Florestano Vancini. Data di nascita 24 agosto 1926 a Ferrara (Italia) ed è morto il 18 settembre 2008 all'età di 82 anni a Roma (Italia).
«La politica di oggi mi annoia. Riesco a guardarla poco in tv, mi fermo sulle trasmissioni di Giuliano Ferrara, Gad Lerner, poi torno a immergermi nei miei libri. La politica di una volta era una fede, una missione, avevamo la verità in tasca, volevamo cambiare il mondo, credevamo di poter cancellare per sempre dall’economia la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, proprio come – pensavamo in buona fede – era avvenuto in Unione Sovietica. Guardavamo al comunismo realizzato come a un sogno, a quei Paesi come a un paradiso terrestre. Avevo diciott’anni, la tessera del partito clandestino, la voglia di lottare. Prestissimo, dopo la guerra, a Ferrara, mi dettero un incarico: diventai responsabile dei giovani. Riunioni di sette ore per non dire nulla, dovevamo stare seduti per assistere al rito. Non faceva per me. Cominciavano le prime delusioni, il distacco dalla Yugoslavia, Tito che dalla sera alla mattina diventava un nemico, non capivo e nessuno spiegava, diversamente dai miei compagni non ero capace di piangere per le morti di Stalin o Togliatti. Nel giro di pochi mesi, lascio. Ho conservato la tessera del Pci fino al 1956. Dopo Budapest non ce l’ho fatta più. Ma perché lei mi sta tirando fuori tutto questo? Non mi sono mai esposto in vita mia, sono stato sempre fuori dal giro dei cinematografari, sognavo di fare il regista con uno pseudonimo, speravo di essere dimenticato, e ora mi trovo qui a raccontare le amarezze, le ferite, i drammi che la politica mi ha fatto vivere. Lo sa che tutti i miei film sono risultati sgraditi al potere culturale? Ho parlato di guerra civile fra italiani, di errori/orrori del comunismo, di orrende stragi compiute in Sicilia dai garibaldini, ho cercato di mostrare la grandezza morale di Matteotti, al di là del suo omicidio. Andavo sempre a cercare gli episodi meno conosciuti della nostra storia, cercavo di mettere in luce l’altra faccia dell’eroismo ufficiale. Ho pagato molto, per questa scelta. Sono l’unico autore fuori da tutte le rassegne, fuori dai premi, lontano dai nastri d’argento, i miei film non sono mai previsti nelle serie vendute dai quotidiani. Ma non mi sento una vittima, anzi. Avrei dovuto fare lo storico, era quella la mia vera passione».
Il regista che voleva essere dimenticato è un signore molto bello, ha gli occhi azzurri, un sorriso dolce e disarmante, è alto e ha un portamento elegante. Incontro Florestano Vancini al bar dell’hotel de Russie, a piazza del Popolo. Mi accoglie e sento che preferirebbe scappare, evitare di parlare di sé: «Avrei voluto disdire questo appuntamento» confessa, «ma poi ha prevalso l’educazione. E allora, eccomi qui: nato a Ferrara il 24 agosto 1926, nel 1966 fui praticamente cancellato per aver raccontato, in un film che si chiamava Le stagioni del nostro amore, le cose che ci dicevamo noi autori di sinistra la sera a cena. Un errore imperdonabile: avrei dovuto girarci intorno, usare le metafore. Dino De Laurentiis mi invitò: “Togli la politica, è una bella storia d’amore”. E invece scelsi come protagonista un giornalista comunista, deluso dal crollo dei suoi ideali. Goffredo Fofi definì il film “una buffonata”. L”Unità” mise la recensione, ultima di dodici, poche righe dopo un film di Franco e Ciccio. Gli altri, tutti, mi avvolsero in un silenzio assordante. Soltanto sette, otto anni fa, un mattino mi telefonò Furio Scarpelli, lo sceneggiatore che ha firmato con il povero Age tanti film di successo, per dirmi che la notte in tv l’aveva visto e che gli era piaciuto. Ho apprezzato quel gesto, ma poi gli ho chiesto: “Dunque, allora non l’avevi visto?”. In verità, ho capito dopo tanti anni che nessuno di loro era andato a vederlo».
