel vestire, nel giocherellare con l’anello d’argento, con i capelli spettinati e un po’ lunghi. Lo incontro, in una bollente mattina di luglio, nel suo ufficio alle spalle della basilica di Santa Maria Maggiore. I tavoli dello studio sono pieni di videocassette con su i nomi dei testimoni e il marchio mondiale immaginato da Spielberg, «dopo aver girato Schindler’s list, decise di rendere omaggio alle vittime della Shoa con il suo mestiere, mostrando le immagini dei superstiti al mondo intero. Già oggi, agli studi Universal di Los Angeles, insieme alle grandi scenografie dei kolossal, si possono visitare le stanze della fondazione e c’è un grande interesse del pubblico. Anche via Internet si contano migliaia di accessi ogni giorno».
Calopresti è nato a Polistena, paese in provincia di Reggio Calabria, nel 1955. La qualifica a cui tiene di più è: presidente dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio. Nel 1962 suo padre Emilio, «un sarto distrutto dal boom delle confezioni a poco prezzo», ottiene «dal solito prete e dal solito notabile Dc» un posto alla Fiat e una casa in centro, a Torino. Sua madre Jolanda contribuisce al bilancio familiare con le riparazioni e gli orli, «e impara a leggere il giornale tutti i giorni, si integra perfettamente nel quartiere metà borghese e metà operaio dietro piazza Vittorio. Quanta retorica falsa si è fatta sugli immigrati meridionali, la verità è che gli operai piemontesi ci hanno accolto a braccia aperte e che la città aristocratica viveva in collina, lontanissima dalla vita quotidiana dei lavoratori. Io giocavo a pallone alla parrocchia dell’Annunziata, poi da ragazzo – all’istituto tecnico di Moncalieri e ai cancelli della Fiat – mi sono avvicinato a Lotta Continua. Ricordo un comizio di Adriano Sofri, una mattina di domenica al mercato, come parlava chiaro, come era bravo a convincere il popolo. Ricordo Giuliano Ferrara, giovane dirigente comunista, che menava fendenti e schiaffoni all’università contro gli estremisti, cioè contro di noi. Piero Fassino, in quegli anni, veniva a parlare alla nostra scuola, voleva convincermi a entrare alla Fgci, l’organizzazione giovanile del Pci, ma io ero uno spontaneista. Quando Sofri scioglie Lotta Continua, gli operai della Fiat, proprio quelli legati al pentito Leonardo Marino, il suo futuro accusatore, lo contestano. E io pensai invece che fosse una decisione giusta».
Alla fine degli anni Settanta, Torino si infiamma: «Era facile vedere sparire gli amici, passati alla lotta armata. Mi salvai perché avevo iniziato a fare il cinema all’università, grazie a Gianni Rondolino, critico della “Stampa”, fondatore del Festival dei giovani e docente alla facoltà di lettere. Il nostro era comunque lavoro politico: raccontavamo gli esclusi, gli operai, gli zingani, poi magari scappavamo a goderci un bel western americano. In quel periodo mi sono legato a don Ciotti, sempre in lotta contro l’indifferenza della città davanti all’emarginazione. Oggi mi piace anche la follia ecumenica di Walter Veltroni, uno che vuole mettere d’accordo tutte le diversità del mondo, dall’Africa al Tiburtino Terzo». E proprio in un mercato del Tiburtino Terzo, miticoex quartiere periferico e popolare negli anni Settanta, oggi recuperato da intellettuali e architetti come zona trendy – insieme al Pigneto, a villa Fiorelli e al Casilino –, si trasferirà l’Archivio storico del movimento operaio, fondato da Cesare Zavattini, oggi diretto da Calopresti. Un archivio che è una miniera di documenti inediti.
«Ho scoperto che Volonté, Bellocchio e Pasolini hanno girato tutte le manifestazioni degli anni Settanta. Pensa che Volonté ha perfino filmato una sua versione della discussa e misteriosa morte dell’anarchico Pinelli. Ho trovato anche un’inchiesta di Pasolini sulla spazzatura a Roma, un film incompiuto di cui la cattivissima Laura Betti mi aveva sempre negato l’esistenza. Le immagini delle discariche si mescolano con le assemblee sindacali degli spazzini in sciopero.» Fra materiali ufficiali – come la versione integrale dei funerali di Enrico Berlinguer – e fumetti rubati durante gli scontri con la polizia, «come il sequestro della tenda innalzata in piazza Navona dal comitato contro la repressione», Calopresti già immagina di vedere centinaia di giovani in gita scolastica, «per capire la storia del Novecento». E per rivalutare anche i vecchi democristiani e comunisti di un tempo. «Ho rivisto le campagne elettorali degli anni Sessanta, lo scontro fra Dc e Pci, sigle scomparse di cui solo in archivio si troverà traccia. Che gente perbene, che belle facce... E pensare che noi di Lc gridavamo orribili minacce contro di loro, ricordo quelli di Potere Operaio contro il povero Emilio Colombo, “non più parole, ma una pioggia di piombo”, e invece poi abbiamo scoperto la sua debolezza per la polvere bianca. Oggi non li condannerei più, e capisco la nostalgia diffusa.» Nel frattempo, da regista «impegnato» si augura che, «con il ritorno del centro-sinistra ai governo, venga premiata la libertà e incoraggiata la creatività e finisca questa pioggia di elemosine a tutti che è stato il famigerato articolo 28 della legge sui cinema. Un fallimento. Perché il cinema, come la politica, possono farlo soltanto dei folli. Non è roba per ragionieri del mutuo e dei fido bancario».
Lascio il sessantottino Calopresti con la sensazione di aver vissuto – per due ore – in una sorta di piacevole ritorno al passato. Mi rassicura immaginare che ci sia qualcuno che immagazzina e rielabora la memoria comune, dimenticando per un paio di stagioni il rito dell’esibizione personale.
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006