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Rassegna stampa di Luchino Visconti

Luchino Visconti (Luchino Visconti di Modrone) è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 2 novembre 1906 a Milano (Italia) ed è morto il 17 marzo 1976 all'età di 69 anni a Roma (Italia).

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

Anche quando sembra attratto dalla cronaca, Luchino Visconti si tiene alla letteratura, costantemente preoccupato di descriverci la realtà da un punto di vista culturale, il solo punto di vista che interessa il suo animo di intellettuale serio e raffinato, di tutto informato, a tutto interessato.
Nel primo dopoguerra La terra trema aveva rappresentato l'incontro delle sue tendenze culturali (figurativamente fiamminghe, letterariamente verghiane) con l'osservazione della vita vera e in pieno neorealismo aveva significato, se non un ritorno all'indietro, certo un distacco, a testimonianza di una tradizione meditamente isolata, che non prendeva lezioni da nessuno.
Su quella linea alcuni anni dopo (1954) Visconti affrontava direttamente la storia con Senso dandoci il primo vero romanzo del nostro cinema: qua e là discutibile nell'impostazione dei personaggi (tratti alla lontana da un racconto di Boito) ma particolarmente significativo per il rovesciamento dei valori narrativi cui sottoponeva, con successo, la struttura del racconto cinematografico.
Se nel 1957 meno significativo doveva essere il prolungamento di questo esperimento nelle Notti bianche (tratto da Dostoievskji), a più felici risultati doveva invece arrivare nel 1960 con Rocco e i suoi fratelli, tacitamente -ispirato anch'esso a Dostoievskji, un film in cui la dichiarata derivazione dalle forme del romanzo - lucidamente inserite nei modi espressivi del cinematografo - conduceva a severo compimento il tentativo già in parte riuscito di Senso.
Protagonisti del film sono cinque fratelli lucani che, dopo la morte del padre, si lasciano condurre a Milano dalla madre nella speranza di poter farsi più agevolmente strada nella vita. Quattro di loro sono bravi ragazzi, dediti alla famiglia, al lavoro, alla vita in casa secondo usanze e patriarcali abitudini del Sud. Uno, invece, Simone, è la pecora nera e la sorte vuole che il primo ambiente che gli capiti di frequentare sia quello della boxe, nelle palestre di periferia; vi conquista subito un discreto successo e questo comincia a montargli un po' la testa.

