Titolo originale | Ergej irekhgüi namar |
Titolo internazionale | Harvest Moon |
Anno | 2022 |
Genere | Drammatico, |
Produzione | Mongolia |
Durata | 90 minuti |
Al cinema | 25 sale cinematografiche |
Regia di | Amarsaikhan Baljinnyam |
Attori | Amarsaikhan Baljinnyam, Tenuun-Erdene Garamkhand, Damdin Sovd, Davaasamba Sharaw Tserendarizav Dashnyam, Delgersaikhan Danaa, Adiya Rentsenkhorloo, Batbayar Dashnanzad, Sarantuya Dashnanzad, Minjin Ulambat, Ariunbat Otgonbayar. |
Uscita | giovedì 21 settembre 2023 |
Tag | Da vedere 2022 |
Distribuzione | Officine Ubu |
Rating | Consigli per la visione di bambini e ragazzi: |
MYmonetro | 3,55 su 7 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento martedì 19 settembre 2023
Una storia sull'infanzia e la genitorialità, ambientata tra gli incantevoli paesaggi della Mongolia. In Italia al Box Office L'ultima luna di settembre ha incassato nelle prime 7 settimane di programmazione 39,8 mila euro e 318 euro nel primo weekend.
CONSIGLIATO SÌ
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Tulgaa è da tempo andato a vivere in città lasciando il villaggio nella campagna della Mongolia. Una telefonata lo avverte che il patrigno sta per morire e lui lo raggiunge. Dopo il decesso mantiene la promessa fattagli di portare a termine il lavoro di fienagione. Nei campi lo raggiungerà Tuntuulei, un ragazzino decenne che vive con i nonni. I due, poco a poco, impareranno a conoscersi.
Amarsaikhan Baljinnyam, alla sua opera prima, offre l'occasione di conoscere nel profondo un mondo che raramente compare sui nostri schermi.
Lo fa a partire da un romanzo di T. Bum-Erden scrivendo la sceneggiatura, dirigendo e interpretando il ruolo di Tulgaa avendo alle spalle una consolidata carriera di attore. Ha fatto così totalmente propria questa storia che chiede allo spettatore una disponibilità che poi sa ricompensare. Domanda cioè a chi guarda di dimenticare i ritmi e i tempi della narrazione cinematografica occidentale per lasciarsi immergere in un'area antropogeografica in cui la dimensione temporale assume modalità profondamente diverse.
È in fondo ciò che deve fare il protagonista nel momento in cui lascia la città (scopriremo verso la fine del film qual è la sua professione) per ritrovare nella yurta in cui è cresciuto (e nello spazio sconfinato in cui è immersa) un modo di vivere (e di morire) che forse aveva pensato di potersi lasciare per sempre alle spalle. È un luogo in cui bisogna stare in piedi su un cavallo in cima a una collina per poter sperare di avere abbastanza campo per fare una telefonata così come le abitazioni sono davvero distanti le une dalle altre. Questo lascia ampi margini di solitudine che è poi la dimensione in cui Tulga si immerge per portare a termine il lavoro iniziato dal patrigno.
Si tratta però di una solitudine di breve durata perché di lì a poco l'arrivo di Tuntuulei cambierà profondamente non solo i ritmi della sua giornata ma anche il suo modo di guardare agli altri. Il ragazzino nasconde, dietro alla vivacità e anche a quel tanto di sfrontatezza che esibisce, una serie di sofferenze che cerca di esorcizzare raccontando, in primis a se stesso, una realtà immaginaria. Baljinnyam, grazie a questi due personaggi, riesce a mostrare la propria terra e le sue radici culturali ma anche a riflettere sul tema della genitorialità.
Non è un caso che il film si apra con Tulgaa che riceve un messaggio vocale dalla donna che ama che gli rivela di avergli sino ad allora nascosto il fatto di avere un figlio. Lui a sua volta deve accorrere al capezzale di chi lo ha allevato senza essergli padre per poi sviluppare un rapporto che si apparenta alla genitorialità con Tuntuulei che ha i nonni come solo modello di riferimento adulto.
