Luciano Emmer è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, assistente alla regia, è nato il 19 gennaio 1918 a Milano (Italia) ed è morto il 16 settembre 2009 all'età di 91 anni a Roma (Italia).
«Carosello»: poche parole hanno subito negli anni un cambiamento di senso più pro fondo. Fra i "responsabili" principali di questa mutazione c'è il regista Luciano Emmer, morto ieri mattina all'ospedale Gemelli di Roma all'età di 91 anni.
Era nato a Milano quando ancora rombava il cannone della Grande guerra, nel sideralmente lontano 1918. E sideralmente lontano, pensando alla parola "Carosello", ci sembra quella sua invenzione televisiva, una vera e propria rivoluzione (anche questa, come parola che ha subito cambiamenti di senso. non c'è male...) che in un colpo solo modificò il modo di fare la tv, la pubblicità, e la pubblicità in tv.
Già, Carosello. Pronunciate queste poche lettere a un giovane, e al massimo penserà a un movimento coreografico di motociclette, o a una serie veloce d'immagini in movimento. Ma ditela a chi ha i capelli grigi o bianchi. E immediatamente vi parlerà di quelle magiche sere davanti alla tv in bianco e nero, a quegli spot pubblicitari che erano perfetti mini-film, visti da tutta Italia alla fine del tg.
Luciano Emmer è stato il re di questi mini-film, dirigendo la "sigla cult” del primo Carosello, quella con i siparietti che si aprivano uno dopo l'altro accompagnati da un'orecchiabilissima musichetta. Ma non solo: sono suoi, fra i tanti, spot come quello di Walter Chiari («Solo io mi chiamo Yoga»), di Carlo Dapporto (Durban's) e di Dario Fo («Supercortemaggiore, la potente benzina italiana»).
Emmer, però, è stato anche un regista di primo piano di pellicole "importanti". Non c'è bisogno di essere storici del cinema per conoscere e gustare i suoi film. Emmer, proprio Emmer, è fra i protagonisti delle magnifiche mattine estive di Raitre o La 7, quelle con i film in bianco e nero del momento migliore del nostro cinema. Quei film che, se ne vedi un solo fotogramma, non te ne stacchi più fino alla fine: Domenica d'agosto, splendido esordio del 1950, tra neorealismo e commedia di costume; Parigi è sempre Parigi e, soprattutto Le ragazze di Piazza di Spagna, con una meravigliosa Lucia Bosè.
Da Il Sole-24 Ore, 17 settembre 2009
A 85 anni per Luciano Emmer comincia una nuova giovinezza. La terza, la quarta. Non si sa quante volte nella vita abbia cominciato e ricominciato, cambiato genere e tipologia. Ma mai mestiere. Emmer è sempre stato un regista: “Ma sarebbe stato meglio fare l’idraulico come voleva la mia mamma”. Dai suoi capolavori degli anni Cinquanta Una domenica d’agosto, Terza liceo Le ragazze di piazza di Spagna,agli stupendi film d’arte su Giotto o Picasso fino al più recente sulla Galleria Borghese Bella di notte, ai tanti Caroselli che ha firmato quando l’industria del cinema italiano e la censura bigotta da monocolore democristiano gli ha letteralmente stroncato la carriera.
Il casus belli fu proprio La ragazza in vetrina con Marina Vlady nel ruolo di una prostituta olandese e Bernard Fresson in quello di un minatore italiano. Una delicata storia di vita più che d’amore che parlava senza toni retorici di emarginazione e di emigrazione. Ma il troppo realistico incontro tra i due in una delle malfamate vetrine di Amsterdam non piacque alla commissione di censura. “Volevano che rigirassi la scena con la Vlady sciolta in lacrime dal pentimento che chiede perdono al minatore buttandosi in ginocchio e dicendo letteralmente: “Tu sei un vero eroe, un lavoratore io invece una miserabile che vende il proprio corpo”. Ridicolo, mi sono rifiutato. Pagando duramente.