«Loro» sono i compagni di avventura, quelli con cui aveva condiviso la gavetta, i documentari, le cene da Otello alla Concordia in via della Croce e i pasti di mezzogiorno alla trattoria Menghi, «dove ci scannavamo per discutere di comunismo, Ungheria, libertà e socialismo. Loro, i miei colleghi e amici, pensarono che fossi passato al nemico, che avessi tradito, mettendo in scena proprio i nostri dubbi, i nostri tormenti. Mi ha fatto piacere che Piero Fassino, invece, avesse raccontato di essere stato sconvolto da quella visione, “fu come una folgorazione” disse. Ci siamo parlati, lui mi ha spiegato che vide il film quando aveva sedici anni, due mesi dopo la morte di suo padre, che era stato un socialista, mi confessò che la notte non aveva dormito e che l’indomani a scuola aveva preso un tre, l’unico della sua carriera di liceale».
Vancini era arrivato a Roma da Ferrara all’inizio dei Cinquanta, «dopo una lunga corrispondenza con il ferrarese Antonioni, iniziai con lui e con Citto Maselli, sono stato aiuto regista di Valerio Zunlini e Mario Soldati». Figlio del portalettere di Boara, cresciuto a cinque chilometri da Ferrara, andava in bici in città per frequentare le scuole medie, «ero l’unico a continuare gli studi dopo la quarta elementare, gli altri andavano in campagna o “a mestiere”, a imparare a fare i meccanici di moto o di auto. A Ferrara, mia madre mi portava all’Opera a sentire Beniamino Gigli, alla sera ascoltavamo i concerti Martini e Rossi trasmessi alla radio dall’Eiar. Leggevamo “Il corriere padano” fondato da Italo Balbo e diretto da Nello Quilici, il padre di Fulco: era un grande giornale e aveva un’ottima terza pagina. Dopo avere visto Ombre rosse e La grande illusione, iniziai a comprare “Cinema”, la rivista ideata da Vittorio Mussolini dove scrivevano Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Michelangelo Antonioni. L’unico che davvero, in quegli anni, si era tenuto lontano dal fascismo in tutte le sue forme, è stato il grande scrittore ferrarese, Giorgio Bassani. Fin dal 1938, era uno dei nomi noti all’Ovra, la polizia segreta del duce. Nel 1943, a causa dell’armistizio e delle sue conseguenze, l’anno scolastico iniziò con un mese di ritardo, il 15 novembre. Era il mio primo giorno di scuola, come sempre attraversai Ferrara in bicicletta, quando vidi i morti, tutti borghesi e antifascisti, in piazza. Erano undici: quattro e quattro ai lati delle mura davanti alla farmacia, due sulle mura e uno più lontano, da solo, doveva essere un passante, fucilato per caso insieme agli altri. Una strage che ha segnato per sempre la mia vita. Tutti in città sapevano che erano stati gli italiani, le brigate nere, a compiere quella orrenda vendetta: conoscevo i morti, pensai che avrei dovuto raccontare, prima o poi, la verità su quella vicenda. Bassani scrisse una novella e allora mi decisi a cercare un produttore. Ma Goffredo Lombardo mi negò i soldi: “Fai vedere gli italiani che si sparano fra loro, chi altro lo sa? Non è meglio usare i tedeschi?”. In quegli anni, la Resistenza si raccontava così: italiani tutti patrioti e tedeschi tutti oppressori. Per produrre La lunga notte del 43, mi aiutò Mauro Bolognini, mandò il copione a Tonino Cervi e a Sandro Iacoboni». Il film viene premiato alla mostra di Venezia nell’edizione del 1960, l’estate in cui crolla il governo Tambroni, «alle prime proiezioni, la polizia aveva mandato le camionette di scorta, c’era un clima pesante. La Democrazia cristiana stava per voltare pagina, mollare il Movimento sociale per incamminarsi verso il centro-sinistra».
