L'attrice si butta in un magnifico corpo a corpo con Marilyn Monroe riproducendone molto bene la vulnerabilità. Rivedibile invece la scelta di impostare il racconto sulla dicotomia fra personaggio pubblico e persona. Presentato in Concorso a Venezia 79 e dal 28 settembre su Netflix.
di Paola Casella
Chi era Marilyn Monroe? Quanto di Norma Jeane Baker, nome di battesimo della bambina destinata a diventare una diva planetaria, è sopravvissuto alla macchina dei sogni, oltre che ad una serie di terribili traumi personali? È la domanda che si pone Andrew Dominik, regista e sceneggiatore di Blonde, che è basato sul romanzo omonimo di Joyce Carol Oates, sempre definito dalla sua autrice come fiction invece che biografia.
Al centro c’è la dicotomia fra personaggio pubblico e persona, vero e proprio sdoppiamento identitario creato per nascondere a se stessa il proprio passato travagliato e agli altri, soprattutto Holllywood, ciò che volevano: l’immagine di una femmina ideale, morbida come la gelatina, arrendevole come un’amante innamorata, costantemente sorridente, irresistibilmente sensuale.
Questo purtroppo è anche il problema di Blonde: l’idea di incentrare la narrazione sul tema del doppio si trasforma in una sorta di partito preso, reiterando simbologie e sottolineature.
Ciò che invece giova molto a Blonde è l’interpretazione impavida e generosa di Ana de Armas, che si butta in un magnifico corpo a corpo con Marilyn riproducendone molto bene la vulnerabilità (anche se la voce canora manca di quel vibrato che tradiva la fragilità di Norma Jeane).