Ora però siamo alla super-riabilitazione. E a Luciano Emmer si chiede il dono dell’ubiquità. Da una parte il film della colpa proiettato sulla piazza del New Market come è la bella abitudine di “Passeggiate romane”(a cura di Paolo Luciani e Cristina Torelli) che da anni, in nome del vero amore per il cinema, portano i film lì dove sono stati girati dalla Roma di Pasolini e Rossellini alla Parigi di Bertolucci.
Dall’altra la Biennale di Venezia che gli rende omaggio con il prestigioso Premio Pasinetti, presentando in anteprima L’acqua... il fuoco, l’ultimo film dell’irrefrenabile Emmer (che nel frattempo è pronto a girarne altri due, tra settembre e la prossima primavera). Ed è un film come sempre fedele alla linea di un realismo colto, di piccoli sentimenti che cambiano il corso delle esistenze, di minimalismo magico in cui personaggi danzano leggeri in una ronde di intrecci, brevi incontri, coincidenze.
E come sempre al centro c’è la donna. Quella eterna non quella postmoderna e nevrotizzata. In questo caso Sabrina Ferilli ne interpreta addirittura tre. Tre episodi, ognuno con un nome femminile (Stefania, Elena e Stella), ognuno con luoghi e tempi diversi: un appartamento popolare della periferia di Torino. Un ponte sulla Senna. La roulotte di un piccolo circo in Lussemburgo. In questi scenari abitano personaggi di confine. C’è una bella signora abbandonata dal marito e dai figli che festeggia da sola il compleanno. Un clochard che salva una suicida prima dalle acque del fiume poi da se stessa. Equilibristi, clown e Diabolique (un come sempre fantastico Giancarlo Giannini): mangiafuoco invecchiato che rischia la pelle ogni volta che porta in scena il suo solito numero.
Sono tre veri racconti, perché Emmer spiega che non ama lavorare sulla sceneggiatura e sulla rigidità di dialoghi e story board. Lui preferisce scrivere una storia e poi metterla in scena per farla vivere davanti a una macchina da presa con la capacità, che tutti gli riconoscono, di trasformare gli attori come plastilina. Non a caso ne ha lanciati talmente tanti dal giovane Mastroianni a Lucia Bosè.
La prossima storia che è già pronto a girare è già un libretto. Un piccolo volume bianco con un frontespizio azzurro pastello, titolo: Angelo Express: due ali di fantasia. Una favola, che ha al suo centro un eroe, Antoine de Saint-Exupéry, e una grande passione: quella di volare e sognare. Che forse non è poi così lontana dal girare un film.
Da Il Venerdì di Repubblica, 22 settembre 2003
Abbiamo l’impressione che ben pochi (è un modo retorico per dire nessuno) si siano accorti del nuovo corso del nostro cinema, che si sta avviando, senza far troppo chiasso, per una strada che soltanto tre o quattro anni fa sarebbe stata impensabile. Aperta da Senso, da Giulietta e Romeo e da La strada, codesta via si rivela fervida di risultati. Da principio, alludiamo al primo dopoguerra, ci fu un distacco assoluto tra le tre o quattro pellicole che conquistavano i pubblici di tutto il mondo e i prodotti del sotto-proletariato industriale: la stessa differenza, press’a poco, che corre tra i romanzi di Moravia e quelli di Liala. Il realismo nella sua estrema accezione che, dietro l’influenza intellettuale di Zavattini, si estrinsecò in Umberto D. e nell’episodio di Caterina Rigoglioso di Amore in città, pareva difatti escludere qualsiasi compromesso con il cinema commerciale, almeno di corrente artigianato. Un po’ com’era successo nella letteratura di anteguerra che non offriva nessuna possibilità di compromesso o di intesa tra la prosa di James Joyce e quella, si fa per dire, di Maurice Bedel, vincitore con un romanzetto elegante e impudico di un premio Goncourt. I fasti di Lilia Silvi parevano organici al nostro cinema molto più delle «trouvailles» del Visconti di Ossessione.
