John Huston (John Marcellus Huston) è un attore statunitense, regista, scrittore, sceneggiatore, è nato il 5 agosto 1906 a Nevada, Missouri (USA) ed è morto il 28 agosto 1987 all'età di 81 anni a Middletown, Rhode Island (USA).
La distribuzione italiana aveva già deciso di intitolare The Dead di John Huston Gente di Dublino. Per ragioni scaramantiche, sembra perché I morti sarebbe risuonato troppo iettatorio per il pubblico italiano. John Huston, fino alla fine caustico e sbrigativo, non ha avuto paura di un titolo. Vien da pensare, anzi, che questo titolo (The Dead) gli sia piaciuto molto, come possibile conclusione di una carriera di "5 mogli e n. 60 film", come intitolava la sua autobiografia. Con un tempismo degno di una sceneggiatura della Hollywood degli anni d’oro, John Huston è morto venerdì 28 agosto, a pochi giorni dalla presentazione del suo film alla Mostra di Venezia, scavalcando immediatamente in tutte le cronache i film più pubblicizzati, le diavolerie tecnologiche, le risonanze divistiche. Con un film tratto da un testo proverbialmente difficile, senza divi (la più famosa degli interpreti è la figlia Anjelica), senza monumentali apparati pubblicitari. Più che uno scherzo del destino, questa sembra una costruzione, un gioco con il proprio destino. Huston, in fondo, aveva più di ottant’anni e stava male da parecchio tempo per di più, era una figura tanto vitale da non poter non avere consapevolezza del progressivo avvicinamento della morte. Con un titolo, ha giocato anche con questa, come certi grandi vecchi esasperati e deliranti di alcuni suoi film: l’Albert Finney, marcio e borbottante di Sotto il vulcano, cupamente intrigato dai riti e dalle immagini di morte messicani, il giudice Roy Bean di L’uomo dai sette capestri, istrione pazzo che torna dalla tomba per una spettacolare vendetta. Il suo cinema, in realtà, è sempre stato segnato da ossessioni mortuarie, dal Noir angosciante dei capolavori degli Anni Quaranta (dal Falcone maltese del 1941 fino a Giungla d’asfalto del 1950), ai film più contorti e controversi degli Anni Cinquanta e Sessanta, quelli che si tingono di morbi psicanalitici (come Freud del 1962 o Riflessi in un occhio d’oro del 1967), di malsani turgori sudisti (come La notte dell’Iguana del 1964, tratto da Tennessee Williams), di epica follia (penso in particolare al capitano Achab di Moby Dick, nel quale il regista fu pessimamente servito dalla legnosità eccessiva di Gregory Peck). In quegli anni, criticamente e produttivamente controversi, Huston firmò due opere proverbialmente maledette: la riduzione cinematografica di Il segno rosso del coraggio di Stephen Crane (1951), una terribile pietra miliare della letteratura americana, analisi, "dall’interno" del filo invisibile che separa la vigliaccheria dall’eroismo (dove Huston avrebbe voluto come protagonista il soldato più decorato della seconda guerra mondiale, l’attore Audie Murphy), e Gli spostati, tratto da Arthur Miller. Realizzato nel 1960 (e francamente oppresso oggi dalla verbosità un po’ saccente dell’intellettuale Miller), Gli spostati era interpretato da Clark Gable, Marilyn Monroe e Montgomery Clift, morti rispettivamente nel 1960, nel 1961 e nel 1966. Passato indenne attraverso Gli spostati sembrava quasi che Huston non dovesse morire mai più . Nell’ultimo decennio, egli sembrava anche essersi vagamente riconciliato con il mondo. In realtà, si era solo riconciliato con il cinema, liberandosi dalle pastoie hollywoodiane. Soggiornava in Irlanda, e poi in Messico. Faceva (almeno in parte) i film che amava, caustici, cattivi, vivi, strane leggende irlandesi (come Di pari passo con l’amore e la morte del 1969, in cui fece esordire Anjelica), bizzarre ballate americane (come Sangue saggio del 1979). Faceva, soprattutto, film di grandi disperazioni, con tutta la forza di un tempo, se è possibile accentuata dalla lucida distanza della vecchiaia. L’uscita di scena di Huston non è stata da meno di quella dei suoi personaggi.