ALDO FITTANTE
Film TV

Quattordici lungometraggi e tre episodi: diciassette lavori in quarantanni circa di elegantissima carriera, da stagista sul set di Tonni per Jean Renoir agli strazi fisici, già menomato dal male, negli ultimi bagliori spesi per L'innocente. Non bisogna essere prolifici per forza, alla Fassbinder per esempio, per portare a casa capolavori ed emozioni capaci di stravolgere l'immaginario. Per Luchino Visconti basterebbe, tra l'altro, un titolo - un titolo solo: Rocco e i suoi fratelli - per giustificarlo al cinema. E poi, che dire del Gattopardo, di Senso, di Ossessione, di Ludwig, di Morte a Venezia? Un autore che può vantare tra i film cosiddetti “minori” opere come La caduta degli dei, Vaghe stelle dell'Orsa, Le notti bianche non ha alibi: è proprio un autore. Barocco, dandy e decadente quanto si vuole, forse inguardabile sul viale del tramonto (Gruppo di .Famiglia in un interno..), ma unico. Al punto da costringere gli storici a coniare l'aggettivo viscontiano, come solo per i grandi, Fellini in testa. Era viscontiana, dunque, maniacale, folle e impudica la sua maniera di filmare, di guardare, di decorare le scenografie e finanche gli interni dei cassetti che nessuno avrebbe visto né aperto mai. Con una magniloquenza controllatissima, scientifica, che non di rado sfiorava gelidi gradi di contro-versa introspezione, Visconti non poteva non portare con sé, al “lavoro' (e Il lavoro si intitola il bell'episodio da lui diretto per Boccaccia 70, con Romy Schneider), il suo sangue blu (... di Modrone...), la sua aristocratica visione del mondo, bertinottianamente comunista da salotto buonissimo che urlava in comode pantofole, davanti a un Proust e ascoltando un quartetto da camera, lo sdegno per un mondo ingiusto e classista e, soprattutto, allergico alle culture. E quindi, dopo un apprendistato che farebbe curriculum anche durante l'Apocalisse (cominciare con Renoir...), eccolo sfidare subliminalmente la propria omosessualità con un debutto tra il noir e il faceto, ossessionato più che dal romanzo di Cain (Il postino suona sempre due volte), dalla voglia di sdoganare un cinema piccolo piccolo, telefonato bianco, introducendolo per la prima volta fra il realismo magico francese degli anni ‘30 e i primi vagiti autoriali, magari cospargendolo di un neorealismo, più neo che preso dalla strada, cioè elaborato come una perfetta macchina hollywoodiana. Non pago, il Quarto Mondo della Sicilia del 1948, in una Terra che trema fra pescatori che non parlano italiano e pescatori che probabilmente neanche lo capiscono, (né lo vogliono capire). Una rilettura ideologicamente un po' forzata dei Malavoglia per una prima parte di una trilogia mai realizzata, causa flop al botteghino. Visconti, allora, si sposta a Cinecittà per sbirciarne le sue ombre e le sue contraddizioni con Bellissima, che pare un film di oggi tale è l'attualità del tema e la modernità del linguaggio, con i voli pindarici della piccola borghesia che si infrangono nel brutale cinismo di una macchina-cinema che, in quegli anni (inizio ‘50) era la televisione del passato, del presente e del futuro. Tra kolossal con l'affiato dell'autore che cerca il senso della vita e del proprio cinema nei rivoli della Storia (Senso, appunto; e naturalmente Il Gattopardo, La caduta degli dei, Ludwig) e pedinamenti intimisti (Le notti bianche, Vaghe stelle dell'Orsa, Morte a Venezia), Luchino ha il tempo - e ancora oggi non si capisce come abbia làtto a farlo: lui, così altero, nobile e “milanese” - di firmare uno dei melodrammi più fulgenti che la storia del cinema ricordi: Rocco e i suoi fratelli è una fabbrica di sogni cinematografici gettati addosso all'ormai vecchio e superato neorealismo, dove i personaggi sono splendide rielaborazioni, romantiche e romanzate, di uomini miserabili e donne predestinate. Nella forza delle immagini di Rocco e i suoi fratelli esplode la visionarietà politica e ideologica del Maestro come non era accaduto prima e come non accadrà più. Con Rocco, Visconti circonda il Mondo con spietata bellezza e severo, incalzante accanimento.

