Jean Vigo è un regista, sceneggiatore, è nato il 26 aprile 1905 a Parigi (Francia) ed è morto il 5 ottobre 1934 all'età di 29 anni a Parigi (Francia).
Crebbe infelice e malato, tra collegio e sanatorio. Stabilitosi al Sud per ragioni di salute, lavorò con l'operatore francese L.H. Burelguidò e creò a Nizza il cineclub d'avanguardia Les amis du Cinéma legandosi al movimento surrealista. Con il cortometraggio À propos de Nices (1930), "punto di vista documentato" con notevole sarcasmo sul turismo di lusso e gli ozi della borghesia, realizzato con B. Kaufman, iniziò una carriera folgorante ma creativamente molto breve (5 film in 4 anni) di genio del cinema. Dopo il cortometraggio didattico divenuto in realtà uno studio sugli effetti cinematografici e il ritmo narrativo Taris ou la Natation (1931), consegnò in due film a soggetto tutto il suo talento. Nel primo, Zéro de conduite (1933, proibito in Francia fino al 1946), sua esperienza d'infanzia, che ha come teatro il carcere in cui il padre, militante anarchico basco, si trovava in attesa del processo per tradimento, si trasfigurò sulle ali del grottesco, in un potente atto d'accusa all'autoritarismo borghese, congiunto a una vibrante e lirica esplosione libertaria. Il secondo, L'Atalante (1934), che fu più volte modificato, censurato e proibito per ben dodici anni, durante la sua agonia, nella colonna musicale (con l'inserimento di una canzoncina alla moda) e nel titolo che divenne Le chaland qui passe, che descrive la solitudine degli esseri e l'umanità dei diseredati e dei "diversi", lanciando un rivoluzionario messaggio d'amore (è la storia romantica e realista di una coppia che vede nascere l'amore su di una chiatta lungo i canali francesi) in maniera elegante, raffinata e intelligente.
Discendente degli antichi vicari di Andorra, Jean Vigo nasce a Parigi nel 1905, da Eugène Bonaventure de Vigo e Emily Clero, in una misera mansarda. Il padre, fotografo, ma soprattutto militante anarchico, già da alcuni anni passa la maggior parte del tempo in prigione, ed è qui che assume lo pseudonimo di Miguel Almereyda, il cui significato è l'anagramma di una frase tra lo sberleffo e l'urlo di ribellione ("Y a la merde"). La sua infanzia è tumultuosa e disordinata, vissuta tra continui spostamenti e riunioni politiche. Quando il padre muore, in prigione, a causa della sua posizione contraria alla guerra, nel 1917, Jean è costretto ad andare a vivere con i nonni materni. Forse anche a causa della disperazione per la morte del padre, si ammala, e su consiglio di un medico viene inviato a respirare l'aria più salubre di Millau, ospite di un Collegio che si dovrà occupare anche della sua educazione. Jean viene iscritto sotto falso nome, per timore che venga riconosciuto come il figlio di un famoso militante anarchico. Ma il Collegio impone a Jean una disciplina incompatibile con la sua precedente educazione libertaria. La sofferenza che ne consegue sarà in seguito fonte d'ispirazione per il suo primo lungometraggio, Zero in condotta. Nel 1925 lascia il Collegio e inizia a frequentare il Liceo di Chartres, dove si diploma in Filosofia tre anni dopo. Si iscrive alla Sorbona, ma dentro di lui già è nata la passione per il cinema. E' la sua salute a fermarne momentaneamente lo slancio creativo, e a costringerlo a un ricovero nel sanatorio di Font-Romeu. Qui incontra la sua futura compagna, Lydu (Elisabeth Losinska), che sposerà il 24 Gennaio 1929 e dalla quale avrà una figlia (Luce).