In un film che non si avvale di musiche che non siano diegetiche (cioè all'interno dell'azione) la partecipazione emotiva viene creata dagli sguardi, dai piccoli gesti, dalla disponibilità reciproca (ad esempio: ìl ragazzino che porta l'acqua a Tulgaa mentre lavora e lui che lo accompagnerà alla festa in cui i bambini lottano). Il titolo, anche nella versione italiana, è più che mai indicativo perché quell'ultima luna di settembre segna la fine dell'attività di fienagione e lo spettatore è portato a chiedersi che cosa ne sarà del rapporto sempre più strettamente affettivo tra i due. La risposta che Baljinnyam ci dà non è di tipo consolatorio perché vuole lasciarci uno spazio di lettura libera. Cosa accadrà dopo lo decideremo noi.
Un film che sa parlare a tutti con una delicatezza rara. Una storia commovente ambientata in una terra incantevole. Assolutamente da non perdere.
Una bella storia, commovente senza essere sdolcinata, recitata magnificamente dai due protagonisti (straordinario il ragazzino), ambientata in paesaggi indimenticabili.
Ma davvero è possibile appassionarsi ad un film girato in Mongolia, in mezzo a pianure interminabili, e senza neanche una battaglia, uno scontro epico, senza neppure Gengis Khan, ma solo alcuni personaggi di poche parole, quasi tutti con la faccia di Jack Palance cotta dal sole, e tanta tanta erba, cavalli, pecore, tende, silenzi?
Sì , è possibile. Anzi: ne L’ultima luna di settembre, portato in Italia da Officine Ubu, ti sembra di ritrovare il respiro dei grandi western, ti sembra di vedere l’unico western possibile al giorno d’oggi. E ti sembra di cogliere, di nuovo, i sentimenti del Monello di Chaplin, esattamente cento anni dopo. O di Ladri di biciclette (guarda la video recensione). Qualcosa di forte, raccontato con attenzione, con delicatezza. Ma anche con quella forza assoluta, quella innocenza che il cinema occidentale ha perduto da tempo.
Già la prima inquadratura è memorabile, impensabile: un uomo, in piedi su un cavallo, che cerca di tener su un palo. Su un carretto, sotto, un uomo anziano, sdraiato. Che cosa stanno facendo? Perché? Issato su quel palo c’è un vecchio telefono cellulare. L’uomo in piedi sul cavallo sta cercando di alzare il telefono fino all’unico punto, in quell’immenso spazio, in cui riesce a trovare campo. La telefonata alla fine arriva. Raggiunge un uomo che vive in città: forse Ulan Bator, forse altrove. Una voce gli urla di venire subito: un uomo sta morendo. L’uomo che ha fatto da padre alla persona che vive in città.
È la storia di un ritorno, un ritorno alle radici: un po’ come il ritorno di John Wayne in Un uomo tranquillo. Ma per il protagonista che torna a casa, nel suo villaggio natale, non ci sono ragazze irlandesi dal carattere forte. C’è un ragazzino, faccia da scugnizzo orientale, pochi anni e tanta grinta. Un ragazzino che si atteggia a duro, ma a malapena riesce a montare su un cavallo. Un ragazzino che ha imparato a fare la lotta, ma non a leggere e a scrivere.
Ci vuole tutto il tempo necessario, affinché fra l’uomo robusto, taciturno, dalle spalle larghe e il ragazzino vivace, orgoglioso, impertinente si sviluppi un rapporto di confidenza, di lealtà, di affetto. Sono due orfani, l’uomo e il ragazzino di dieci anni. Tutti e due hanno imparato a cavarsela: ma solo uno dei due sa inghiottire grandi sorsate di solitudine senza un lamento, senza una parola.
Per chi ha fame di dati, siamo nella provincia dell’Hentij, una delle più desertiche della Mongolia. Nel film, tratto dal romanzo breve “Tuntuulei” di T. Bum-Erden, il protagonista adulto è interpretato dallo stesso regista, Amarsaikhan Baljinnyam. Il quale è un regista al suo esordio, sì, ma come attore è ampiamente conosciuto: è una star del cinema d’azione mongolo, ha vinto nel 2012 il premio come miglior attore ai Mongolian Academy Awards, e fra il 2014 e il 2016 ha preso parte alla serie originale Netflix Marco Polo. Il bambino, che nel film si chiama Tuntuulei, ha dieci anni e si chiama Tenuun-Erdene Garamkhand.