PIETRO BIANCHI

In tutta la sua opera, regie di film, melodrammatiche e teatrali, Luchino Visconti è un regista problematico; è insomma un artista che ogni volta sembra incominciare dal giorno della creazione e riscopre i temi dell'umanità più antica, primordiale e ferma. Da questa sua costante inclinazione è nato, a parer nostro, l'equivoco che sempre ha accompagnato la sua attività; per alcuni critici egli è un decadente (basti pensare, aggiungono, a Senso a Le notti bianche, nella sfera cinematografica; a Zoo di vetro, a Un tram che si chiama desiderio, a Rosalinda, in quella della scena di prosa): per gli altri, identificabili in blocco con gli ideologi di sinistra, egli sarebbe un realista. E citano, per ciò che riguarda il cinematografo, La terra trema e Bellissima. Quanto al teatro insistono sulle regie de Il matrimonio di Figaro, di Morte di un commesso viaggiatore, de La traviata, e di Uno sguardo dal ponte. Che san tutti discorsi, come si diceva una volta, a ombrellino; perché appunto come gli ombrellini, si possono aprire, o socchiudere e chiudere secondo il bisogno.
Il problema estetico di Visconti, che sembra irto di difficoltà, si risolve senza urti se si definisce il regista di Ossessione semplicemente come un romantico dei nostri tempi, nella cui cultura sono affluiti con naturalezza sia il realismo postzoliano che i molti rivoli del decadentismo europeo. Il decadentismo è una teoria estetica sorta in Francia verso il 1885. Decadenti vennero denominati per spregio dai loro avversari un gruppo di artisti che si appellavano alla fantasia, alle rinunce morali, alla sofferenza squisita, all'esaltazione dell' «io». in lotta contro la meschina esperienza. Non per nulla la rivista più significativa del gruppo fu «La revue wagnérienne» che si proponeva di spiegare al miglior pubblico francese il significato rivoluzionario dell'opera di Riccardo Wagner. Se si riflette a una delle opere più celebri e «chiuse » di Visconti, Senso, si vede subito come la nostra tesi non abbia nulla di provocatorio, di ardito, di paradossale. Senso, proprio come La terra trema e Bellissima, appare come una critica alla classe dirigente italiana, attraverso la denuncia delle insufficienze e miserie nella guerra del 1966, e nello stesso tempo si compiace di quella raffinatezza, morbosità e illanguidimento che appaiono come caratteri tipici del decadentismo.
Da questo punto di vista tutte le contraddizioni viscontee si sciolgono in una visione unitaria dell'opera d'arte: il realismo dei film più celebrati non viene più inficiato dalle osservazioni di tanti circa la «non verità» di personaggi estrapolati da un'altra e diversa cultura come Farhey Granger di Senso o Alain Delon e Annie Girardot di Rocco e i suoi fratelli. In fondo, la matrice della disputa e la sua risoluzione sono già (compreso l'amore per il melodramma ottocentesco) in quella lontana pellicola, Ossessione, dalla quale Visconti ha iniziato il suo intelligente e brillante percorso. Sia pure tenendo nel debito conto le difficoltà obbiettive (il regime fascista nel primo periodo della guerra...) è piuttosto indicativo che, per tirare in porto il suo film, Visconti abbia sentito il bisogno di ricorrere a un romanzo americano di successo, un romanzo artisticamente di serie B, ma non certo scevro di una certa rozza efficacia narrativa:
Il postino suona sempre due volte di James Caine Era il giugno del 1943 quando, critici di un quotidiano di provincia, ci recammo, pieni di curiosità e simpatia, a vedere Ossessione. Ebbene, subito ci saltò agli occhi la congiunzione viscontea decadentismo-realismo. Il protagonista Massimo Girotti recava in capo una «casquette» alla francese, sconosciuta ai nostri proletari (e questo, pensammo, era una reminiscenza dei tempi in cui Visconti, abbandonati i cavalli da corsa di cui era in gioventù appassionatissimo, scoperti il cinematografo, il teatro, la cultura, era stato per qualche tempo in Francia, come assistente di Jean Renoir). Erano stati per Visconti, dopo le stagioni «pre-critiche» dei cavalli da corsa, gli anni dell'apprendistato. Quanto a Girotti girovagava per l'Emilia assolata e le strade che costeggiano l'Adriatico con uno spirito «non italiano».
La sua ribellione più che quella di un proletario insofferente del regime, appariva come l'avversione di un «tramp», popolarizzato a quegli anni dai refrattari di Faulkner, di Caldwell e di Steinbeck. Era un personaggio amorale, che si incontrava con una donna del suo stesso sentire. Ossessione, per ciò che riguarda i personaggi, aveva già tutti i caratteri di un certo decadentismo: il compiacimento per una determinata condizione anormale, la perversione etica come principio rivoluzionario, e persino l'esotismo mascherato, e pur chiaro, attraverso la rivelazione della fonte americana. Ma era presente anche il realismo, che era nello sfondo naturale, nella decisione programmatica di «girare» in esterni autentici, e soprattutto nella volontà di denunzia di una situazione oggettiva nemica delle anime.