Si trasferiscono a Nizza, dove Jean inizia la sua attività come aiuto regista. Di lì a poco realizzerà un cortometraggio (A proposito di Nizza) che otterrà un buon successo di critica. Questo gli consentirà di ricevere l'incarico per due cortometraggi sportivi: uno su Jean Taris, campione di nuoto, e l'altro sul tennista Henri Cochet. Ma il successo tarda ad arrivare, e a causa delle difficoltà economiche Jean è costretto a vendere la sua cinepresa. Sul punto di arrendersi, Jean fa però un incontro decisivo: quello con Jacques-Louis Nunez, un uomo d'affari che ha intenzione di diventare produttore cinematografico. Da questo sodalizio nasce il progetto di Zero in Condotta. Purtroppo il film cadrà sotto i colpi della censura. Verrà vietato e non potrà essere visto dal pubblico fino al dopoguerra. Nel 1934 Vigo, sempre con il produttore Nunez, realizza L'Atalante, quello che da molti registi che verranno dopo di lui sarà considerato come il film più importante nella storia del cinema, quello che traccia una linea di demarcazione tra il cinema delle origini e il cinema moderno. Avendo a disposizione finalmente un cast d'attori all'altezza (Michel Simon, Jean Dasté, Dita Parlo), e un soggetto che però non ama affatto (una banale storia d'amore ambientata nel mondo dei marinai fluviali), Vigo riesce a realizzare un'opera che crea una nuova grammatica cinematografica, e che in moltissimi suoi aspetti anticipa quello che è il cinema dei giorni nostri.
Ha solo 29 anni, e pochi giorni di vita: riuscirà solamente a vedere la proiezione dell'opera non ancora del tutto montata, per morire subito dopo di tisi.
La publication, conjointement à la traduction de l'Eisenstein de Marie Seton, du Jean Vigo, de P.E. Salés Gomès est un événement doublement notable. Par la valeur du texte d'abord sans doute, mais aussi parce qu'elle témoigne de progrès dans l'édition cinématographique française. Il ne faut pas se cacher que l'impression d'un tel livre eût été impensable voici trois ou quatre ans. En dépit du nombre des livres publiés (avec fort peu de discernement du reste de la part des éditeurs), la France restait et reste très en retard sur la bibliographie de langue anglaise et italienne en fait d'ouvrages «sérieux» (sauf peut-être dans le domaine purement historique, grâce surtout à Georges Sadoul). Pour ne citer qu'un exemple, Film Form et Film Sensé attendent toujours d'être traduits et édités. Mais depuis deux ans surtout, les conditions ont beaucoup changé et la collection «Cinémathèque» des Éditions du Seuil en témoigne de la façon la plus significative.
Une vie brève - une œuvre importante<7b>
Avec un amour qui n'a d'égal que la patience et son érudition, Paul Émilio Salés Gomès, conservateur de la cinémathèque de Sao-Paulo, a écrit sur Jean Vigo un ouvrage que je qualifierai d'exemplaire. C'est sans doute en tout cas le premier exemple de travail exhaustif sur un cinéaste et son œuvre. Il est vrai que sa vie fut brève et que cette œuvre ne comporte que quatre titres, dont deux de court métrage et un de moyen métrage. L'équivalent des mêmes recherches sur un Jean Renoir, par exemple, exigerait plusieurs gros volumes.
Jean Vigo est situé avec minutie et exactitude dans le milieu qui l'a vu naître et surtout par rapport à son père Almeyreda, dont le souvenir et le culte tiendront un si grand rôle dans la vie de Jean. Mais à cause d'abord sans doute des qualités de cœur et d'esprit de Salés Gomès, ensuite de la nouveauté du procédé dans le domaine cinématographique, cette découverte consciencieuse et quasi scientifique de la vraie personnalité de Jean Vigo prend une valeur d'émotion qu'elle n'aurait probablement pas s'il s'agissait d'une biographie littéraire ou musicale. Je ne suis pas sûr que Salés Gomès n'eût pu parfois avec avantage se montrer plus synthétique et résumer en quelques paragraphes la documentation qu'il tient à nous exposer au long de plusieurs pages, mais il y a dans cette insistante passion d'objectivité, une poésie des faits qui s'accorde particulièrement bien avec la personnalité qu'elle entend ressusciter.
