C'era una volta in America

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Spartiacque, vetta, punto di riferimento. Valutazione 5 stelle su cinque

di Maximilione


Feedback: 900 | altri commenti e recensioni di Maximilione
martedì 16 ottobre 2012

Duecentoventi minuti di scene girate in tre stati (USA, Italia e Francia), centinaia di comparse e ben dodici anni di riprese: la leggenda vuole che nel 1984 Robert De Niro fece coniare una serie di medagliette con su scritto "Complimenti, siete sopravvissuti alla lavorazione di C'era una volta in America!", che poi regalò a tutto il personale che aveva partecipato alla produzione della pellicola,

dal cast ai tecnici. Al tempo però il divo americano non poteva ancora riconoscere la straordinaria grandezza dell'opera e l'immensità di echi che essa avrebbe prodotto sulla successiva storia del cinema. In effetti, l'unico termine in grado di racchiudere tra i ticchettii di una tastiera la grandezza di "C'era una volta in America" è la sua ineffabilità. L'ultimo film di Sergio Leone rifugge da ogni giudizio di sorta, dalla soggettività di ogni interpretazione, per porsi al di sopra di una qualsiasi scala di valori estetici. Si tratta di un film-evento o di un film-vita, capace di ricatalogare su celluloide l'intera esperienza artistica ed esistenziale del grande maestro romano ("Questo film sono io. Non sarebbe stato lo stesso se l'avessi girato a quarant'anni perchè è un film sulla memoria, sulla solitudine, la morte e il tempo che passa"), in grado di esibire un immenso compendio alla cultura -cinematografica e non- dell'intero XX secolo e allo stesso tempo di fungere da indispensabile chiave di volta per la nascita di un "cinema postmoderno" che proprio oggi si esprime ai suoi livelli più alti. Una mistione di omaggio al passato e inevitabile propensione al futuro, dunque. Dialettica questa, che riecheggia e si amplifica a livello diegetico all'interno della stessa narrazione filmica. "C'era una volta in America" è, infatti, prima di tutto l'opera più matura di Sergio Leone e il perfetto epilogo di quella trilogia del tempo iniziata sedici anni prima con "C'era una volta il West". In essa, i tempi già dilatati di "Giù la testa" si sfaldano del tutto, si aggrovigliano in una matassa complessa come i meccanismi della memoria, si spostano e ritornano su sè stessi dimostrando come nulla è mai ciò che sembra. Più che riferirvisi indirettamente, "C'era una volta in America" incarna materialmente il tempo con la sua vertigine, il rimpianto dei momenti perduti. Lo fa nella sua stessa struttura narrativa: l'epopea gangster di Noodles, Max, Patsy e Cockeye si sviluppa in una cronologia impazzita e labirintica che fa esplodere ogni riferimento sicuro in un gioco di scatole cinesi in cui il presente sembra cessare di esistere. Le stesse indimenticabili sequenze, i dialoghi o più semplicemente gli oggetti di scena sottolineano la rilevanza dell'elemento tempo, quella del ricordo e del rimorso, capaci di diventare protagonisti assoluti ancor prima di quelli in carne ed ossa. Così gli orologi ricorrono nelle scene iniziali con un intensità magnetica e le fotografie costituiscono il leitmotiv ricorrente dell'angusto locale di Fat Moe ("Cosa hai fatto in tutti questi anni?"; "Sono andato a letto presto." ). I primi o i primissimi piani, così peculiari del cinema di Leone, incanalano negli occhi il peso del ricordo e per tutta la durata del film, diventano gli strumenti delegati a preannunciare i salti temporali.E proprio in questa struttura cronologica vorticosa e slabbrata, uniformata dall'indimenticabile colonna sonora firmata da Ennio Morricone (senza dubbio una delle migliori mai realizzate), il regista romano fa rinascere una New York scomparsa e riporta alla luce cinquant'anni di storia americana. Ispirandosi al romanzo semi-autobiografico del gangster Harry Grey (all'anagrafe David Aaronson), Leone evoca Proust e costella il film di riferimenti alla psicanalisi di Freud ("Corri Noodles, che mamma ti vuole!"), guardando nel frattempo alla grande storia del cinema: dal "Citizen Kane" di Orson Welles al capolavoro di Fellini "Otto e mezzo", passando per “Le jour se leve” di Marcel Carnè e "Hiroshima