PIER PAOLO PASOLINI

Caro Visconti, ti dispiace se ti parlo con sincerità da amico e anche con l'intemperanza e l'inopportunità che caratterizzano gli interventi degli amici? Perché, sia ben chiaro, anzitutto, che io non riesco a non considerarti mio amico, e non riesco a non considerare me stesso tuo amico. Ciò mi pare naturale, nelle cose. Lo vedo nella tua presenza fìsica, nel tuo stampo e nella tua pasta. Lo avverto pensando a me che penso a te. La mia simpatia per te è inalterabile. Non te ne ho voluto (se non, veramente, per lo spazio di due o tre minuti) anche quando mi hanno detto che alla televisione francese hai sconsigliato la Callas a fare un film con me; anche quando mi hanno detto che sei stato a Venezia al fianco di Fellini, complice con lui nel dir male, senza nominarlo, dell'assente (cioè di me: che ero assente per protestare contro due processi dovuti alla mia presenza a Venezia l'anno precedente. Non avrei mai preteso la solidarietà di Fellini, figlio obbediente. Ma la tua...). Bene, voglio parlarti del tuo film e di quella che è la sua funzione oggettiva, come si dice, nell'attuale momento del cinema italiano.
Il tuo film cade nella seconda parte: dal momento in cui per una stradina buia, appena illuminata da un'aurora atroce, lampeggia opaco il faro di una motocicletta (che è un momento sublime, come direbbe un po' fatuamente un ragazzo dei «Cahiers» e come dico, sul serio, io). Da quel momento la tua ispirazione è venuta meno: la strage è fatta «cinematograficamente», senza mistero, con litri di colorante rosso sui corpi dei generici; l'ss Aschenbach si sfalda, diventando da personaggio di comodo, personaggio di romanzo d'appendice - giungendo a piluccare l'uva, mentre il figlio sta per violentare la madre - con la calma dei personaggi accademici di De Sade; anche tutti gli altri personaggi si sfaldano, perdendo ogni mistero: addirittura spiegano se stessi e i propri sentimenti, pedestremente e pedagogicamente, come fa Martin davanti allo ss, in modo esplicito; oppure giungono a fare la caricatura di se stessi come la madre, che diventa un pezzo di Ensor dopo esser stata un pezzo di Thomas Mann (un po' rifatto, naturalmente). L'assedio alla villa degli dèi è trasandato: indicato, come nei film di serie B, da alcuni generici vestiti da ss in motocicletta, oppure a piedi, nell'atto di salutarsi. Inoltre c'è l'inspiegabile incesto. Capiscimi, non dico inspiegabile perché ho bisogno di spiegazioni logiche (ce n'è fin troppe nel film: frasi come «Io ti voglio distruggere, mamma». Che i tuoi sceneggiatori avrebbero fatto bene a lasciare a Niccodemi). Dico inspiegabile psicologicamente (tutto si può inventare, dice Tolstoj, fuori che la psicologia). Un uomo «anormale» che ama le bambine di otto anni è «bloccato»: il suo eros è una cristallizzazione, non può concepire altro al di fuori di questo; di fronte ad altri rapporti soprattutto diversamente anormali, è impotente. L'incesto con la madre non è certo escluso: ma perché esso si realizzi occorre ben altro ingorgo di sentimenti che un desiderio di rivalsa venuto fuori come in un colpo di scena da una banale confessione con un ss (forse esso sarebbe stato più vero e giustificato, anche se più folle, se Martin anziché amare le bambine avesse amato i ragazzi). Invece, la prima parte del film, fino a quel famoso faro della motocicletta sul lago, è molto bella, degna di Senso (che è il tuo più bel film, non La terra trema). È molto bello perché non c'è sotto una sceneggiatura con vecchie scene-madri, ma è un mosaico, che è opera completamente tua. Potrei parlarti ancora a lungo del tuo film. Ma mi limito a fare ancora una sola osservazione: l'impiego dello zoom. Esso è una innovazione stilistica all'interno della tua opera; l'adozione di un mezzo espressivo non severamente tradizionale e che con tanta disinvoltura è usato dai mediocri registi. Ma tu l'hai completamente assorbito nel tuo vecchio stile: facendone così una pura vernice di novità espressiva, una piccola concessione ai tempi. L'hai codificata. Ecco: ci siamo: il tuo film (che ha codificato il nuovo e riconfermato il vecchio) si presta, oggettivamente, a un'operazione di restaurazione. Non per niente ho visto, allibito, uno di quei cinegiornali atroci, nati nella bassa corte del potere, che, riprendendoti mentre vai, credo, a un «defilé», commenta: «Toh, chi si vede, un regista vero». Ciò implica una reazione contro tutto ciò che il cinema ha fatto e scoperto in questi ultimi anni. Una reazione cinematografica, che è prima di tutto politica. Vedi i provvedimenti per la sicurezza dell'ordine pubblico, vedi la recrudescenza della censura (col minaccioso progetto di Cava), vedi la campagna moralistica, vedi, infine, il revanscismo del vecchio cinema. Ti avrà, spero, insospettito il coro dei consensi, che vanno, come per il Satyricon, da destra a sinistra. Tutti, infatti, hanno diabolicamente interesse alla restaurazione. Non ti è certamente sfuggito, per esempio, come anche nella campagna moralistica i giornali di destra e i giornali di sinistra siano proceduti di comune accordo, in una commovente alleanza. Non so fino a che punto tu sia responsabile di questo significato oggettivo del tuo film. Se tu abbia calcolato una specie di «ritorno all'ordine», con conseguenti complimenti generali; oppure se si sia trattato di un impeto irrazionale che ti ha spinto ad adempierti come tu non puoi non adempierti: restando fedele alle tue reali esperienze. Questo sei tu che puoi dirlo. Io non voglio giudicarti, ma chiarire qualcosa per te, che può essere giusto chiarire anche per me.