Conçue voici trois ou quatre ans, cet extraordinaire travail historique et critique témoigne aussi de l'importance prise après la guerre par l'œuvre pourtant si brève de Jean Vigo, importance que ne soupçonnaient pas tout à fait ceux mêmes qui furent ses admirateurs et ses amis. L'examen par Salés Gomès des réactions critiques en France et à l'étranger à Zéro de conduite et à L'Atalante, avant et après la guerre, fait clairement ressortir qu'en passant des mains de la critique des années 30 à celle des années 50, le flambeau de Jean Vigo s'est mis à briller d'une flamme nouvelle. Pour les premiers, Jean Vigo est un cinéaste merveilleusement doué, pour certains même génial, mais qu'une mort prématurée à 29 ans a empêché de donner sa mesure. Pour la jeune critique d'aujourd'hui, A propos de Nice, Taris, Zéro de conduite, et L'Atalante suffisent amplement à faire de Jean Vigo l'un des plus grands et en tout cas le plus pur des poètes du cinéma. Que signifient les regrets de ce que Vigo n'a pas eu le temps de réaliser quand l'évidence de son œuvre a de quoi nous combler? Sans doute ne peut-on pas sans une grande amertume songer que l'auteur de L'Atalante aurait à peu près aujourd'hui l'âge d'un Jacques Becker ; mais on peut aussi bien remercier le ciel qui a permis à un jeune homme de 29 ans de délivrer un tel message. Probablement, s'il avait survécu, Jean Vigo aurait pu réaliser d'autres chefs-d'œuvre, plus achevés peut-être que L'Atalante, mais on peut douter que ces films parfaits nous eussent appris autre chose que ce que nous pourrons puiser dans les brèves merveilles qu'il nous a laissées.
Da France-Observateur, 22 août 1957
Nasceva cent’anni fa a Parigi uno dei più puri artisti che il cinema abbia donato, Jean Vigo, morto a soli 29 anni dopo averci lasciato non più di tre ore di cinema. La carriera di Vigo si svolge nella tumultuosa Francia del tentato colpo di stato fascista e del Fronte popolare. Figlio di un anarchico catalano dalla carriera ambigua negli anni della banda Bonnot (Louis de Vigo, noto con lo pseudonimo di Miguel Almereyda: ne dà un bel ritratto Victor Serge nelle Memorie di un rivoluzionario) morto misteriosamente in carcere quando Jean aveva dodici anni. E intriso di violenti umori anarchici era anche l’esordio di Vigo, una specie di documentario d’avanguardia su Nizza, A propos de Nice (1930), violento pamphlet contro la città balneare e la sua corrotta borghesia, cui seguì un documentario sul campione di tuffi Taris (in realtà una meditazione sul movimento, astratto e vitale insieme: Taris roi de l’eau ou la natation, 1931). Vennero poi, di fila, i due capolavori: Zéro de conduite (1932) su una rivolta di ragazzini in un collegio, e L’Atalante (1934), poema d’amore con contorno di un giovane e di un vecchio, come in una specie di filosofica, utopica rivisitazione della famiglia dell’uomo. Ai primordi del sonoro, alla fine della grande stagione delle avanguardie cinematografiche e prima della stagione del “realismo poetico“, Vigo attraversò il cinema francese con una potenza inaudita. La compresero subito censura e produttori: Zéro de conduite fu massacrato di tagli (la versione che circola da allora è di una cinquantina di minuti) e L’Atalante fu ostacolato e massacrato dai produttori (uscì anche col titolo La chaland qui passe, ovvero la versione francese di Parlami d’amore Mariù che si ascolta nel film) finché non è riapparsa, nel 1990, una versione restaurata. La potenza del cinema di Vigo è anche, nella sua lotta contro le convenzioni, il rifiuto primario di quella convenzione che è il realismo. I suoi due capolavori mostrano anzi quanto secondaria e falsa sia l’opposizione di realismo e fantastico al cinema, davanti alle potenzialità dirompenti del mezzo, che si nutre di realtà e vita e attraverso la sua materia riesce a essere, con la sua vicinanza al tempo, la più fantastica delle arti.