Da Il Sole-24 Ore, 30 agosto 1987
Ora che ho una certa età sto sperimentando un antico detto irlandese a proposito della vita in riva al mare: "non fa più dolere le vecchie ferite. rinvigorisce lo spirito, stimola le passioni della mente e del corpo, pacifica l'anima". Sono contento di essere giunto a questo punto dell'eternità, ma per quel che riguarda la mia propria vita non so come ci sono arrivato. Ho perso il ricordo degli anni, E incredibile avere anni, eppure di fronte all'evidenza contenuta in questo libro devo accettare il fatto. Ero abituato a essere il più giovane in ogni gruppo. Adesso, tutt'a un tratto, sono il più vecchio. Ho vissuto un'infinità di vite. Tendo a invidiare l'uomo che porta avanti una vita sola, con un solo lavoro, e una sola moglie, in un solo paese, sotto un solo Dio.
Può non essere un'esistenza molto eccitante, ma almeno quell'uomo il giorno che ha 73 anni si rende conto della sua età».
Si raccontava così, nel 1979, John Huston, nelle prime pagine della sua autobiografia (autenticamente sua, che era stato anche giornalista e, soprattutto, sceneggiatore), una delle più belle mai scritte nel panorama hollywoodiano: Cinque mogli e sessanta film, un riepilogo dei molti mestieri, delle molte passioni e delle molte vite di uno degli autori più personali del cinema classico tra '40 e i '70, ma anche dei più ombrosi, avventurosi e discontinui. Negli anni d'oro della politique des auteurs, alcuni dei "giovani turchi" dei "Cahiers" alternavano che «una sola inquadratura di Hawks è migliore di un intero film di Huston», mettendo a confronto la perfezione matematica del cineasta più vecchio (Hawks è nato dieci anni prima di Huston), maturata durante l'autentico splendore della macchina hollywoodiana, e l'imperfezione che invece spesso "sporca" il cinema di Huston, l'inquadratura troppo piena, la compiacenza verso i cliché, la narrazione talvolta slabbrata, quasi "sfiorita". Huston (nato il 5 agosto del 1906 ed esordiente nel 1941 con Il mistero del falco) lavora sul limitare della decadenza, quando i generi hanno fatto il loro corso (tranne uno, nascente, il noir, nel quale eccelle, dal rigore avvolgente del Falco alla deflagrazione secca di Giungla d'asfalto, del '50, "canovaccio" di tante successive rapine andate in malora, da Kubrick a Tarantino), l'immaginano classico si sta spampanando nel kitsch, le riletture amare sono alle porte. II suo cinema assomiglia alla sua vita; lui lo sa e lo scrive: «La mia vita è composta di episodi casuali, tangenziali, disparati (...) Non riesco a vedere nel mio lavoro alcuna continuità tra un film e l'altro: quel che colpisce è quanto siano diversi l'uno dall'altro. E neanche riesco a trovare un filo continuo nei miei matrimoni. C'è stato di tutto: una studentessa. una gentildonna, un'attrice cinematografica, una ballerina e un coccodrillo». Eppure, tra i suoi film, non ce nè uno che non abbia almeno un'inquadratura che non vale un posto nella storia del cinema: anche nei peggiori, l'arca di Noé nella Bibbia, il discorso del pastore Orson Welles in Moby Dick, la danza notturna di Ava Gardner nella Notte dell'iguana, le frustrazioni e le ombre che ammorbano il sottovalutato Riflessi in un occhio d'oro. Per non parlare dei migliori, che spesso sono veri e propri tour de force tra le pieghe di universi non più credibili, la cui patina si è scrostata per rivelare, al di sotto, la pelle viva di personaggi di carne: gli avventurieri esausti e anacronistici del Tesoro della Sierra Madre (tre Oscar a John per regia e sceneggiatura e un terzo al padre Walter Huston, come miglior attore non protagonista), della Regina d'Africa e dell'Uomo che volle farsi re, i rapinatori di Giungla d'asfalto, i "colonizzatori" del West degli Inesorabili e dell'Uomo dai sette capestri, i sopravvissuti di Sotto il vulcano e La saggezza nel sangue, i boxeur falliti di Città amara. Tutti "spostati", come i fragili esemplari umani che danno il titolo a uno dei suoi film più famosi, vero e proprio certificato di morte di Hollywood, che consuma le proprie icone ai bordi del deserto che la circonda. Finché arrivò anche la sua morte, alla quale, da grande cineasta, Huston non si sottrasse, girando nel 1986 il suo film più silenzioso e armonico, The Dead, da un racconto di Joyce, nel quale la tensione e l'amarezza si stemperano, alla fine, in un'idea, pacificata e atea, di umanità. Morì l'anno dopo, nel 1987.