mon amour" di Alain Resnais. Il tutto senza perder di vista la propria personalissima vena autoriale, coronata in quella tensione epica -e quasi biblica- di cui colora alcune scene pressochè indimenticabili tra bambini mai cresciuti e poliziotti corrotti, violenza che si fa valere a suon di piombo, ingordigia, asfalto, soprusi sessuali, vecchi teatri di ombre e fumerie d'oppio. Proprio in una fumeria d'oppio il film si apre ed esattamente nella stessa finisce, chiudendo circolarmente sull'inquadratura dall'alto di un sorriso drogato ed eterno del protagonista Noodles. E' proprio quel sorriso a frantumare di nuovo il puzzle intricato che poco prima lo spettatore sembrava aver definitivamente ricostruito una volta per tutte. La scena finale getta perciò un alone di mistero sull'intero significato della pellicola e la apre a nuove infinite interpretazioni, compresa quella di non averne nessuna davvero oggettiva. Ed è esattamente la strada del finale aperto quella che il maestro Leone sembra suggerire, salvo poi ricordare il curioso aneddoto per il quale, dopo la visione della prima nel 1984, alla domanda di chiarimenti di uno spettatore entusiasta, il regista rispose fermamente "Vede, il film inizia e finisce in una fumeria. Quindi potrebbe anche essere che tutta la vicenda non sia stata altro che una...". Lo spettatore lo pregò di non continuare, preferendo cullarsi nella speranza della veridicità di tutta la vicenda, così carica di valori morali e simbolici. Tutti noi gli siamo solidali e continuiamo a preferire alla teoria del sogno, quella della verità di un'indimenticabile storia di amore e odio, amicizia e tradimento, morte e redenzione.Ma qualunque sia la nostra personalissima interpretazione, il valore epocale della pellicola di Leone sta prima di tutto nell'aver proposto un nuovo modo di fare cinema: rifiutando la linearità consequenziale (ripristinata nella prima edizione americana, che tagliò inoltre quasi due ore di girato e non a caso fece flop) e adeguando la narrazione all'incantato ritmo della memoria, il maestro romano pose di fatto le basi per la quasi-totalità della produzione "autoriale" contemporanea, autodecorandosi inevitabilmente come "primo regista postmoderno" della storia.
A ben guardare infatti, il cinema postmoderno riflette il disordine meticcio del mondo e l'impossibilità di percepire la realtà attraverso un punto di vista unitario. E' sostanziale, in esso, la proliferazione di chiavi di lettura innumerevoli, prive di gerarchie e di una qualsiasi possibilità di soluzione. Questo determina spesso la frammentazione temporale e la discesa negli angoli più remoti dell'inconscio -o comunque nei meandri della mente- dei protagonisti. E in questo senso (soprattutto seguendo la teoria dell'allucinazione) davvero "C'era una volta in America" si propone come archetipo primo del cinema contemporaneo e non è affatto difficile accostare questa pellicola all’opera di registi a prima vista lontani anni luce per generi e temi trattati. Le strategie di fondo del tarantiniano "Pulp Fiction", del recente "Inception" (Nolan), dell'osannato "Mulholland dr." (Lynch) -e si potrebbe continuare all'infinito con Inarritu, Gilliam, Fincher, Scorsese...- sono ancora legate con un indelebile filo rosso all'ultimo straordinario capolavoro di Sergio Leone (e più in generale alla sua intera opera). L'assetto così innovativo della pellicola fu inoltre programmato dal regista con una precisione e un rigore assoluti tanto che molti suoi collaboratori lo elogiarono proprio per la sua maniacale e a volte ossessiva progettazione di scena; quasi come se il film fosse esistito nella sua mente prima ancora di essere trasposto in pellicola. "Mangio e penso al film, cammino e penso al film, vado al cinema e non vedo il film ma vedo il mio...non ho mai visto De Niro sul set ma sempre il mio Noodles.”E come recita proprio De Niro in uno dei suoi lavori più recenti ("Stanno tutti bene"), l'artista è colui che realizza opere "che cambiano la vita della gente". E grazie alla forza illuminante delle sue pellicole e alla sua infinita energia creatrice Sergio Leone ha decisamente meritato questo statuto.

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