Zéro de conduite e L’Atalante, proprio per la radicalità della loro idea di cinema e di vita, rimangono dei film sconcertanti, ambigui, inevitabilmente da più e più visioni. La rivolta dei ragazzini di Zéro è totalmente a-morale e non per questo meno poeticamente giusta. Al suo confronto, perfino I 400 colpi è un film sentimentale, annacquato, troppo “adulto”. I rapporti tra i personaggi dell’Atalante non sono meno ambigui, anche eroticamente: lo strano vecchio Michel Simon, il ragazzo troppo cresciuto Louis Lefebvre... Il cinema di Vigo, anti-sentimentale e antiborghese, trasmette in fondo, come nessun altro ha fatto mai, una sola passione, quasi impossibile da rendere in immagini: la passione per la libertà. Già diverso in questo dai primi film del più anziano Bunuel, che mise da subito tutto il suo impegno nella negazione della borghesia, nella sua feroce distruzione, Vigo (dopo la salutare sfuriata di A propos de Nice) ebbe, già con Zéro de conduite, il dono di trasmettere la selvaggia grazia della rivolta e dell’utopia, non in termini meramente vitalistici ma già sociali, e sensibilissimo alle pulsioni più ambigue, alle inquietudini di un’età biologica e di un’epoca storica. Regista inevitabilmente senza scolari, meteora irraggiungibile e in fondo estranea alle correnti, l’esempio di Vigo ritorna sempre freschissimo quando ogni nuova generazione sente il bisogno di ripartire da zero, da visioni senza compromessi. Guardare i suoi film, oggi, getta inevitabilmente anche nella costernazione, nella rabbia per Io squallore del cinema che ci circonda, superfluo ed evirato, pigro e schiavo, ormai quasi del tutto privo di spiriti liberi.
Da Film Tv, n. 15, 2005
È caduto l’anno scorso, ricordato da pochi, il ventesimo anniversario della morte di Jean Vigo, il singolare regista di Zero in condotta e de L’Atalante. Vigo morì a soli 29 anni lasciando però un grande ricordo presso coloro che sono persuasi che il cinema non è soltanto un passatempo da dimenticare subito. In Zero in condotta Vigo ha evocato la vita di collegio; ne L’Atalante, che è anche conosciuto come Le chalande qui passe, dal titolo della canzone popolare che vi venne aggiunta come commento sonoro, è la storia di un malinconico amore sullo sfondo dei canali navigabili francesi.
Il mondo morale di Vigo è un mondo di rivolta contro la ipocrisia, il costume, i luoghi comuni di una società rappresentata come naturale sede di una stoltezza infinita. Per capire l’ispirazione e il mondo doloroso di Jean Vigo è bene ricordare che il regista era il figlio di quell’uomo politico che sotto il «nom de plume» di Miguel Almereyda aveva riempito le cronache dei giornali durante la prima guerra europea. E,c-anarchico, poi direttore del «Bonnet Rouge», Almereyda era finito in prigione sotto la terribile accusa di «intelligenza col nemico». Un giorno era stato trovato impiccato nella sua cella; né mai si poté sapere se si trattò di un autentico suicidio. Da giovane Miguel Almereyda era stato uno di quegli anarchici ingenui e malaticci che vivono nell’attesa di una improbabile palingenesi. Secondo la testimonianza di un eccellente memorialista, Francis Jourdain, Almereyda era allora un piccolo fotografo in rivolta contro la società, un adolescente felice di stare al mondo e furioso di non sapere con precisione chi avesse interesse a impedirgli di vivere e di esser felice. Più tardi Eugène Vigo, che diventerà famoso come Miguel Almereyda, aveva vissuto «more uxorio» con una rivoluzionaria, certa Emily, da cui doveva nascere Jean.