GIAN PIERO BRUNETTA

Col suo sesto lungometraggio, Rocco e i suoi fratelli, Visconti affronta di nuovo temi della realtà contemporanea, portando l'attenzione sul fenomeno dell'emigrazione interna favorito dal grande processo di industrializzazione del Nord. Ancora una volta, di fronte al fermento politico, culturale e sociale che attraversa il paese, egli decide di offrire il suo contributo conoscitivo e interpretativo e puntualmente la sua opera, come una calamità, attira polemiche e lascia un segno che va ben al di là dello spazio cinematografico. È questa anche l'ultima volta in cui il regista diventa il bersaglio privilegiato di attacchi da parte di forze conservataci che, attraverso di lui, puntano a colpire per estensione la politica delle forze di sinistra. Negli anni successivi il bersaglio privilegiato diventerà Pasolini, mentre a Visconti si cominceranno a tributare onori e conferire premi sempre negati in precedenza.
Rocco e i suoi fratelli è il punto d'arrivo di un'idea di cinema che aveva identificato nel Sud il mito delle origini e delle radici più profonde della realtà italiana. Dopo la catabasi neorealista comincia, in una nuova fase di industrializzazione forzata, la marcia di risalita. Questo significa anche abbandono, tradimento nei confronti dei propri caratteri originari: per il regista la giusta dimensione implicita per, la rappresentazione del fenomeno non può essere che la tragedia. Rocco e i suoi fratelli è infatti una tragedia in cinque atti, ognuno dei quali prende il nome da uno dei figli (Vincenzo, Simone, Rocco, Ciro, Luca), più un breve prologo che racchiude gli elementi necessari alla comprensione del contesto.
Il prologo è costituito dall'arrivo della famiglia Parondi a Milano: le prime immagini, che scorrono lungo i titoli di testa (con la macchina da presa che panoramica dall'alto in basso fino a incontrare la cancellata oltre la quale si vedono i treni in arrivo), marcano la barratura di separazione tra lo spazio indefinito dell'arrivo e quello della città alle spalle della macchina da presa.
Attraverso l'evidenza simbolica di queste immagini Visconti esegue il tema dell'arrivo, che appare sempre di più come mossa d'avvio obbligata.
Il motivo, qui come altrove, ha valore di ripresa archetipica che si sviluppa con coerenza da Ossessione a Vaghe stelle dell'Orsa, fino a Morte a Venezia in direzione non naturalistica. La luce della strada assolata di Ossessione è subito contrapposta all'ombra avvolgente e carica di erotismo della locanda, mentre in Rocco e i suoi fratelli le masse cromatiche sono fortemente contrapposte, quasi eliminando la scala di sfumature tonali tra il bianco e il nero. In Vaghe stelle dell'Orsa il passaggio improvviso dalla luminosità dei paesaggi toscani all'ombra e penembra del palazzo paterno ha il compito di far immediatamente risucchiare la protagonista nella dimensione della tragedia. Quanto all'arrivo di Aschenbach in Morte a Venezia, Visconti cerca di raggiungere, mediante l'identificazione dello sguardo della macchina da presa con quello del suo protagonista, una sintesi assoluta: l'occhio di Aschenbach (che giunge nel bacino di San Marco, via mare) si posa prima sui tetti della città, scorrendovi lentamente, poi sulle cupole, poi sui gondolieri, che trasportano un feretro e paiono fondersi con l'acqua.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Due passioni stilistiche (il realismo e il melodramma), un tema di fondo (il dissolvimento dei legami che tengono unita la famiglia), una filosofia vitalistica che lo spinge su posizioni di sinistra, uno scetticismo che la sottende e, in parte, la contraddice. Tutto ciò entra nella "cultura di questo rampollo d'una delle più antiche famiglie italiane (padre latifondista, madre appartenente alla aristocrazia industriale milanese), che, dopo il servizio militare in cavalleria, coltiva il teatro e la musica, alleva cavalli, a Parigi è assistente di Jean Renoir. Il suo primo film avrebbe dovuto essere una riduzione del verghiano I Malavoglia, ma la censura fascista lo vieta. Ripiega su un romanzo dell'americano James Cain (sono gli anni in cui la letteratura USA conosce una capillare diffusione in Italia) ricavando da Il postino suona sempre due volte una storia di passioni degradanti, ambientata nel Polesine. È il 1943, e Ossessione è la memorabile scoperta di una umanità avvilita e torpida, di personaggi per il cinema italiano inauditi (la malmaritata Giovanna, il vagabondo Spagnolo, l'abulico Gino).

