Questa favola rischia l’Oscar; ma io farei «Trainspottin 2»
di Emilio Marrese Il Venerdì di Repubblica
Girato in India, il piccolo film The Millionaire è esploso negli Usa. Il regista inglese racconta la sua esperienza a Bollywood e svela un progetto. Provocatorio.
«Indimenticabile», scrive Usa Today. «Miracoloso», esagera íl Chicago Sun. Per il Time è «da non perdere». Secondo Rolling Stone si tratta di «uno dei migliori film dell'anno». II regista di Trainspotting, Danny Boyle, irrompe a sorpresa nella corsa all'Oscar con un piccolo film, The Millionaire, che negli Usa è già un caso e in Italia uscirà il 15 dicembre per Lucky Red. È la storia di un ragazzo delle bidonville di Mumbai che vince una fortuna partecipando a Chi vuol essere milionario?. Boyle alterna con grande effetto il , tragico al comico, la cometedia al dramma, il documentario alla visione onirica, Capra a Scorsese, Dickens al musical. Il risultato è una favola arcobaleno.
La frase chiave di Trainspotting era «scegli la vita». In The Millionaire, invece, è «il destino è scritto». E la domanda che viene posta agli spettatori è «credi nel fato?»: la sua risposta qual è?
«Prima di andare in India non conoscevo il concetto di destino, o perlomeno ne avevo uno semplicistico. Pensavo che fosse qualcosa che tiene legate le persone e in parte è vero, per quanto riguarda il sistema delle caste. Ma là ti rendi conto che il destino ha sfaccettature incredibili. Ho notato che i più fortunati sono sempre legati ai meno fortunati: non attraverso la carità, ma in modo più profondo. Inoltre sul set sono successe cose molto strane: il destino lavorava per noi».
Un'esperienza mistica?
«Ho amato tantissimo quest'avventura. Mio padre era stato in India durante la guer
ra e io avevo sempre voluto andarci. Immaginavo fosse un posto straordinario, ma le sfide che devi affrontare vanno oltre ogni immaginazione. Ho imparato a buttar via tutto quel che pensavo e a tuffarmi nella città, assorbendola. Ho provato a raccontare una storia usando proprio la città, il rumore e il brulichio perenne della sua gente. Bisognava fidarsi e rinunciare a esercitare qualsiasi controllo, sennò dopo una settimana ci saremmo gettati da un ponte».
Dopo l'esperienza infelice di The Beach con DiCaprio, s'è accorto di essere più adatto a Bollywood che ad Hollywood?
«Il contrasto è gigantesco. Per girare quel film avevo una troupe di un centinaio di persone, una specie di armata con cui invademmo quel pezzo di Thailandia. Anche se ho imparato molto da quel lavoro, non fu piacevole. A Mumbai avevo dieci elementi e una troupe locale molto esperta che ci ha facilitato».
Pensa ancora che per un Oscar bisogna fare solo film seri?
«Di solito è così. Il successo del mio film, nonostante sia tanto distante da un film americano, in effetti è assurdo, ma credo che piaccia perché ha un grande cuore e i personaggi sono pieni di passione. Forse funziona perché il protagonista è il classico underdog, il perdente, l'ultimo che però insegue il suo sogno. Non avevo pensato a quanto gli americani vogliano ancora sentirsi raccontare il sogno americano in modi diversi».
Lei frequenta generi sempre differenti: in questo film li ha mischiati tutti.
«Volevo tornare con qualcosa che avesse dentro tutti gli ingredienti di quel posto. Si stupiscono di come si passi dalla violenza più terribile sui bambini al balletto, ma è Mumbai che è così e vive di questi contrasti. Là gli estremi convivono e non si tende a separarli. Chi abita in un nuovo grattacielo non chiede che le baraccopoli attorno vengano abbattute. Quanto ai generi, mi piace partire sempre da zero perché credo che il miglior film di un regista sia sempre il primo: quando non si preoccupa di che genere sarà».
Una volta tanto la tv non viene raccontata con disprezzo.
«In India quello show è qualcosa di colossale, lo conoscono tutti. Lo guardavo da casa e devo ammettere che dà dipendenza. In qualche modo reality e quiz hanno democratizzato la tv: la gente non vuole più solo subirla, ma farla. Come il protagonista sfrutta lo show per arrivare alla sua amata, anche io l'ho sfruttato come regista perché aiutasse il film. Scorsese dice che bisogna saper far passare di contrabbando le proprie idee e io sono un sostenitore di questa tecnica: bisogna usare mezzi all'apparenza impropri per far arrivare il messaggio. Quello show è stato il mio cavallo di Troia».
Ora forse smetteranno di chiederle a quando il sequel di Trainspotting?
«In realtà l'ipotesi c'è. Lo vorrei farlo con gli stessi attori invecchiati di una generazione, il problema è che non lo sono ancora. Non mi va di fare Trainspotting 2 solo per soldi, vorrei qualcosa di diverso e provocatorio. Sarebbe ironico ritrovare quei personaggi, che si credevano eterni e invincibili, nella mezza età».
Da Il Venerdì di Repubblica, 27 Novembre 2008
di Emilio Marrese, 27 Novembre 2008