Da Film Tv, 1 agosto 2006
John Huston è l’ultimo tra i registi di Hollywood ad essere stato scelto dall’Europa ed imposto agli Stati Uniti: all’aspetto fisico è un tipo lungo, magro, col naso schiacciato tipico degli ex-pugili. Figlio del grande attore Walter Huston, spentosi pochi anni or sono, tentò tutte le strade: fu, come s’è detto, boxeur, poi giornalista, attore e sceneggiatore di film. Forse ebbe qualche vantaggio a Hollywood dalla prestigiosa presenza paterna: ma diede subito un gran colpo con quel Mistero di falco (1941), tratto dal famoso romanzo «nero» di Dashiell Hammett, che, presentato in Italia negli anni della confusione postbellica, venne apprezzato da pochi. Sin da quel primo film Huston afferma quella sua peculiare visione del mondo che abbiamo visto confermata in tutti i suoi film posteriori, sino ai recentissimi Regina d’Africa e Moulin Rouge (sulla vita del pittore Toulouse-Lautrec). Huston, forse in memoria del suo passato e obbedendo alla più profonda natura sua, ha il gusto della violenza, del rischio: cui si aggiunge, molto modernamente, il piacere malinconico che gli deriva dalla constatazione del fallimento dei suoi eroi. In parole povere gli interessano non i risultati, ma il processo dell’azione, i modi attraverso i quali il fallimento si esteriorizza, giustificandosi.
Esaminando in fretta i cinque film più importanti del nostro: Il tesoro della Sierra Madre (1947), Stanotte sorgerà il sole (1949), Giungla d’asfalto (1950), La prova del fuoco (1951) e Regina d’Africa (1951), si scopre che essi hanno in comune questo carattere di fallimento, di scacco, dei loro eroi. Ora la conclusione è drammatica, ora ironica, ora malinconica: ma sempre gli eroi di Huston falliscono il loro scopo o lo raggiungono per caso senza che la loro volontà, i loro ostinati lucidi disegni riscuotano l’approvazione della realtà e del destino.
Tratto da un romanzo del noto scrittore inglese C. S. Forester, pubblicato nel 1935, il film Regina d’Africa ne modifica sostanzialmente il significato. Nel romanzo gli ufficiali tedeschi della cannoniera fatta saltare da Humphrey Bogart e da Katharine Hepburn sono compitissimi e cavallereschi: nel film tutto è penetrato dalla micidiale ironia hustoniana. Anche la nave da guerra va in pezzi per ragioni estranee al tentativo pazzesco dei protagonisti. Ancora più caratteristica in questa direzione è la fine di Giungla d’asfalto. Il piccolo «Doc», impersonato con tale sapiente maestria da Sam Jaffe da aver entusiasmato nello stesso tempo Roberto Longhi e i più sprovveduti spettatori, non si meraviglia dell’arresto: uscendo dal bar dove si è intrattenuto più del necessario per ammirare la danza ingenuamente sensuale di un’adolescente, accompagnata dalla musica di un «juke box», chiede tranquillo a uno degli agenti se fossero lì fuori ad aspettarlo da molto tempo. «Da pochi secondi,» risponde il poliziotto. «Doc» vi vede così confermata una sua teoria sul destino. Nei tetri caseggiati della Giungla d’asfalto è arrivata la pessimistica insinuazione di Pascal sui risultati più clamorosi della storia: «Se il naso di Cleopatra...» Per giocare su tutte le possibilità, Huston fa poi morire l’eroe sprovveduto della vicenda, il giovane Dix, tra le erbe alte dei campi che l’hanno visto fanciullo. È una nota alta, che molti hanno apprezzato; ma l’intenzione di Huston è altrove. È nella constatazione scettica, di «Doc» («Lo avevo detto!»), come nella cinica ammissione dell’avvocato Emmerich, un altro caratteristico personaggio di Giungla d’asfalto: «Il delitto non è che uno degli aspetti della lotta per la vita».
