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La colonna sonora de La zona d’interesse è di un livello altissimo. Tapparsi le orecchie non è un’opzione possibile

È il suono del genocidio programmato. La ricerca sonora di Johnnie Burn e lo score vertiginoso di Mica Levi ci tengono in tensione, incollati alla seduta e ci fanno chiedere come sia (stato) possibile accettare questo orrore. Dal 22 febbraio al cinema.
di Raffaella Giancristofaro

martedì 6 febbraio 2024 - Focus

Autore di solo quattro lungometraggi in circa venticinque anni, Jonathan Glazer non è un filmmaker che lavora con superficialità. Il regista ha chiarito più volte che nel concepire La zona d'interesse insieme al supervisore al sound design Johnnie Burn, ha pensato a due processi distinti: realizzare il film che si vede e quello che si sente. Premessa necessaria per un discorso sul dato sonoro dell’opera: deciso in fase di ideazione per imprimerle una direzione narrativa precisa, implacabile. Il suo ruolo arriva subito, sui titoli di testa, muti come in Under the Skin e accompagnati da una ouverture che poi rallenta su uno schermo nero e a lungo silente. Finché non arriva, a spezzare il silenzio, un canto d’uccelli, proveniente da una scena di gita familiare nel verde.

Il “film che si vede” è la vita quotidiana della famiglia di Rudolf Höss (Christian Friedel), sovrintendente del campo di concentramento di Auschwitz, marito di Hedwig (Sandra Hüller) e padre di cinque figli. Li osserviamo mentre si muovono dentro e fuori la loro casa, una grande abitazione circondata da un giardino meticolosamente curato.

Il “film che si sente” non è una colonna sonora che irrompe in momenti topici con la classica partitura musicale – di quelle coinvolgenti ed emozionanti alla Schindler’s List (guarda la video recensione), per intenderci – ma è principalmente tutto quello che sentono con le loro orecchie gli Höss e i loro ospiti. Un rumore di fondo costante, uno sciame di perturbazioni sonore che arriva da oltre il muro di cinta e filo spinato: quello che separa il giardino di casa Höss dal konzentrationlager.


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In foto, da sinistra, il sound designer Johnnie Burn insieme a Tarn Willers durante la premiazione agli EFA 2023, dove hanno vinto il premio per il Miglior Suono (per La zona d'interesse). 

Come Glazer sceglie realisticamente che il film parli tedesco (lingua madre dei due co-protagonisti), così la dimensione sonora di La zona d'interesse non è abbellimento ma anzi lavora sempre contro l’idea di caricare d’enfasi o emozione il racconto. È parte integrante e architrave della rappresentazione, portatore di un sottile, crescente disagio. È complementare alle immagini ma le contraddice di continuo. Se l’immagine di Lukasz Zal (Ida, Cold War) è iperdefinita e splendente, il white noise, il rumore bianco che le sta accanto è fastidioso, cupo, sordo. Uno stillicidio persistente, un mugghio, un basso continuo e sottile di latrati, urla, minacce, spari, lamenti, combustioni. 

È il suono del genocidio programmato che (noi spettatori sappiamo) è storicamente avvenuto, in quello e in altri campi. Un fuori campo sonoro ostinato, che atterrisce, chiama in causa e tiene lo spettatore in tensione e incollato alla seduta. Quasi l’analogo auditivo della scelta di tenere l’inquadratura fuori fuoco in Il figlio di Saul di László Nemes.

Per trovarlo, c’è voluto tempo: quello di un film la cui lavorazione è durata circa dieci anni, due solo di postproduzione. Sound designer anche di Under the Skin e Birth - Io sono Sean, come pure dell’esplosivo Nope di Jordan Peel, e collaboratore di Yorgos Lanthimos, Johnnie Burn (la squadra di sound department di La zona d'interesse conta, con lui, 19 persone) ha ricercato, studiato e riprodotto i possibili suoni del 1943 e li ha raccolti in un repertorio: colpi d’armi da fuoco, fragore dei forni inceneritori, articolazioni di voci, passi, rumori industriali. Un paesaggio sonoro di morte scientificamente pianificata.
 


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In foto una scena del film. Ci sono voluti 10 anni di riflessioni e ricerche per realizzare questo film. Nel cast incontriamo anche una delle attrici europee più richieste del momento: Sandra Hüller.

Chi guarda si chiede come sia (stato) possibile accettare e tollerare una contiguità tale con l’orrore, senza restarne disgustati, allontanarsene, ribellarsi. È esattamente questo lo scatto che La zona d'interesse provoca e cerca nel pubblico. Se “il film che si vede” restituisce una coppia borghese (una nazione) che nell’indifferenza generale ha realizzato il suo sogno di affermazione eliminando un popolo e appropriandosi dei suoi beni, il “film che si sente” ne evoca con insistenza l’indicibile, osceno sacrificio umano. Ciò che vediamo è il paradiso degli uni, un Eden in sedicesimo di fiori, piante, acqua e ogni bene materiale possibile. Ciò che sentiamo, l’inferno non rappresentabile degli altri.

In parallelo alla ricerca di Burn, procedeva quella musicale di Mica Levi, tornata a collaborare con Glazer dopo Under the Skin (e i corti The Fall e Strasbourg 1518): un debutto nel cinema che le è valso il premio EFA come miglior compositrice europea, una nomination all’Oscar a 30 anni, e l’attenzione di Pablo Larraín, per cui ha composto il perturbante score di Jackie. Cresciuta ammirando lo sperimentalismo elettronico estremo del musicista Matthew Herbert, Levi lavora sulla distorsione, deformazione e ripetizione dei suoni naturali, partendo dalle voci umane, scelta in questo caso più che pertinente. “Per tutto il film la musica ti porta in un posto al di sotto o oltre quello che stai vedendo, quasi un luogo di nessuno, al di là della comprensione logica”, ha dichiarato Levi. Premiato a Cannes 2023, il suo score paralizzante e vertiginoso, che evoca con tessiture di lamenti corali l’idea stessa del Male, in accordo con la ricerca mastodontica di Burn, ha riportato la colonna audio a un livello altissimo di espressività narrativa. Che sia di fronte ai genocidi della Storia o del presente, tapparsi le orecchie non è un’opzione possibile


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