La puerizia di Jean Vigo trascorse nel modo più strano: il bambino frequentava le riunioni politiche con i genitori, seguendo la madre quando essa finiva in carcere; come ricorda Jourdain, imparò a giocare ai quattro cantoni nel cortile della prigione di Clairvaux. Venuto il tempo di frequentar le scuole, il futuro regista di Zero in condotta fu costretto per l’inquietudine e la vita disordinata dei genitori, a studi poco regolari; quando il padre, diventato un uomo importante, ebbe appartamenti di lusso, e macchine alla porta, Jean Vigo passò il proprio tempo nell’«office» a giocar a carte con la servitù. A tragedia avvenuta fu chiuso in collegio, prima origine di quell’opera sarcastica ed amara che è Zero in condotta.
Cresciuto in modo così eterodosso, di salute cagionevole, dotato di una sensibilità fuor del comune, Jean Vigo non ebbe la vita facile. Se non si vuol vedere nel mestiere di fotografo esercitato dal padre nella giovinezza un segno premonitore, non è difficile pensare che egli sia stato indotto ad occuparsi di cinema da una sincera vocazione. Con più ingenuità ed abbandono alla tenerezza, e con meno «egoismo», Vigo è infatti un Radiguet del cinematografo.
È un destino crudele proprio del cinema quello di mangiarsi i suoi autori per la quasi impossibilità in cui si trovano intenditori e appassionati di rivedere le opere che sono piaciute, come si fa con un libro che si ricerca in biblioteca o per un dipinto di cui si conosce la collocazione precisa nelle raccolte pubbliche e private. La dispersione dei grandi film del passato obbliga lo studioso ad affidarsi alla memoria, che è una dea traditrice. Vigo avrebbe un nome ben più risonante se si fosse occupato di pittura o di poesia invece che di film.
Intendiamoci. Sin dai primi tempi, ci sono stati degli artisti che hanno intuito le enormi possibilità del nuovo mezzo espressivo e han cercato di toglierlo dai baracconi da fiera per indurlo ad esprimere cose nobili ed eterne; i nomi dei classici del cinema muto, da Murnau a Pabst, da Eisenstein a Feyder, sono nella memoria di tutti. Ma Vigo è un’altra cosa. Gli altri hanno avuto di mira «contenuti»più facili o più ovvii; Vigo è stato l’unico (e per questo è così singolare) a tentare di porre il cinematografo sullo stesso piano dei generi letterari più aristocratici, la satira con Zero in condotta, e la poesia elegiaca con L’Atalante.
In questa direzione Jeannot, come lo chiamavano quando era piccino gli amici di suo padre, è un precursore. Il suo «messaggio» era nell’aria, d’accordo; certe premesse, poste verso il 1930, vennero a maturazione nel 1945, d’accordo ancora; ma non si può non riconoscere che certi film italiani, come I bambini ci guardano e Sciuscià di Vittorio De Sica, e certi francesi (Le diable au corps di Claude Autant-Lara, Giochi proibiti di René Clément) sono annunziati con un notevole anticipo dalle opere singolari e legate agli interessi di pochi intellettuali di Jean Vigo.
Anche per il cinema si ripete dunque il destino dei precursori delle altre arti, di coloro che seppero parlare alle generazioni non ancora giunte a maturazione. Singolare e doloroso destino. Oggi Vigo avrebbe cinquant’anni, cioè sarebbe nel pieno degli anni più propizi per un artista. Forse sarebbe uno dei maestri del cinema d’oggi. Ciò che è certo è che non avrebbe ceduto alla facilità, che è il modo più corrente per i registi dotati di venir meno al loro destino, cioè di tradire.
Ho avuto la fortuna di scoprire tutti i film di Jean Vigo in un’unica volta, un sabato pomeriggio del 1946, al Sèvres-Pathé grazie al cine-club La chambre noire animato da André Bazin e altri collaboratori di “La Revue du Cinéma”. Entrando in sala ignoravo persino il nome di Jean Vigo, ma fui preso immediatamente da un’ammirazione sterminata per quest’opera che tutta insieme non raggiunge nemmeno i duecento minuti di proiezione.