Nel più sfortunato, e più ambizioso, film di Huston, La prova del fuoco (tratto dal famoso romanzo di Stephen Crane «Il segno rosso del coraggio»), l’esame distaccato ma affettuoso dell’insorgere della paura nel coscritto che sente i primi colpi di cannone, ha indotto il regista a scegliere come protagonista Audie Murphy, «il soldato più decorato della seconda guerra mondiale», e a escludere dalla narrazione ogni presenza muliebre. La «luce» dei magnifici esterni ha indotto nel film, meglio che il «plein air»degli impressionisti, coevi alla data temporale del racconto -(che cade durante la guerra di secessione), un dorato pulviscolo alla Turner. È un film che segna la più alta ambizione di Huston; un film senza compromessi di sorta e di alta civiltà, ancora immaturo tuttavia per la «cultura» attuale di Hollywood. Fu tartassato in ogni modo dai finanziatori: venne tagliata la scena giudicata la più bella da William Wyler; il regista fu escluso dal montaggio; vi si applicò un commento musicale facile e rumoroso. Huston non volle mai vedere il film così conciato.
Una visione pessimistica della vita: questo sembra in conclusione il giudizio sul mondo morale di Huston. Niente di nuovo, come si vede; ma tutto è ravvivato da un vivido talento, da un senso eccezionale del racconto cinematografico e da improvvisi lampeggiamenti di alta poesia. Così accade per i disgraziati banditi fucilati ne Il tesoro della Sierra Madre: cade il cappello a uno di essi, e il poveraccio chiede il permesso di raccattarlo prima che si scateni la scarica che lo annullerà. Così ne La prova dei fuoco, la morte del soldato alto; e in Stanotte sorgerà il sole, il quieto frusciare sul selciato delle vie deserte dei pneumatici della macchina degli oppressori, tra le case dove si celano insieme odio e paura.
Figlio di attori presto divorziati (Walter è stato un eccellente interprete), fa vita randagia. Colpito da una malattia ai reni si rimette prodigiosamente, vince il campionato per pugili dilettanti della California (riporta la frattura del naso), recita a Broadway, si esibisce in Messico come cavallerizzo, è giornalista a New York, passa qualche tempo a Londra e a Parigi (per studiare pittura) vivendo come un barbone, è sceneggiatore a Hollywood ed esordisce nella regia con Il mistero del falco (1941), un teso, scintillante Dashiell Hammett, dove si precisano i due temi essenziali del suo cinema: la «ricerca», spesso vana o inutile; la misoginia.
Dopo l'intermezzo bellico che lo vede nel Signal Corps in Europa e nel Pacifico (gira alcuni aspri documentari), si occupa di teatro a New York, senza successo, torna al cinema mettendo a fuoco la sua ossessione per la inutilità della «ricerca» (della vita, alla fine) soprattutto con Il tesoro della Sierra Madre (1948), tre cercatori d'oro beffati dalla sorte (formidabile l'interpretazione di Walter Huston), Giungla d'asfalto (1950), una rapina fallita dove la misoginia gioca un ruolo indiretto, il massacrato (dalla produzione e dalla censura) La prova del fuoco (1951), La regina d Africa (1952), un lestofante e una seccatrice impegolati in una fuga nell'Africa del 1914 (accanto a una spiritosa Katharine Hepburn si fa onore, vincendo l'Oscar, quell'Humphrey Bogart che è stato sin qui presente in tutti i maggiori film di Huston).
Perseguitato dal maccarthismo, si trasferisce con moglie (la quarta) e tre figli (tra cui Anjelica) in Irlanda. Vi resta dieci anni e ne prende la cittadinanza. La sua attività non conosce soste, ma nemmeno significativi successi. Un discontinuo Moby Dick (1956) è seguito da un tormentato Gli spostati (1961), ultimo film di Clark Gable, da un fiacco e pretenzioso Freud, passioni segrete (1962), da (perfino) La Bibbia (1966) girata a Roma, da due burrascose e qua e là autentiche storie d'amore, ( La notte dell'iguana, 1964, Riflessi in un occhio d'oro, 1967). Sempre più eccentrico, affianca allo straordinario ritratto di una umanità sconfitta (Città amara, 1972), a un western coraggiosamente anomalo sulla scia d'una «ricerca» fallita (L'uomo dei sette capestri, 1972) e a una ruvida condanna degli effetti della infatuazione religiosa in un ambiente primitivo (La saggezza del sangue, 1979), alcuni film mediocri, riscattandosi parzialmente con la sarcastica commedia sulla mafia L'onore dei Prizzi(1985) e chiudendo in bellezza la carriera (e la vita) con lo splendido John Huston - The Dead (1987), una festa di Capodanno nella Dublino del 1904, tratta da un racconto di Joyce e ricreata sullo schermo con totale, profonda partecipazione.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
John Huston non ce l'ha proprio fatta a tener duro fino al 3 settembre, giorno in cui era in programma alla Mostra di Venezia il suo film testamento I morti. E morto sul finire d'agosto come all'inizio d'agosto era nato, in un lontano 1906. Ottantun anni da poco compiuti, il quarantunesimo film (compresi i quattro documentari) terminato in tempo utile. E ancora al lavoro, come attore, per il primo film di suo figlio Tony che ha sceneggiato The Dead mentre la figlia Anjelica ne è la protagonista. I morti è il racconto che conclude Gente di Dublino di James Joyce, e Huston lo ha trascritto fedelmente come aveva fatto all'origine della sua carriera di regista, su consiglio di Howard Hawks, col romanzo nero di Dashiell Hammett Il falcone maltese. Da americano rispettava Hammett; da irlandese (lo era al punto da assumerne la nazionalità nel 1964) era normale che venerasse Joyce.