Con Vancini parliamo per ore, andiamo dal Rinascimento che ha ispirato il suo ultimo film, E ridendo l’uccise, un film in costume che denuncia la distanza fra la vita degli Estensi e quella della povera gente, alla nascita delle leghe contadine nel ferrarese alla fine dell’Ottocento, «contro i lavoratori che finalmente si organizzavano, gli agrari scatenarono prima gli squadristi, poi il fascismo, solo chi ha visto le condizioni bestiali in cui lavorava la nostra gente sa cosa fu la repressione che partì dal 1919 contro quelli che, guidati proprio da Matteotti, rivendicavano diritti minimi». La repressione dell’insurrezione popolare è anche il tema del capolavoro di Vancini, Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, un film del 1972. La storia del paesino che si ribella all’arrivo dei garibaldini guidati da Nino Bixio, raccontata in codice in una novella di Verga, La libertà, viene bollata da Leonardo Sciascia, come «uno scheletro nell’armadio» del Risorgimento. Scritto proprio insieme a Sciascia, «un polentone padano come me aveva bisogno della sua sicilianità», il film svela un segreto nascosto dai resoconti ufficiali e mostra l’altra faccia dei «liberatori». Rovistando nelle pagine nascoste del passato, fra mille racconti che meriterebbero una seconda puntata, il regista delle delusioni politiche si è finalmente arreso all’intervista
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006
Il film d'esordio di Florestano Vancini, La lunga notte del '43, è del 1960 e giunge dopo undici anni di lavoro nel campo del documentario, con interessi specifici per la sua terra. Dal racconto di Bassani delle Storie ferraresi Vancini trae alcuni elementi e opera sensibili variazioni: non ultimo il giudizio nei confronti dei suoi personaggi. L'aggiornamento della storia al presente, per dimostrare come i fascisti non siano stati al servizio delle truppe naziste, ma abbiano agito autonomamente negli anni di Salò e poi siano stati tranquillamente riassorbiti e assolti dal sistema democratico, segna il momento di massima differenza rispetto al testo originale. Inoltre si insiste sulla costruzione dei personaggi, lasciando sullo sfondo l'evento storico dell'uccisione degli undici cittadini ferraresi di religione ebraica fucilati per rappresaglia, che pure grava sulla storia con tutta la sua forza e che comunque fa raggiungere al film il climax drammatico ed emotivo.
La lunga notte del '43 sottolinea, senza ridurne la responsabilità, il consenso passivo della borghesia all'avventura del fascismo, il suo stare alla finestra e non sapere prendere una posizione. È forse una delle prime rappresentazioni della cosiddetta zona grigia nella quale si situa una gran parte della popolazione italiana durante la guerra. Al medesimo tema si collega La banda Casaroli del 1962. Paolo Casaroli, il bandito protagonista del film (la storia è tratta da un fatto di cronaca dei primi anni Cinquanta), è un sopravvissuto dell'ultima avventura del regime, che vive di ricordi e fantasmi: accanto a lui i rappresentanti della nuova generazione di sbandati, alla ricerca di emozioni forti, incapaci di assoggettarsi alla logica del sacrificio e del lavoro necessari alla ricostruzione.
Degli altri titoli degli anni Sessanta (La calda vita del 1964, tratto dal romanzo omonimo di Quarantotti Gambini, il western I lunghi giorni della vendetta del 1967 e Un'estate in quattro del 1970) ricordo Le stagioni del nostro amore del 1966, amaro pellegrinaggio della memoria - come già si è detto in un capitolo precedente - bilancio dell'esperienza di una generazione. Di tutta questa prima fase l'opera costituisce senz'altro il momento di maggior coinvolgimento autobiografico.
Agli inizi del nuovo decennio, senza raggiungere livelli imprevedibili e operare una rivoluzione nel proprio stile Vancini realizza almeno due opere di corretta fattura e interpretazione storica: fronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1970) e II delitto Matteotti ( 1973 ), accanto a titoli di più aperto compromesso (Violenza: quinto potere, 1973, e Amore amaro, 1974).
Bronte è un esemplare tentativo iniziale di quella ricostruzione della storia dalla parte dei vinti e delle classi subalterne che si comincia a fare proprio alla svolta del decennio, capovolgendo non pochi stereotipi rimasti a lungo immutati. Ispirato a una novella di Verga e sceneggiato anche con la collaborazione di Leonardo Sciascia il film intreccia in maniera forte e originale elementi storici, letterari, ideologici ed espliciti richiami politici. Il delitto Matteotti rientra invece nel gruppo di opere che hanno tentato di ricostruire - con intenzioni divulgative - le tappe e i diversi volti della dittatura fascista e della lotta politica durante il ventennio.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007