GUIDO BEZZOLA
Cinema Nuovo

Non sempre è lecito credere alla effettiva verità di certe derivazioni che la critica scopre negli autori presi in esame; tuttavia, nel caso di Vi sconti, non mi sembra si possa negare l'influsso che a certi modi della su: regia è venuto da Jean Renoir, di cui egli fu per qualche tempo l'assistente Proprio a base del mondo e della concezione artistica di Renoir sta infatti una visione della vita frammentaria e non unitaria, dispersiva e non concentrata. Renoir ha visto bene che, generalmente, il processo artistico tende a isolare ed esaltare certi fatti, lasciando il restante nell'ombra, e agende quindi con un criterio di scelta; la realtà, invece, pone tutto sullo stesse piano, avvolgendo le cose in una fittissima rete di relazioni maggiori e mi. noci, a cui non bada chi e preso unicamente dalla convenzione scenica.
Per questo i registi mediocri sfornano film così tristemente uguali l'une all'altro; perché badano unicamente alla situazione in sé, situazione che ben difficilmente può variare, e trascurando per dir così gli accidenti di essa, quegli accidenti che, adeguatamente studiati e interpretati, sommandosi insieme in un gran numero finiscono per dare alla scena stessa una risonanza e una quantità di significati che altrimenti non avrebbe certo avuto. Di qui viene la singolare impressione di pienezza di vita che danno allo spettatore certi film di Renoir: dall'attento esame di un mondo poliedrico, le cui molte facce riflettono ciascuna un particolare destinato a ricomporsi in una superiore unità. Siamo decisamente all'antitesi della concezione classica e della vita e dell'arte, siamo in piena modernità, di fronte al valore riconosciuto uguale di tutte le cose del mondo rispetto all'occhio che le guarda.

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