Il mistero del falco, che è diventato un cult-movie e non è il solo nella sua eclettica produzione, ne impose subito il nome accanto a quello di Humphrey Bogart, che fino a lì aveva interpretato quasi soltanto il gangster cattivo. Nella figura del detective
privato Sam Spade, Dosar* diventava un giustiziere non meno inquietante, anche se più affascinante. Huston e «Bogie» furono amici e compagnoni di bevute: il divo era piuttosto sedentario e avrebbe lavorato volentieri in interni con il comfort hollywoodiano, ma quel dannato spilungone dalla faccia di pugile, mai sazio d'avventura, lo trascinava regolarmente in continenti scomodissimi, da Il tesoro della Sierra Madre a La Regina d'Africa. Da quest'ultima impresa l'attore usci stremato ma finalmente con la statuetta dell'Oscar in pugno, come del resto era capitato al vecchio Walter Huston, che il figlio adorava ma che costrinse a recitare sdentato in quella desolata caccia all'oro tra le montagne messicane.
E fu John, chi se non lui, a salutare per l'ultima volta il più amabile e vicino dei suoi protagonisti. L'addio pronunciato sulla tomba di Humphrey Bogart nel gennaio del '57 sta in testa al documentato ed equilibrato profilo del regista scritto da Morando Morandini nel 1980 per la collana del Castoro Cinema. Quel congedo funebre può oggi essere riletto, a distanza di trent'anni, anche in funzione della morte di Huston, che ha avuto un'esistenza certamente più lunga, ma intensamente vissuta come quella di Bogart. «Aveva avuto dalla vita tutto quel che desiderava, e qualcosa in più. Non abbiamo motivo di compiangere lui, bensì di compiangere noi per averlo perduto».
La personalità di John Huston non è facilmente afferrabile e definibile. Non solo a causa dell'eclettismo delle sue scelte, ma del carattere nomade della sua attività, svoltasi in America ma anche in giro per il inondo, talvolta in ossequio alle norme hollywoodiane ma molto più spesso in rivolta contro di esse. Fondamentalmente anarchico, ma conservatore almeno nelle radici ottocentesche, era egualmente imbevuto di vita vissuta e di cultura letteraria. Si potrebbe pensare a un Jack London per la sua attitudine al vagabondaggio, per le sue idee di ribellione sociale, e anche per la passione del pugilato attivamente praticato in gioventù. A vedere Il mistero del falco e il capolavoro Giungla d'asfalto (1950), o il più tardivo Fat City (1972) che è appunto uno dei più bei film sulla boxe, lo si direbbe un cronista essenziale della civiltà urbana contemporanea, con una spiccata attenzione umanistica ai personaggi e alle psicologie. E tutto sembra espresso in presa diretta, non attraverso il filtro di romanzi (rispettivamente di Hammett, Burnett e Leonard Gardner). Ma poi ci si imbatte in una serie di altri film, dove la matrice letteraria o comunque culturale è ben più evidente e quasi schiacciante. Essa finisce per travalicare la forma cinematografica stessa, che regge splendidamente fino a un certo punto, poi s'ingarbuglia, si attutisce e si spegne.
Huston diventa allora il regista di sequenze staccate (quasi ogni film ne ha qualcuna di memorabile), magari di inizi travolgenti. Le ouvertures di due opere di prestigio anche spettacolare quali Moulin Rouge (1952) e Moby Dick (1956), entrambe a colori (anche se il colore della seconda è particolare, derivato dalla fusione col bianco e nero), sono di straordinaria intensità: nell'una la folgorante gigantografia dei danzatori dipinti dal nanerottolo Toulouse-Loutrec, nell'altra la suspense per la favolosa vendetta del mutilato Achab contro il dio dei mari. Ma quando gli attori si prendono tutta la parte, le cose si appiattiscono, le situazioni diventano convenzionali e, si direbbe, troppo «all'americana»: né José Ferrer, né tantomeno Gregory Peck, che fallisce la grande occasione della sua carriera, reggono al compito. E se gli interpreti non sono all'altezza in un film di Huston, Il motivo sta nel manico, cioè nella sceneggiatura e nella regia.
