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La timidezza delle chiome, un tosto coming-of-age da cui emerge tutta la genuinità dei suoi protagonisti

La macchina da presa di Valentina Bertani segue per cinque anni Joshua e Benjamin Israel, gemelli omozigoti con una disabilità intellettiva, con le loro ansie di ventenni, con il loro smisurato bisogno di amore e di sesso. Al cinema.
di Giovanni Bogani

Benjamin Israel . Nel film di Valentina Bertani La timidezza delle chiome.
sabato 12 novembre 2022 - Focus

Presentato alle Giornate degli Autori a Venezia, in Notti veneziane, La timidezza delle chiome non è un oggetto filmico facile da maneggiare. C’è la presenza costante, debordante, di quei due gemelli così smisuratamente oltre ogni metro di giudizio. Joshua e Benjamin Israel, gemelli omozigoti, con i loro capelli rossi in perenne esplosione, con le loro ansie di ventenni, il loro smisurato bisogno di amore e di sesso. La loro disabilità intellettiva.

Due adolescenti, con le ansie, la rabbia di ogni adolescente, la sensazione che tutto si stia giocando adesso. E un aspetto che non rende loro le cose più facili. I loro accessi di rabbia. Il modo scomposto, da parte di uno dei due, di cercare l’amore, o almeno il sesso, digitando su Google “Escort Milano”. Finendo con l’invitare una escort in casa, dove stanno tranquillamente dormendo i genitori e il fratello. Con il padre che si vede recapitare in casa da Amazon un fallo di gomma, comprato con la sua carta di credito. E deve, pazientemente, con tutta la razionalità di cui è capace, cercare di spiegare a Joshua come si usa un preservativo.

Ma forse, è ancora più difficile per Benji, che cerca l’utopia di un amore, di un rapporto fatto di delicatezza, di gesti teneri con una ragazza bella, intelligente, ma anche lei in qualche modo ferita, in qualche modo “diversa”.

Piccola avvertenza: il libro “La timidezza delle chiome” di Pietro Maroè, pubblicato da Rizzoli, che curiosamente porta un titolo identico e ha un protagonista ventenne, non c’entra niente.

La regista Valentina Bertani, trentottenne, mantovana, già regista di spot pubblicitari per brand importanti della moda e dello sport, autrice di videoclip per vari gruppi musicali, dai Negramaro a Dolcenera, e di un documentario su Luciano Ligabue, ha scritto il film insieme con tre co-sceneggiatori: Emanuele Milasi, Irene Pollini Giolai, Alessia Rotondo. Non siamo quindi totalmente dalle parti del documentario: ma certo, la realtà, la fisicità dei due fratelli è essenziale, ed è prepotente nel film.


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In foto una scena del film La timidezza delle chiome.

Il film è anche, se non del tutto, un documentario su questi due fratelli: anche se costruito in un racconto, reso più lirico da una fotografia che va addosso alle loro facce, mentre il racconto filmico si concede divagazioni improvvise, oniriche, squarci di immaginario differente, lampi, galassie di luci che esplodono, frammenti di home movies sgranati e decolorati.

Gli sceneggiatori hanno seguito per cinque anni i due gemelli: si comprende meglio la loro assoluta naturalezza davanti alla telecamera, come se non importasse loro niente di essere ripresi. Non hanno paura di essere “tracciati” nella loro difficoltà, nella loro impotenza, nella difficoltà del contatto con l’altro sesso. L’adolescenza è una montagna da scalare per tutti: lo è ancora di più per loro.

Nell’ultima parte del film, le chiome enormi dei due fratelli si fanno più corte. Entriamo in un campo di addestramento militare israeliano. Forse è quella la loro strada, a imparare la guerra con una disciplina assoluta, e una ragazza in uniforme e mitra come diretto superiore? Probabilmente i due ragazzi non lo hanno visto, ma noi abbiamo visto Hair di Milos Forman, e conosciamo la differenza fra un mondo sgangherato e pieno di errori, ma comunque libero; e la disciplina degli ordini, dei piegamenti per punizione dopo essersi presentati in ritardo all’adunata. E sappiamo che non è lì la salvezza: al contrario. Se ne renderà conto anche uno dei due fratelli, che non reggerà quella disciplina, quell’autoritarismo, quel deserto.


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In foto una scena del film La timidezza delle chiome.

Che cosa colpisce del film? La sensazione di estrema verità, di estrema naturalezza: come se guardassimo uno spaccato familiare difficile senza essere visti, come se fossimo nella stanza di Joshua e Benji senza che loro se ne siano accorti. E colpisce il fatto che tu, spettatore, senti la forza, l’ostinazione, la caparbietà dei due fratelli, esclusi dal mondo ma non arresi, con la voglia di vivere la loro età, di trovare il loro posto nel mondo.

E senti, da parte della regista, il coraggio di camminare su e giù lungo il confine fra la realtà e la finzione, passarlo avanti e indietro quasi ogni minuto, cercando un cinema che annulli quasi la distinzione. Un po’ come aveva fatto Richard Linklater nei dodici anni in cui segue Ellar Coltrane in quel film epocale che è Boyhood.

Valentina Bertani segue Benji e Joshua mentre il mondo è bloccato in casa per il lockdown, e poi li segue nel loro personale lockdown, mentre gli amici vanno verso università, città, vite differenti. Per loro, trovare una identità e una indipendenza non è uno scherzo. Un “coming of age” molto tosto, volendo sintetizzare.


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