È il suono del genocidio programmato. La ricerca sonora di Johnnie Burn e lo score vertiginoso di Mica Levi ci tengono in tensione, incollati alla seduta e ci fanno chiedere come sia (stato) possibile accettare questo orrore. Dal 22 febbraio al cinema.
di Raffaella Giancristofaro
Autore di solo quattro lungometraggi in circa venticinque anni, Jonathan Glazer non è un filmmaker che lavora con superficialità. Il regista ha chiarito più volte che nel concepire La zona d'interesse insieme al supervisore al sound design Johnnie Burn, ha pensato a due processi distinti: realizzare il film che si vede e quello che si sente. Premessa necessaria per un discorso sul dato sonoro dell’opera: deciso in fase di ideazione per imprimerle una direzione narrativa precisa, implacabile. Il suo ruolo arriva subito, sui titoli di testa, muti come in Under the Skin e accompagnati da una ouverture che poi rallenta su uno schermo nero e a lungo silente. Finché non arriva, a spezzare il silenzio, un canto d’uccelli, proveniente da una scena di gita familiare nel verde.
Il “film che si vede” è la vita quotidiana della famiglia di Rudolf Höss (Christian Friedel), sovrintendente del campo di concentramento di Auschwitz, marito di Hedwig (Sandra Hüller) e padre di cinque figli. Li osserviamo mentre si muovono dentro e fuori la loro casa, una grande abitazione circondata da un giardino meticolosamente curato.
Il “film che si sente” non è una colonna sonora che irrompe in momenti topici con la classica partitura musicale – di quelle coinvolgenti ed emozionanti alla Schindler’s List (guarda la video recensione), per intenderci – ma è principalmente tutto quello che sentono con le loro orecchie gli Höss e i loro ospiti. Un rumore di fondo costante, uno sciame di perturbazioni sonore che arriva da oltre il muro di cinta e filo spinato: quello che separa il giardino di casa Höss dal konzentrationlager.
Come Glazer sceglie realisticamente che il film parli tedesco (lingua madre dei due co-protagonisti), così la dimensione sonora di La zona d'interesse non è abbellimento ma anzi lavora sempre contro l’idea di caricare d’enfasi o emozione il racconto. È parte integrante e architrave della rappresentazione, portatore di un sottile, crescente disagio. È complementare alle immagini ma le contraddice di continuo. Se l’immagine di Lukasz Zal (Ida, Cold War) è iperdefinita e splendente, il white noise, il rumore bianco che le sta accanto è fastidioso, cupo, sordo. Uno stillicidio persistente, un mugghio, un basso continuo e sottile di latrati, urla, minacce, spari, lamenti, combustioni.
È il suono del genocidio programmato che (noi spettatori sappiamo) è storicamente avvenuto, in quello e in altri campi. Un fuori campo sonoro ostinato, che atterrisce, chiama in causa e tiene lo spettatore in tensione e incollato alla seduta. Quasi l’analogo auditivo della scelta di tenere l’inquadratura fuori fuoco in Il figlio di Saul di László Nemes.
Per trovarlo, c’è voluto tempo: quello di un film la cui lavorazione è durata circa dieci anni, due solo di postproduzione. Sound designer anche di Under the Skin e Birth - Io sono Sean, come pure dell’esplosivo Nope di Jordan Peel, e collaboratore di Yorgos Lanthimos, Johnnie Burn (la squadra di sound department di La zona d'interesse conta, con lui, 19 persone) ha ricercato, studiato e riprodotto i possibili suoni del 1943 e li ha raccolti in un repertorio: colpi d’armi da fuoco, fragore dei forni inceneritori, articolazioni di voci, passi, rumori industriali. Un paesaggio sonoro di morte scientificamente pianificata.
Chi guarda si chiede come sia (stato) possibile accettare e tollerare una contiguità tale con l’orrore, senza restarne disgustati, allontanarsene, ribellarsi. È esattamente questo lo scatto che La zona d'interesse provoca e cerca nel pubblico. Se “il film che si vede” restituisce una coppia borghese (una nazione) che nell’indifferenza generale ha realizzato il suo sogno di affermazione eliminando un popolo e appropriandosi dei suoi beni, il “film che si sente” ne evoca con insistenza l’indicibile, osceno sacrificio umano. Ciò che vediamo è il paradiso degli uni, un Eden in sedicesimo di fiori, piante, acqua e ogni bene materiale possibile. Ciò che sentiamo, l’inferno non rappresentabile degli altri.
In parallelo alla ricerca di Burn, procedeva quella musicale di Mica Levi, tornata a collaborare con Glazer dopo Under the Skin (e i corti The Fall e Strasbourg 1518): un debutto nel cinema che le è valso il premio EFA come miglior compositrice europea, una nomination all’Oscar a 30 anni, e l’attenzione di Pablo Larraín, per cui ha composto il perturbante score di Jackie. Cresciuta ammirando lo sperimentalismo elettronico estremo del musicista Matthew Herbert, Levi lavora sulla distorsione, deformazione e ripetizione dei suoni naturali, partendo dalle voci umane, scelta in questo caso più che pertinente. “Per tutto il film la musica ti porta in un posto al di sotto o oltre quello che stai vedendo, quasi un luogo di nessuno, al di là della comprensione logica”, ha dichiarato Levi. Premiato a Cannes 2023, il suo score paralizzante e vertiginoso, che evoca con tessiture di lamenti corali l’idea stessa del Male, in accordo con la ricerca mastodontica di Burn, ha riportato la colonna audio a un livello altissimo di espressività narrativa. Che sia di fronte ai genocidi della Storia o del presente, tapparsi le orecchie non è un’opzione possibile.