Huston è sempre stato sceneggiatore (anche prima di esordire alquanto tardivamente nella regia) e ha sempre messo estrema cura nella preparazione scritta del film. Simile in questo al suo estro Hawks o anche a un cineasta come Buñuel, che pure gli è, molto lontano (e molto superiore) ma con qualche singolare unità. Per esempio quella di concentrare nell'azione tutto il succo del film, con l'intento di non annoiare mai il pubblico. Si so che uno dei sogni di Buñuel era di portare sullo schermo l'importabile romanzo di Malcom Lowry Sotto il vulcano, funerea sinfonia di un alcolizzato europeo in paesaggio messicano. Anche altri ci avevano pensato ma solo Huston ci è riuscito nel 1984, ormai vegliardo. O per meglio dire è riuscito a indurre Albert Finney, che infatti gli è molto grato, a resistere con la bottiglia in mano imo alla fine, ma non a esprimere senza cadere nella monomania (e quindi sommergendo il pubblico invece di stimolarlo) lo sfacelo di umanesimo che la parabola comportava. Bisogna ripetere che l'impresa era delle più ardue e apprezzare il coraggio e la nobiltà di Huston nel misurarsi con essa in età così venerabile. D'altronde non è forse Huston, tra tante altre peculiarità, anche il regista delle avventure impossibili? Moby Dick ne è la prova più eloquente.
Cinque mogli e sessanta film (comprese le sceneggiature e le interpretazioni per altri) è il titolo dato in Italia, dagli Editori Riuniti, alle memorie di quest'uomo di cinema che è stato forse anzitutto un grande personaggio, vivace e ribelle in gioventù quanto maestoso in vecchiaia. Già impersonando l'ubriacone Noè nella Bibbia, prodotta nel '66 da De Laurentiis e da lui finalmente diretta dopo che una pletora di illustri colleghi vi aveva rinunciato, egli aveva suggerito l'idea palpabile dell'allegro e vitale patriarca che poi sarebbe diventato. Patriarca, s'intende, anche del male, come il lugubre capitalista di Chinatown affidatogli nel '74 da Polanski, sotto il segno della violenza incestuosa. Huston era un caratterista come suo padre Walter, ma sempre un po' impacciato davanti alla cinepresa: il suo genio, infatti, era di starci dietro.
Abbiamo definito Giungla d'asfalto un capolavoro e crediamo che quel film sia rimasto insuperato nello stile del regista che, ancora una volta, coincideva perfettamente con quello di uno scrittore da lui molto stimato: W. R. Burnett, uno dei migliori autori della letteratura sui gangster. Burnett doveva amare i suoi personaggi per riuscire a dipingerli cosi realisticamente. Eguale è la tensione, sentimentale ma lucida, di Huston. Si ricorderà la fine di almeno due degli scassinatori: quella del piccolo anziano tedesco detto Doc (Sani Jaffe) preso non tanto dalla polizia quanto dalle curve di una ragazzina che danza col juke-box, e quella del massiccio Sterling Hayden, stazza da eroe vichingo, che si trascina a morire presso una prateria di liberi cavalli.
Il regista prediligeva i cavalli appunto come simbolo di libertà (uno degli ultimi). E infatti gli avrebbe dedicato un film intero: Gli spostati (1960), scritto da Arthur Miller per Marilyn Monroe, e che convogliò anche Clark Gable alla vigilia della morte, avvenuta undici giorni dopo la fine delle riprese. Pure Montgomery Clift faceva parte del cast. Huston, che sotto questo riguardo non era tenero neppure con Marilyn, lo detestava per il suo spirito di autodistruzione. Ma ciò non gli imperli di prenderlo subito dopo per un'altra delle sue imprese impossibili: il film su Freud Passioni segrete, una biografia giustamente parziale, eppure falcidiata dai produttori. E si pensi ch'era stato mobilitato perfino Jean-Paul Sartre, il quale aveva fornito un copione di 1100 pagine, che nessuno (nemmeno Huston) poteva utilizzare.