È una storia d’affetto, una storia di rapporti umani che crescono, e che non vengono raccontati o definiti dalle parole, ma vengono sillabati dai gesti, dai silenzi, dalla semplice vicinanza. È la storia di due persone sole, in una Mongolia rurale che assomiglia a una riserva di nativi americani: anziani pieni di rughe, e adulti preda dell’alcool. Mentre il nuovo avanza, nella forma di un macchinario agricolo.
Mentre si alternano campi lunghissimi, orizzonti che tagliano il due il fotogramma, e primi piani attenti ma non invadenti – difficile spiegarlo: viene quasi da parlare di “rispetto” verso gli attori – non c’è niente che ci prenda per mano. Neanche la musica fuori campo: solo il suono di un’armonica, suonata dal protagonista, Tulgaa, e comprata a caro prezzo dall’uomo che gli ha fatto da padre: “L’ho scambiata con due pecore”.
È un film scarno, eppure complesso, per tutto quello che ci fa percepire, nell’universo del non detto. Un film che rasenta il documentario, mentre racconta un mondo rurale che sembra scolpito nei secoli, ma probabilmente è prossimo alla fine. Ma anche un film capace di scavare nell’anima dei suoi personaggi, di quelle due vite sull’orlo di diventare un nucleo familiare. Ci dice, se mai un film lo ha detto, che cosa sia voler bene, che cosa sia aggrapparsi a qualcuno, per non sentirsi soli nell’universo. Che poi l’universo abbia le sembianze di una pianura infinita che si chiama taiga, è solo un caso.
Uno dei più popolari attori mongoli debutta alla regia e interpreta Tulga, un mite chef di Ulan Bator, che si trova di fronte a un dilemma. Tulga è costretto a tornare nelle campagne dov'è cresciuto per occuparsi dei terreni della sua famiglia. Lì incontra un vivace bambino di dieci anni di cui si prendono cura i nonni, in cui Tulga si riconosce molto.
Quando l'anziano padre si ammala gravemente, Tulgaa, che da anni vive in città, torna al villaggio natale sulle remote colline della Mongolia per assisterlo, e dopo la sua morte decide di restare a vivere nella iurta del genitore per portare a termine il raccolto che l'uomo avrebbe dovuto completare prima dell'ultima luna piena di settembre. Ed è nei campi che l'uomo incontra un bambino di dieci anni, [...] Vai alla recensione »
Anche la remota Mongolia ha un'anima poetica ma caro costerà apprezzarla perché la storia di Tuntuulei e Tulgaa - un bambino e un uomo - che si incontrano per caso al capezzale del padre morente dell'adulto - è davvero impegnativa. Bel- lo, anzi bellissimo, lo studio del rapporto tra i due che si integrano e si completano a vicenda con l'uomo che offre al bimbo quello che non ha avuto da piccolo ma [...] Vai alla recensione »
Sul punto più in alto di un villaggio situato nella provincia del Hentij in Mongolia, un uomo compie uno strano gioco di equilibrio. È in piedi su un cavallo e ha una lunga asta in mano. Sulla punta estrema, verso il cielo, è attaccato un telefono che squilla a vuoto. È l'unico modo per comunicare con chi si è trasferito in città o, comunque, con chi è lontano da quel luogo, posto ai cosiddetti margini [...] Vai alla recensione »
Le distese di grano di Mongolia, le yurta come anelli nel deserto, una torretta per il cellulare che non prende, tipi strambi ubriachi, gente lontana, tutto sottratto per fortuna al pittoresco, ma sono i precisi passaggi dell'amicizia tra Tulga, tornato dalla città, e il piccolo Tuntulei, orfano che fa il duro in solitudine, a lasciarci un tenero dolorino di verità nel modello melò della genitorialità [...] Vai alla recensione »
La striscia gialla della prateria sfuma nel cielo bianco, i campi del "raccolto della luna" (Harvest Moon è il titolo internazionale) si estendono oltre l'orizzonte, ma il campo più ricercato è quello telefonico, non c'è segnale in Mongolia fuori dai centri urbani. L'impalcatura sbilenca di legno costruita per captare le voci amiche fa da metafora alla poetica dell'attore mongolo Amarsaikhan Baljinnyam, [...] Vai alla recensione »