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Conversazione con Tatti Sanguineti su Poetry

Il 1 aprile nelle sale italiane esce la deliziosa ultima opera di Lee Chang-dong.
di Emanuele Sacchi

In foto Yu Junghee in una scena del film.
Yu Junghee (Yoon Jeong-hee) 30 luglio 1944, Pusan (Corea del sud) - 19 Gennaio 2023, Parigi (Francia). Interpreta Mija nel film di Lee Chang-dong Poetry.

lunedì 28 marzo 2011 - Incontri

Questa primavera si apre nel nome della poesia. Il 1 aprile nelle sale italiane uscirà Poetry, deliziosa (e deliziosamente crudele) ultima opera di Lee Chang-dong, un regista che assomiglia sempre più a un'istituzione per la Corea del Sud. Oscurata la stella dei portabandiera da esportazione Kim Ki-duk e Park Chan-wook, tocca ai meno inflazionati Lee Chang-dong, Bong Joon-ho e (in parte) Im Sang-soo dare un senso alla peculiare e mai doma forma di autorialità coreana, quella di un cinema che non arretra di fronte a nulla nella ricerca del vero, nemmeno di fronte alla narrazione di azioni abiette e inconcepibili. Del piccolo miracolo di Poetry, placida isoletta (in)felice in contrasto con un cinema (un mondo?) che vuole tutto e subito, parliamo con il critico-istituzione Tatti Sanguineti, al solito illuminante nella sua indagine tra le pieghe di un'opera che si presta a molteplici chiavi di lettura. “Una vicenda – dice Tatti - che ha una costruzione romanzesca perfetta, come possono essere perfetti dei romanzi che sono opere aperte, come se un ideale montatore avesse dimenticato dei passaggi. È un film perfetto ma ha delle caselle vuote, che il regista ti lascia riempire”.

Lee Chang-dong è come se proiettasse il suo punto di vista e l'anima di Poetry sulla protagonista e sulle sue lacune di memoria. Il film è come se seguisse il suo ritmo, scegliendo di smarrirsi anziché di percorrere una linea retta e ovvia...
“Il racconto riproduce il processo psico-percettivo-sensitivo di questa donna affetta da una malattia terribilmente moderna, l'alzheimer, terribile già nel nome. Una malattia che è una specie di castigo divino nei confronti della velocità della vita contemporanea. Una malattia che è anche terribilmente cinematografica. Alla fine del film restano due sensazioni: in primis quella di aver assistito a un'opera unica, proveniente da una chiara e incancellabile genesi letteraria; si regge su un racconto, un intreccio formidabile, che la cinepresa non può realizzare da sola. Non c'è un mago della regia che si inventi riprese mirabolanti; ci sono la forza della scrittura e della poesia, prima di tutto. La seconda sensazione è che la cinematograficità dell'alzheimer probabilmente non era mai stata sfruttata così pienamente. L'unico film che mi viene in mente è Compagna di viaggio di Peter Del Monte, con Michel Piccoli e Asia Argento. Un film giocato sulle distanze, sugli smarrimenti, nello spirito di Antonioni. Qui in Poetry l'intreccio è qualcosa di meraviglioso”.

Probabilmente non si ricordano film sull'alzheimer, ma il cinema ha sfruttato abbondantemente le amnesie e le lacune della memoria come espediente narrativo, dall'Io ti salverò di ieri al Memento di oggi, per non citarne che un paio. Non trovi?
“Certamente. Ma il cinema è spesso concentrato su un buco nella memoria, qui si parla di buchi, non di uno solo; non ci si sofferma su un lapsus del cervello concentrato in una sequenza di rimozione, in una scena madre. Poetry è altra cosa, assai difficile da raccontare, in cui la trasmissione del fascino che questo film produce non passa attraverso l'evocabilità di un racconto. Poi c'è un'altra cosa che colpisce, il film tratta di uno di quei crimini giovanili di cui son tristemente piene le cronache, ma in modo molto lontano dall'intento scandalistico delle nostre parti. Questo ragazzo stravaccato davanti alla televisione, completamente atono e negativo, privo di rimorsi di qualunque tipo. Quest'adolescente che si nutre di schifezze, con quest'aria odiosa da facocero, che non assomiglia neanche un po' ai protagonisti dei delitti di casa nostra, così contaminati dall'intervento mediatico”.

Un personaggio tutt'altro che spettacolare, miserevolmente annegato nella propria mediocrità, ma molto indicativo... Parlando di Mija, la protagonista, è singolare che un personaggio che per definizione dimentica non riesca a dimenticare proprio quel fatto traumatico che forse vorrebbe rimuovere, tanto da dovervi porre in qualche modo rimedio. Forse è il fatto di non poterlo dimenticare che la induce a una scelta radicale come quella del finale?
“Su questo il film trova un equilibrio – replica Tatti - una sospensione, un margine fra il probabile e l'improbabile. Ci son delle sequenze che è come fossero tagliate dal film e dalla memoria della protagonista... Poetry invita lo spettatore alla concentrazione, all'intelligenza, alla pazienza; un film destinato a essere ripensato, discusso, a rimanere...”

E paradossalmente a rimanere impresso nella memoria, contrariamente a quanto avviene a Mija...
“Il paradosso, il contrasto risiede in questa dolcezza di paesaggio agreste autunnale che sovrasta tutto e che si mescola crudelmente con questi “buchi” che si aprono nella memoria... o con la vicenda di questo anziano e del suo ultimo desiderio d'amore, eccessiva, raccontata violando ogni tabù visivo. Una crudeltà quasi intollerabile, così tipica del miglior cinema coreano. Il fatto che Lee sia stato ministro della Cultura in Corea, d'altronde, è indice del coraggio di un popolo in grado di fare una cosa simile. Per noi sarebbe impensabile affidare a un artista un ruolo simile”.

Quello stesso popolo che, nel ritratto di Lee, ha portato a una società irrimediabilmente malata, che dona ormai un'importanza spropositata al denaro, al punto tale da poter comprare il silenzio della madre della vittima. Tutto ha un prezzo. In questo senso Mija e i suoi vuoti “poetici” rappresentano un corpo estraneo.
“Vero, ma tutta questa polemica sociale non è raccontata attraverso lo strumento del messaggio politico, bensì attraverso la poesia. Oggi il solo chiamare un film Poesia sembra un gesto anacronistico, quasi masochista”.

Abbiamo parlato di un'anomalia, di un unicum, di scene disturbanti e grande coraggio. Fatte queste premesse, come si troverà in sala dal 1 aprile Poetry? È lecito sperare in un successo per un film così peculiare e lontano dalla totalità delle pellicole che transitano nelle sale italiane?
“Poetry potrebbe essere un film che vive e prospera grazie al passaparola, all'antica condivisione di pareri capace di attirare anche spettatori imprevisti. Comunque penso che ci siano dei segnali tangibili di ribellione dello spettatore italiano, li si intravede nei recenti flop di alcune delle uscite più commerciali, candidate ai maggiori incassi. Piccoli segni di ribellione alla violenza e alla dittatura dell'esercizio e dei suoi rais. Rispetto a film fatti (e visti) altre novantanove volte, è bello scoprire un film che non era mai stato fatto prima come Poetry”.

Succede ancora il miracolo: capita di assistere a qualcosa di originale e spiazzante come Poetry, un invito alla riflessione e all'introspezione capace di accompagnare l'animo a lungo dopo la visione della sala cinematografica. Impossibile lasciarsi sfuggire l'occasione di un'esperienza simile.

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