Un aspetto prevalente della personalità di Huston (altra affinità con Buñuel) è l'ironia, il gusto del divertimento e della dissacrazione. Naturalmente l'ironia di Huston è di tipo anglosassone, come quella di Hitchcock, ma spruzzata di ribalderia americana e di anarchismo irlandese-scozzese (gli Huston si chiamavano Houghston e provenivano da queste terre). Il regista Antonio Pietrangeli ci raccontava, lacrimando dal ridere, come Huston, iniziando a Ravello Il tesoro dell'Africa del 1954, si proponesse di prendere in giro, non sappiamo più per quale ragione, il coproduttore italiano che doveva essere Rizzoli, quello vero. Donde la girandola di non-sense, con Bogart, il fido Peter Lorre e l'irresistibile Robert Morley gentiluomini mattacchioni nel deserto, Jennifer Jones scatenata nella parodia di se stessa e dei propri melodrammi, Gina Lollobrigida incapace invece di stare allo scherzo, ecc. Oggi il film è, come si dice, un cult-movie, un oggetto di culto da parte dei più giovani.
Ma ci sono altre occasioni dove il divertissement si tinge di tenerezza, come L'uomo dei sette capestri (1972) che nel finale è un omaggio galante alla bellezza sfiorita ma sempiterna di Ava Gardner: un paladino da forca ne schizza un ritratto da cavalier cortese. Se poteva sorprendere che un ateo inveterato accettasse la Bibbia, o meglio quella sua parte che è la Genesi (il kolossal s'intitola infatti La Bibbia - In principio, la sola rimasta di un progetto che avrebbe dovuto coinvolgere il miglior cinema internazionale), diventa addirittura commovente che in vecchiaia Huston abbia aderito con tanto rispetto, in quel denso quadro delle sette religiose proliferanti negli Stati Uniti che è La saggezza nel sangue (1979), al romanzo Wise Blood della scrittrice cattolica Flannery O'Connor.
Da Stephen Crane (La prova del fuoco, 1951) a Rudyard Kipling (L'uomo che volle farsi re, 1975), dal misterioso B. Traven (Il tesoro della Sierra Madre, 1946) fino all'abissale Joyce (The Dead, 1987), il marchio della letteratura è troppo impresso nella filmografia di John Huston, perché si possa catalogare il tutto sotto la formula che, da buon cineasta pragmatico, egli coglieva al volo le occasioni che gli si presentavano. No, si tratta d'una scelta consapevole e precisa: egli trovava gli autori congeniali (strano piuttosto che non abbia mai incontrato un Jack London o un Mark Twain) e non è affatto un caso che molti di essi appartenessero ancora all'Ottocento. Lui stesso, lo abbiamo già osservato, era nutrito di linfa ottocentesca, di spirito della frontiera. Apparteneva a un'America che non c'era più; anche uno stupendo film contemporaneo come Fat City era il ritratto di un'America minore e amara che sembrava quella dei tempi di Emilio Cecchi.
E suo gusto per il pionierismo è un'altra testimonianza: egli metteva insieme un'accozzaglia di sradicati, di falliti, di illusi e li scagliava verso il colpo definitivo, l'irreale fortuna; e non contava tanto che raggiungessero lo scopo o che fossero regolarmente dei perdenti (come in un altro americano intellettuale, progressista ed europeizzato: Joseph Losey). Quello che importava, come nei film di Hawks, era che stessero fianco a fianco, che uscissero dalla solitudine e dalla disperazione, che imparassero a solidarizzare tra loro disgraziati; in una parola, a sopportarsi come uomini. Huston diceva che Hawks, forse, personalmente era anche un reazionario, ma che quanto appariva nel suo cinema ne costituiva la smentita più certa.
Dotato di eccellente salute almeno fino agli ultimi tempi, in cui fu costretto a servirsi di una bombola a ossigeno e, come Visconti, di una sedia a rotelle, Huston è stato un laico irriducibile, persuaso che si dovessero buttar giù dal potere tutti i tiranni, dal trono tutti i sovrani, dagli altari tutti gli dei. Attraverso l'avventura rivoluzionaria come in Stanotte sorgerà il sole, attraverso l'avventura picaresca e ribalda come in L'uomo dei sette capestri e in L'uomo che volle farsi re, attraverso l'avventura metafisica ribaltata in lotta terrena come in Moby Dick, la balena bianca. Ha scritto Alberto Crespi su "l'Unità", in una delle poche pagine di giornale adeguate alla scomparsa di tale personaggio: «Riletta oggi, la sua è l'opera di un grande blasfemo, di un laico convinto che Dio potesse trovare solo nel whisky consolazione ai mali che aveva creato». Giustissimo. Ma la cortina della guerra neppure Huston è riuscito a sfondarla. E non certo per colpa sua.
