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Un cinema profumato

Come guardare Grand Budapest Hotel?
di Roy Menarini

In foto una scena di Grand Budapest Hotel di Wes Anderson.
Ralph Fiennes (Ralph Nathaniel Twisleton-Wykeham Fiennes) (61 anni) 22 dicembre 1962, Ipswich (Gran Bretagna) - Capricorno. Interpreta Il signor Gustave nel film di Wes Anderson Grand Budapest Hotel.

domenica 13 aprile 2014 - Approfondimenti

Il talento innegabile di Wes Anderson, giunto ormai a quel punto di consapevolezza e maestria che ci fa parlare di "fase matura" di un artista, ha da sempre generato una sacca di resistenza. Essa, visibile anche sui profili Facebook di alcuni critici militanti in questi giorni, individua in Wes Anderson un pubblicitario più che un regista, e - citando una battuta circolata proprio sui social network - un "magnifico arredatore di interni" più che un autore nel pieno senso del termine. Di contro studiosi, e persino superstar dell'accademia americana come David Bordwell, proprio a Grand Budapest Hotel hanno dedicato di recente saggi corposi, con tanto di analisi dei formati e delle inquadrature, comparazioni con scene del cinema classico e attente disamine del rapporto (autorizzato dallo stesso Anderson) tra questo film e le pellicole di Lubitsch dei primi anni Trenta.
Tra i fan (la maggioranza) e i detrattori (la minoranza), chi ha ragione? Grand Budapest Hotel sembra fatto apposta per acuire le tensioni. Formalmente esasperato, cromaticamente accesissimo, stilisticamente denso e postmoderno, appare svagato, scherzoso e fortemente ironico nei confronti della materia narrativa. La farsa avventurosa è raccontata per generare spasso erudito, sia pure temperato da una diffusa malinconia, e difficilmente un film come questo potrà cambiare le carte in tavola, come invece aveva fatto Moonrise Kingdom (a tutt'oggi la vetta del cinema di Anderson, attraversato da una vena straziante e da una rilettura storica degli anni Sessanta di grande intelligenza). La maggioranza, in ogni caso, ci sembra (consapevolmente o meno) aver tutte le ragioni di amare Wes Anderson: il cinema contemporaneo è ormai un catalogo, un archivio di opzioni stilistiche e narrative, la gestione eclettica e talentuosa di questo infinito patrimonio è un orizzonte del tutto legittimo esteticamente, e i rapporti di Anderson con la pubblicità, la moda (si veda il bel corto girato per Prada), il design e il mondo "hipster" e fashion californiano possono essere criticati solo partendo da posizioni militanti e ideologiche, nulla più.
Ma, visto che le minoranze ci piacciono e devono sempre essere ascoltate, fatta la tara allo snobismo anti-Anderson (non meno venefico di quello pro-Anderson, anzi), bisogna pur ammettere che in alcuni casi questo regista ce la mette tutta per far venire i nervi. Laddove gli accenti più sofferti e le malinconie più surreali accendono opere ormai classiche come Rushmore, Le avventure acquatiche di Steve Zissou o appunto Moonrise Kingdom, invece in Il treno per il Darjeeling o Grand Budapest Hotel sembra prevalere un compiacimento smaccato, un perfezionismo formale così accentuato e una fiducia così autoreferenziale verso (per esempio) la parata di attori in gara per il cameo di lusso, da suscitare più di un dubbio.
Detto questo, il personaggio-chiave ovviamente non è né il narratore né lo scrittore che incornicia la storia, bensì Gustave, uomo gentile e raffinato che non può vivere senza la sua acqua di colonia. Che lascia la scia negli ambienti in cui passa e non accetta di essere umiliato rinunciando ai modi del dandy. Sembra quasi di annusarlo, Grand Budapest Hotel. E sembra quasi di percepirlo, il cinema profumato di Wes Anderson. Questa volta con il rischio che evapori dopo un giorno o due.

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