Ora si respira altr’aria. In Senso, Visconti ha messo a profitto la lezione de La terra trema avendo imparato che il cinema, con i suoi altissimi costi, non può permettere a lungo i fallimenti del «box office»; d’altra parte i produttori più svelti hanno capito che i film di bassa levatura non possono essere accèttati dal mercato straniero dato l’alto standard industriale dei prodotti hollywoodiani. Si è così giunti ad un utile compromesso: i risultati della «nuova scuola» sono stati adattati a pellicole di breve respiro artistico ma di notevole dignità artigiana. Aiutati dalla giusta prospettiva del tempo, ci accorgiamo che altro non significava il «western» nazionale del Germi di In nome della legge come l’elegante capziosità psicologico-mondana di Cronaca d’un amore di Antonioni. Ovviamente, alla nuova dimensione dèl gusto, approvata, come subito si vide, dal pubblico delle grandi città, corrispondeva l’epifania delle «stars», fenomeno che non si riscontrava in Italia dal tempo del muto. Gina Lollobrigida, Eleonora Rossi Drago, Silvana Mangano, Sofia Loren, Rossana Podestà sono il risultato di un progresso nel senso dell’industria molto più che in quello dell’arte. I registi di Paisà, di Sciuscià, di Sotto il sole di Roma non avevano, a rigore, bisogno di attori. Fu Visconti a rompere il ghiaccio dopo lo scacco commerciale de La terra trema; è chiaro infatti che la Magnani di Bellissima non è che il preludio della Valli di Senso.
Sempre pronto, sensibile com’è, a cogliere il significato di una situazione, Alessandro Blasetti ci ha dato con Peccato che sia una canaglia un film che si allinea con Pane, amore e fantasia vincendolo sul piano del gusto, ma restandogli inferiore nella sfera della «trovata». Il «sex-appeal»(altro segno importante) di Sofia Loren è molto più perentorio di quello di Gma Lollobrigida. Meno perfetta fisicamente, Sofia Loren è, per così dire, più vicina al modello pandemio della Venere d’oggi. Blasetti, con l’aiuto del testo moraviano e dell’intelligente partecipazione degli attori Mastroianni e De Sica, l’ha dotata di una linea psicologica, di un carattere preciso. Bugiarda, proterva, donnissima, la Sofia di Peccato che sia una canaglia ha grosse possibilità di avvenire. È una idea femminile destinata a conquistare mezzo mondo. In parole povere è una delle ipotesi amorose che i maschi si pongono, quando sono giovani, con più dolorosa perplessità. Blasetti ha dato un volto a un fantasma muliebre, che restava vivace ma indistinto nei cuori.
Pareva dunque nell’immediato dopoguerra che una «raja» non meno flessibile di quella che doveva separare i beni spagnoli dai portoghesi, dovesse dividere le pellicole di qualità da quelle bassamente commerciali. Pareva, sinché si presentò, corretto, tranquillo, con quella sua aria ingegneresca, Luciano Emmer. Sembrava che con lui i conti dovessero essere presto fatti, in una definizione affrettata: un documentarista, si disse, un diligente documentarista, che ha lasciato gli alti fatti dipinti sui muri da Giotto, per applicarsi ai fatti, piccoli, della vita borghese.
Troppo facile, come dimostra il cammino del regista da Domenica d’agosto al recentissimo Camilla. Per capire il fenomeno bisogna partir da lontano, e lo faremo con il minimo possibile di pedanteria. Nel nostro paese, dove la cultura, come ognun sa, ha tradizioni auliche ed illustri, è piuttosto difficile una democrazia delle arti. In parole povere, mentre è sin troppo facile essere mediocri, pedissequi imitatori di qualcuno o di qualche cosa, appare straordinariamente arduo essere originali senza chiasso, originali con modestia. La gente, vogliamo dire quelli che hanno in mano il pallino (i francesi direbbero «le haut du; pavé») non te lo permette. Si inchina davanti al genio clamoroso, di fronte al grido ostinato; ti acclama quando rompi il silenzio con un’elegante disquisizione retorica, commentata da versi supremi, ma non sei accettato quando abbandoni gli stellati cieli, le grandi idee, i conflitti metafisici, per occuparti dell’umile, concreta vita d’ogni giorno. Così nelle scuole si parlerà appena di Folgore, o del Bandello, o del grande Cattaneo. Perché non gridarono le loro fedi (o i loro amori...) sui tetti.
