James Gray ha il grigio nel nome o lo inserisce di continuo nelle sue storie. Morte, tradimenti, seconde occasioni sprecate. Un cinema dedicato alla contaminazione dell'animo, dove il confine tra Bene e Male è labile, quasi invisibile. Forse è per questo che il regista e sceneggiatore newyorkese si riconosce così bene nello sguardo cavo e complesso di Joaquin Phoenix, vero e proprio feticcio costante all'interno del suo immaginario. Al centro della storia c'è spesso la famiglia, mai focolare rassicurante, ma territorio instabile dentro cui rinegoziare la propria identità in perenne definizione. Gray esplora di continuo il tema dell'integrazione, domestica prima che sociale, mettendosi dalla parte delle pecore nere, accentuando i toni del dramma e esplorando derive criminali, uniche vie in cui incanalare la frustrazione di personaggi borderline.
Nipote di immigrati russi, James Gray nasce a New York nel 1969. Cresciuto nel Queens, quartiere simbolo del melting pot, Gray vive sulla sua pelle il problema della classe sociale e del problematico inserimento in un contesto urbano caotico. Appassionato di pittura, si avvicina al cinema da affamato spettatore di Francis Ford Coppola, Robert Altman, Stanley Kubrick e Martin Scorsese. Passione che diventa materia quando frequenta la School of Cinematic Arts della University of Southern California di Los Angeles, dove il produttore Paul Webster, impressionato da un film studentesco di Gray (Cowboys and Angels), lo incoraggia a scrivere una sceneggiatura. Così, a 25 anni, Gray scrive e dirige Little Odessa (1994), tragedia metropolitana intensa e dark, spietata rappresentazione di una disgrazia familiare. L'opera prima di Gray, presentata in concorso a Venezia, si aggiudica il Leone d'Argento e una Coppa Volpi per la prova di V. Redgrave. Film cupo, sgradevole, ma gradito, Little Odessa presenta al cinema un autore coraggioso, capace di schivare i cliché del cinema americano e di dirigere attori quanto mai ispirati. Mentre la critica lo nomina "l'erede di Scorsese", con cui condivide un certo interesse per la convivenza tra diversità nella società statunitense, Gray ritorna con The Yards (2000), noir ambientato tra i corrotti. Nonostante la nomination alla Palma d'oro di Cannes, il film viene snobbato da critica e pubblico, incassa meno di un milione di dollari nel mercato americano e rimane relegato al home video in Italia. Dopo questa inaspettata delusione, inizia un lungo periodo di pausa durante il quale Gray rifiuta diversi progetti e decide di dedicarsi ad un cinema di necessità, spontaneo, lontano dalle pressanti dinamiche mainstream spinte dal botteghino. A sette anni dal suo secondo film, dirige I padroni della notte (2007), opera che insiste sui temi dei rapporti familiari (questa volta tra fratelli), costretti a mischiarsi con loschi affari mafiosi. Nonostante la forte alchimia tra la sensuale Eva Mendes e il materico Joaquin Phoenix, il film non riesce ad evadere dai canoni della crime story, e svela un autore privo dello smalto di inizio carriera. Per questo con il successivo Two Lovers (2008), il regista non cambia protagonista (ancora Phoenix), ma stravolge il genere di riferimento, dedicandosi ad una love story ispirata ad un racconto di Dostoevskij ("Le notti bianche"). La sensibilità di Gray torna a sfiorare corde profonde, con la messa in scena dell'amore inteso come doloroso processo interiore. Con The Immigrant (2013), in concorso al Festival di Cannes, riaffiora il tema dell'integrazione sociale, sempre affidato a grandi interpreti come M. Cotillard, J. Renner e l'immancabile losca figura di J. Phoenix, perfetto emblema di storie difficili, futuri faticosi e sguardi sofferti.
Dopo Civiltà perduta (2016), nel 2019 dirige Brad Pitt nel fantascientifico Ad Astra, mentre nel 2022 porta in concorso al Festival di Cannes Armageddon Time, un coming of age ambientato nel Queens negli anni '80.