In principio ho avuto più simpatia per Zéro de conduite (1933), probabilmente per identificazione avendo solo tre o quattro anni più dei collegiali di Vigo. Poi, a forza di vedere e rivedere i due film, ho finito per preferire definitivamente L’Atalante (1934) che mi sarà per sempre impossibile dimenticare quando mi trovo a dover rispondere a questionari del tipo: “Quali sono, secondo lei, i dieci migliori film del mondo?”. In un certo senso, Zéro de conduite sembrerebbe rappresentare qualcosa di più raro di L’Atalante perché i capolavori consacrati all’infanzia nella letteratura o nel cinema si contano sulle dita di una mano. Questi ci sconvolgono doppiamente perché all’emozione estetica si aggiunge un’emozione biografica, personale e intima. Tutti i film di bambini sono film d’epoca perché ci riportano alle nostre braghette corte, alla scuola, alla lavagna, alle vacanze, al nostro esordio nella vita.
Come in quasi tutte le opere prime, c’è in Zéro de conduite un aspetto sperimentale, idee di ogni tipo più o meno ben integrate nella sceneggiatura e girate con l’aria di dire “proviamo anche questo, per vedere che effetto fa”. Penso, per esempio, alla festa del collegio in cui su una tribuna, che è nello stesso tempo un tirassegno da fiera, alcuni manichini sono messi in mezzo a personaggi reali. Cosa che poteva fare René Clair nello stesso periodo; un idea comunque datata. Ma per un idea intellettualistica di questo tipo, quante superbe invenzioni si possono contare, comiche, poetiche o strazianti, tutte comunque di una grande forza visiva e di una crudezza ancora ineguagliata!
Quando, dopo poco, gira L’Atalante, Vigo ha evidentemente appreso la lezione di Zéro de conduite e questa volta raggiunge la perfezione, raggiunge il capolavoro. Usa ancora il ralenti per ottenere effetti poetici ma rinuncia all’accelerato per quelli comici, non ricorre più ai manichini, si limita a porre davanti al suo obiettivo una realtà che trasforma in incantesimo e filmando prosa ottiene senza sforzo poesia.
Superficialmente, si potrebbe paragonare la carriera-lampo di Vigo a quella di Radiguet. In ambedue i casi, si tratta di autori giovani, scomparsi prematuramente non lasciando che due opere. Nell’uno e nell’altro caso, la prima opera è scopertamente autobiografica, la seconda apparentemente più lontana dall’autore perché basata su materiale esterno. Stimare meno L’Atalante perché si tratta di un’opera commissionata significa dimenticare che le opere seconde sono sempre su commissione: Le bal du Comte d’Orgel fu commissionata da Cocteau a Radiguet o da Radiguet a se stesso. Per principio, ogni opera seconda è importante perché permette di determinare se l’artista non sia l’uomo di una sola opera, cioè un dilettante dotato oppure un creatore, l’uomo di un colpo di fortuna oppure colui che si sta evolvendo. Infine si può notare un identico tragitto di Vigo e Radiguet, il passaggio dal realismo e dalla rivolta al preziosismo e all’estetismo (parole usate qui nel senso migliore). Anche se si potrebbe infine fantasticare su quale meraviglioso Diable au corps avrebbe potuto realizzare Jean Vigo, non voglio prolungare oltre questo confronto tra lo scrittore e il cineasta. Notiamo solo che nei saggi dedicati a Jean Vigo vengono fatti spesso i nomi di Alain-Fournier, Rimbaud e Céline, ogni volta con buoni argomenti.
[…]
I cineasti come tutti gli artisti cercano il realismo o piuttosto cercano di cogliere la loro realtà e sono generalmente tormentati dallo scarto tra ciò che hanno voluto e ciò che hanno ottenuto, tra la vita come essi la sentono e come riescono a riprodurla.