Così schivo e misurato com’è, il nostro Emmer non griderà mai, statene certi. Egli porge, con una dignità e perizia tecnica che nessuno, per fortuna, ancora gli ha contestato, le sue piccole verità quotidiane. Le sue scoperte filmiche son così semplici da apparire poco meno che scandalose sia agli scassati esteti dello «specifico filmico» come ai piccoli Sartre della «revisione critica». Emmer dice che il pane non è altro che pane; una adolescente, una ragazza; un viaggio in treno, una faccenda emozionante per un sedentario; una domestica dal grande cuore, un personaggio che, ai fini artistici, può apparire più importante di un banchiere o, si fa per dire, del ministro dei Lavori pubblici. Emmer è un moderno per il quale i problemi posti dalla metafisica non sono argomenti di lavoro. Egli è il poeta della «gentetta», delle categorie, dei ceti, perché i suoi individui sono originali non per essenza ma per l’attimo che li distingue. Una volta sposati, se mai lo faranno, gli adolescenti di Domenica d’agosto diventeranno probabilmente degli sposi litigiosi e mediocri; gli studenti di Terza liceo dei professionisti avidi di denaro e di fama; mentre non è affatto da escludere da parte delle belle giovani che frequentano la scalinata di Trinità dei Monti (Le ragazze di piazza di Spagna) qualche brutto scivolone. Né, siamo franchi, andremmo con cuore tranquillo a farci curare l’asma dal medico di Camilla. La poesia dei tipi evocati dall’occhio e dal cuore partecipi di Emmer sta tutta nel momento patetico e elegiaco in cui li ha portati, momentaneamente, l’avventura del vivere. Per i ragazzi di Domenica d’agosto e di Terza liceo è la rapida vicenda della giovinezza, per i personaggi di Parigi è sempre Parigi, de Le ragazze di piazza di Spagna, di Camilla, si tratta di una faccenda ancora più labile; un viaggio e breve soggiorno in paese straniero, un cambio o una conferma di innamorato, una crisi coniugale.
Regista di uomini e donne non qualificati, non importanti, ma di buona volontà, Luciano Emmer non può sentire le «istanze», i problemi, il dramma della «condizione umana». Nelle sue mani tutto diventa quotidiano, cioè normale. Invano chiedereste ai suoi protagonisti il nome del presidente del Consiglio: essi sono tenuti a conoscere solo quello del caporeparto, dell’insegnante, del droghiere all’angolo della strada. A forza di semplicità, Emmer giunge al paradosso di farci apparire più importante il bidello del preside, perché quest’ultimo non ha posto nell’universo dell’artista, e perciò «non si vede».
Per nulla metafisico, come già s’è detto, Luciano Emmer non ha alcun desiderio delle cose ignote, per raggiungere, paradossalmente, una qualità magica proprio in quella dimensione della realtà che egli aveva in animo di mostrarci, nuda e cruda, al suo stato aurorale, abbandonandola appena accennasse a cambiare i propri attributi: da normale a metafisica.
Uomo del settentrione, Emmner respinge istintivamente la tentazione dell’eloquenza come quella del fasto. È un curioso impasto di sapienza visiva e di innocenza letteraria; una sorta di De Amicis innamorato di ,Giotto e di Leonardo. La sua originalità (egli ha un lontano consanguineo nel Becker di Èdouard et Caroline e di Rendez-vous de juillet) è così disarmata che fa apparire povertà la mancanza di una aggettivazione che gli sembra inutile. Mentre lascia sconcertati i recensori, Emmer ha conquistato il pubblico. Per quest’ultimo Emmer «esiste».