Il rapporto con la guerra è l'ultimo tema che va affrontato. Dobbiamo purtroppo trascurare altri titoli di un'operosità incessante, quali l'appena citato Stanotte sorgerà il sole (1949), un invito alla rivolta contro la dittatura fascista a Cuba; Le radici del cielo (1958), da un romanzo di Romain Gary, forse il fallimento più grosso su un soggetto come l'estinzione degli elefanti; I cinque volti dell'assassino (1963), un gioco giallo a orologeria; La notte dell'iguana (1964), dal dramma di Tennessee Williams; Riflessi in un occhio d'oro (1967), dal romanzo di Carson McCullers; e molti ancora fino a L'onore dei Prizzi (1985), una commedia sulla mafia il cui successo è troppo recente perché ci sia bisogno di spenderci parola. Ma Huston non ha avuto sempre successi, anzi questo regista popolarissimo è andato spesso incontro a smacchi, specie quando i suoi propositi erano più seri, e allora intervenivano i committenti a bloccargli o mutilargli il lavoro. Il caso più lampante è quello della guerra: La prova del fuoco, appunto.
Non si stenta a credere che Il rosso emblema del coraggio, un classico della letteratura americana lasciato da un autore morto giovanissimo, impensierisse i produttori della Metro. Appena saputo che Stephen Crane, e sul suo testo Huston, avevano affrontato sul filo del rasoio, ambientandola nella Guerra Civile, l'ambigua interdipendenza di coraggio e di paura di fronte alla battaglia, e che per di più il regista aveva impiegato Audie Murphy, il più decorato della seconda guerra mondiale, nel ruolo del giovane alla prova del fuoco, la patriottica triade Louis E. Mayer, Dore Schary e Joseph Schenk fu implacabile col film, non potendo evidentemente esserlo col libro, uscito da troppi anni e ormai assurto nel pantheon culturale. II massacro è puntigliosamente ricostruito in un resoconto giornalistico pubblicato anche in Italia (Lillian Ross, Processo a Hollywood, Garzanti, Milano, 1956). Si rimproverò a Huston di non essere stato presente a difendere il suo lavoro sul campo e di aver preferito divagarsi con Humphrey Bogart e Katharine Hepburn alle prese con La Regina d'Africa, d'altronde con piena soddisfazione dei futuri spettatori.
Ma Huston probabilmente sapeva che non c'era nulla da fare. Aveva dietro di sé la storia di tre suoi documentari di guerra che, per una ragione o per l'altra, non avevano raggiunto il pubblico. La ragione fondamentale è una: censura, e censura militare. La battaglia di San Pietro fu dimezzato a mezz'ora: la parte soppressa è quella delle interviste ai soldati che, nella zona di Montecassino, vanno all'assalto di un imprendibile fortilizio tedesco. Quelli che avevano risposto nel modo più schietto e profondo sul senso della guerra erano morti nell'azione, e le loro parole risuonavano sui loro cadaveri. Sia fatta luce, girato nel 1945 dal regista ormai promosso maggiore e decorato, fu invece proibito tutto. Proibito, come nel caso di The Land di Flaherty, dal ministero che lo aveva commissionato. Ma il ministero della Guerra è più scorbutico di quello dell'Agricoltura. Huston mostrava dal vero la riabilitazione dei militari colpiti da turbe psichiche. Alcuni arrivavano a giocare a baseball, senza più tremiti o paralisi. Eppure niente da fare: per decenni il veto è stato rigido anche per proiezioni speciali, culturali e scientifiche. Huston non si dava pace per questo diktat e non se lo spiegava. Forse perché - si chiedeva - gli effetti della guerra sugli spiriti sono ancor più terribili a vedersi di quelli sui corpi? Ma il recupero di quei reduci attraverso il trattamento psichiatrico somigliava - diceva - a «un'esperienza religiosa». Era la concessione massima in bocca a un tipo come lui. Ma neppure la religione poteva smuovere i censori militari.
Che tipo era John Huston? Il tipo capace di rispondere al generale che lo rimproverava perché La battaglia di San Pietro era un film contro la guerra, con queste parole che andrebbero scolpite sulla sua tomba: «Bene, signore, se mai farò un film per la guerra, le consento di farmi fucilare».
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006