Penso che Vigo avrebbe avuto molti motivi per essere più contento di se stesso che i suoi colleghi, perché è andato più avanti di ciascuno di loro nella restituzione delle diverse realtà: quella delle cose, degli ambienti, dei personaggi, dei sentimenti, più avanti anche e soprattutto nella resa della realtà fisica. E mi domando anche se sia esagerato parlare a proposito di Vigo di cinema olfattivo. Questa idea mi è venuta dopo che un giornalista mi ebbe detto un giorno, per esibire un argomento decisivo contro un film che mi piaceva, Le vieil homme et l’enfant (Il vecchio e il bambino, 1966): “E poi è un film che puzza ai piedi”.
Sul momento non ho risposto niente ma ci ho ripensato dicendomi: ecco un argomento che “puzza” fortemente all’estrema destra e che avrebbero potuto usare i censori che hanno proibito Zéro de conduite; del resto Salès Gomès nota che gli articoli ostili ai film di Vigo contenevano frasi del tipo: “È acqua di bidet” oppure “Si scivola nella fogna” ecc. André Bazin in un articolo su Vigo ha usato un’espressione molto felice parlando del suo “gusto quasi osceno della carne”, perché è vero che nessuno ha filmato la pelle dell’uomo così crudamente come Vigo. Niente di ciò che si è mostrato sullo schermo nei successivi trent’anni ha eguagliato in questo campo l’immagine della mano grassa del professore sulla piccola mano bianca del ragazzo in Zéro de conduite o degli abbracci di Dita Parlo e Jean Dasté quando stanno facendo l’amore o, meglio ancora, quando si sono lasciati e un montaggio parallelo ce li mostra che si rigirano, ciascuno nel proprio letto, lui nel suo barcone, lei nella stanza d’albergo, tutti e due in preda al male d’amore, in una scena in cui la prodigiosa partitura di Maurice Jaubert gioca un ruolo di prima importanza, sequenza carnale e lirica che costituisce esattamente un accoppiamento a distanza.
Esteta e realista, Vigo è un regista che ha evitato tutte le pecche dell’estetismo e del realismo. Ha manipolato un materiale esplosivo, per esempio Dita Parlo in abito da sposa sul barcone in mezzo alla nebbia o, in senso contrario, l’esibizione della biancheria sporca accumulata nell’armadio di Jean Dasté e ogni volta se l’è cavata grazie alla sua delicatezza, raffinatezza, humour, eleganza, intelligenza, intuizione e sensibilità.
Qual era il segreto di Jean Vigo? È probabile che vivesse più intensamente della media della gente. Il lavoro del cinema è ingrato per il suo frazionamento. Si riprendono da cinque a quindici secondi di film poi si sta fermi per un’ora. Non si trova sul set l’occasione di eccitamento che prende uno scrittore come Henry Miller davanti al suo tavolo di lavoro. Alla ventesima pagina una specie di febbre lo prende, lo trascina e questo è formidabile, sublime forse. Sembra che Vigo lavorasse continuamente in questo stato di trance e senza perdere nulla della sua lucidità. Si sa che era già malato mentre girava i suoi due film e anche che ha girato certe sequenze di Zéro de conduite steso su un letto da campo. È naturale quindi che prevalga quest’idea dello stato febbrile in cui si trovava girando. È assolutamente possibile e plausibile. È esatto che si possa essere effettivamente più brillanti, più forti, più intensi quando si è febbricitanti. A un suo amico che lo consigliava di non stancarsi, di risparmiarsi, Vigo rispose che sentiva che il tempo non gli sarebbe bastato e che doveva dare tutto e subito. Per questo sembra plausibile che Vigo, sapendosi condannato, sia stato stimolato da questa scadenza, da questo tempo contato. Dietro la cinepresa, doveva trovarsi nello stato d’animo di cui parla Ingmar Bergman: “Bisogna girare ogni film come se fosse l’ultimo”.
1970
Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975