A sessantasei anni Sergej Paradzanov, artista multiforme (regista, pittore, musicista, poeta, cantante lirico, artigiano, burattinaio di gran talento), cineasta unico dotato d’un mondo e d’una visione straordinari legati profondamente alla tradizionale cultura popolare orientaleggiante delle repubbliche transcaucasiche dell’Urss (Armenia, Georgia, Azerbaigian), intellettuale omosessuale tra i più perseguitati dal perbenismo e conformismo dei passati regimi sovietici, era malato di diabete, di fatica, di esuberante avidità di vita, del cancro che l’ha portato a morte il 21 luglio 1990.
Nato a Tbilisi in Georgia da genitori armeni, studente di canto al conservatorio di Kiev, studente di cinema diplomato a Mosca nel 1951, dopo alcuni brevi film (“malriusciti, brutta roba”) girati in ucraino negli stabilimenti di Kiev, divenne noto all’estero nel 1965, per il bellissimo Le ombre degli avi dimenticati. Seguirono Sayat Nova (1969), vita di un poeta armeno settecentesco; La leggenda della fortezza di Suram (1985), intreccio di leggende popolari georgiane; Pirosmani (1986), cortometraggio sulla vita di un pittore georgiano; Asik Kerib (1988), dedicato a Tarkovskij, antico poema orientale d’amore e di peripezie avventurose.
Un cinema originalissimo, visionario, di sfrenata fantasia e ritmo convulso, impasto splendente di fiaba, folclore, epica, ironia, di contenuti mitico-mistici, senza alibi
realistici né pretesti drammatici. Uno stile lirico, formali-sta, barocco, polifonico; una forma di racconto rapsodiCa, frammentata, aperta alla magia, al meraviglioso; una scrittura d’incantamento. Eppure, diceva: “ Sono un regista-improvvisatore, arcaico. I cineasti debbono creare un linguaggio cinematografico che il cinema sovietico secondo me va perdendo, malgrado l’eccezionale forza conquistata in altri periodi”.
Nemico irriducibile della modernità cosmopolita, restava fortemente legato alla cultura d’origine: “ Per la prima volta ho portato sullo schermo un eroe curdo, e ho messo in un film sintesi e amicizia tra le religioni cristiana e musulmana, proprio adesso che sono divise da un tale conflitto”, diceva due anni fa alla Mostra di Venezia parlando dell’opera che è rimasta la sua ultima, Asik Kerib, diretta insieme con David Abasize.
La resistenza all’occidentalizzazione e il rifiuto di considerare la cultura russa l’unica cultura legittimata nell’Urss, oltre al non voler nascondere la propria omosessualità, al non voler piegare la propria natura estroversa, fiera e aggressiva, erano le vere colpe che l’avevano portato in galera, diceva: “ Il mio reato è amare l’arte popolare e non desiderare né comprare jeans e automobili”. Le imputazioni suonavano diverse, per l’ufficialità sovietica. Nel 1966, girava a Kiev un cortometraggio sulla città, venne accusato di soggettivismo e misticismo: lavoro interrotto, materiale confiscato. Sayat Nova, girato a Erevar negli studi del cinema armeno, venne interrotto per inter vento politico nella fase del montaggio (e più tardi rimontato, completato da Sergej Juktevich). Ogni altro progetto, bloccato: per anni presentò soggetti tutti rifiutati, tiri avanti collaborando a sceneggiature e recitando piccole parti in film altrui.
Nel 1973, in un momento specialmente repressivo mandò al Ministero della cinematografia uno sterminato telegramma, denunciando la situazione degli artisti nell’Urss. Venne arrestato due giorni dopo, con accuse di contrabbando di oggetti d’arte, speculazione in valuta estera, omosessualità, diffusione di malattie veneree, violenza carnale: e condannato a sei anni di carcere. La forte protesta della cultura internazionale gli risparmiò due anni di detenzione. Ricordava Paradzanov: “Arrivavo in carcere con l’imputazione di omosessualità, sarei dovuto finire come una prostituta. Invece sono diventato un educatore: ai miei compagni di galera ho insegnato l’arte, gli ho insegnato a disegnare sulla carta, anziché sulla pelle per tatuarsi aquile, principi e donnette”.
Quello della prigionia non era stato tempo perduto, sosteneva ironico: “Un giorno i testi dei miei processi verranno pubblicati, e per quelle pagine io diventerò immortale. Tre despoti mi hanno messo dentro per omo sessualità, ma per me il carcere è stato Oxford, un’università: lì ho creato come Oscar Wilde, ho dipinto ottanta quadri,.. ” A Tbiisi erano esposti in una gran mostra i suoi lavori di carcerato: quadri e disegni, ma anche bambole, cappelli, collage, marionette, tovaglie. Mai riconciliato, uomo affascinante e esuberante, vorace e loquace, contagioso, fazioso, febbrile e turbolento, Paradzanov, piccolo, grosso, con la barba grigia, si ornava di fiori freschi, di braccialetti con ametiste vistose, di collane d’argento formate da vecchie monete e piccoli crocefissi.
A Venezia, due anni fa, nella prima occasione in cui gli era stato consentito di uscire dall’Urss (per il festival di Rotterdam, poi per la Mostra del cinema) l’assedio tumultuoso e un po’ dileggiante dei fotografi lo urtava: “ Mi ripugna venir esportato soltanto come un prodotto della perestrojka ”. Ma pure lui dileggiava: “ Lenin era un vero artista, e anche Gorbaciov ha un certo talento. Sarebbe adattissimo a interpretare il protagonista di Che disgrazia l’ingegno di Griboedov, a recitare l’ultima battuta del commedia: “Una carrozza, una carrozza! “, e via di corsa in fuga”.
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