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Rassegna stampa di Henri-Georges Clouzot

Henri-Georges Clouzot. Data di nascita 20 novembre 1907 a Niort (Francia) ed è morto il 12 gennaio 1977 all'età di 69 anni a Parigi (Francia).

PIETRO BIANCHI

Alcuni avvenimenti nella biografia del regista Henri Georges Clouzot mandano una luce rivelatrice. Se a regola, in uno studio serio, si può trascurare il fatto che il padre era «commissaire priseur», qualcosa che corrisponde ai nostri periti nelle aste pubbliche, non può essere senza significato che il nostro si sia diplomato in scienze politiche dopo gli studi di diritto, che abbia trascorso cinque anni in sanatorio; che abbia, per anni undici, convissuto con l’attrice più «sexy» del cinema francese, Suzy Delair, in un edificio del quartiere di Notre-Dame; e che infine sia stato «epurato» nel 1944 per collaborazionismo sino alla «rentrée»di Quai des Orfèvres, cui toccò un premio a Venezia (1947).
Se, ripetiamo, si deve rifiutare la tentazione «balzachiana» di vedere nella professione paterna: oggetti, quadri, mobili, libri, intimità offerti al pubblico incanto, una sorta di prefigurazione, un «avant goût», delle crudeltà del Corbeau e di Manon; non è lecito rifiutarsi alle suggestioni del sanatorio, di Suzy Delair e dell’epurazione. Del resto tutto si lega, come dicono appunto i francesi: il desiderio della «verità effettuale» nella sfera della politica; l’amore per una donna, del tipo di cui si dice che è femmina almeno tre volte; la malattia; dopo anni di sterile attesa, 14 possibilità di esprimersi ma approfittando delle patrie sciagure. Sembra lecita a Clouzot l’affermazione: «Io sono Pierre Fresnay nel Corvo; io sono Jouvet in Quai des Orfèvres; io sono Auclair-Desgrieux in Manon...»
Nell’universo di Clouzot l’idiozia, la vanità, la ferocia, la lussuria fanno facilmente premio sulle cose oneste, umili, limpide e buone; mentre la natura, stelle vivide in un cielo d’agosto, onde del mare nella «palude» mediterranea, terre coltivate, pascoli, greggi, prosegue, indifferente, il proprio arcano cammino. Nelle due grandi linee della cultura francese, Descartes e Pascal, Corneille e Racine, Valéry e Proust, chiarezza di meriggio o tenebra fonda, cieco slancio vitale o chiaro giudizio; personaggio d’un dialogo eterno, «predestinato», Clouzot ha scelto da giovane la sua via: ha scelto Pascal contro Cartesio, il cavaliere francese che camminava di così buon passo, come ha detto Péguy, forse perché Pascal, che ha insegnato «le bon usage des maladies», ha conosciuto le fallacie del corpo; il tenero Racine, cui sarebbe piaciuta Cécile Aubry, invece di Corneille, tipico personaggio della «resistenza», cioè dell’enfasi. Come più tardi, autore cinematografico, rifuggirà dai maestri autoctoni, dal cartesiano René Clair, dal corneliano Renoir, inclinando verso i maestri dell’introspezione psicologica, E.A. Dupont, l’israelita tedesco che ha firmato Variété e Il fortunale sulla scogliera (le cui eroine, Lya De Putti e Tala Bireil, risultano caratteristici anticipi delle «vamp» clouzotiane: Lya, dell’Aubry di Manon; Tala, della Delair di Quai des Orf~vres), e Erich von Stroheim, il terribile austriaco di Sinfonia nuziale. A questa stregua, e dietro tali insegnamenti, Clouzot non ha potuto meravigliarsi né della malattia, Cassandra della morte fisica, né dell’epurazione, simbolo della morte sociale. Dovendo scegliere tra «onestà»patriottica e «onestà» personale, Clouzot, eroe moderno, che ha almeno sentito parlare del relativismo delle concezioni etiche e della «morale di classe», ha preferito correre il rischio di passare quasi per traditore che rinunziare ad esprimersi. E paradossalmente, forse per una di quelle «astuzie della ragione» di cui parla Hegel, egli ha trovato più liberalità nel curioso personaggio Otto Abetz, Reichfiihrer della Francia, che nei «democratici» produttori degli anni di pace. Ma ora sembra giunto il momento di parlare del primo importante film di Clouzot, Il corvo.
È chiaro che in nessun regime borghese il soggetto del Corvo avrebbe avuto l’approvazione della censura. Non c’è bisogno d’esser passato, come il nostro Clouzot, per le «Sciences Po» per sapere che, per ragioni «morali», cinema e teatro sono ancora soggetti a censura in tutti i paesi del mondo. In parole povere si ammette nei paesi retti a democrazia che i due tabù principali, politica e sesso, vengano trascinati nel fango nei libri e, dentro certi limiti, nei giornali, in quadri e in statue; ma non si ammette assolutamente che l’immaginazione di un autore trovi, sempre per travolgere i due tabù, sulla scena di prosa o nel cinematografo, l’ausilio di interpreti. In parole povere, sarà lecito a Miller o all’Aretino, al Lawrence di «Lady Chatterley» e al Sartre del «Muro», di scrivere e soprattutto di far stampare le -cose che hanno scritto, e a Francisco Goya di mostrarci l’invereconda «Maya desnuda» e al Canova i vezzi di Paolina Borghese; ma al cinema e al teatro mai ci accadrà di veder rappresentare certe verità spirituali e non spirituali, o di ascoltare certe invettive supreme. Potrà accaderci a teatro di sfiorare i tabù sessuali con certe scene dei «Parents terribles» di Cocteau o con, le «femmes nues», provviste tuttavia di un esile perizoma, del «Casino de Paris». Nel cinema, mai; non per nulla un tiranno dei nostri tempi lo ha definito «l’arma più forte». Una piccola audacia è bastata a render famoso Estasi, il mediocre film di Machaty; a render ancor più famosa la «donna nuda» del film, la bella boema Hedy Kiesler, che, chiamata d’urgenza a Hollywood, si fa chiamare Hedy Lamarr e, sempre bella e sempre cattiva attrice, finirà protagonista del Sansone e Dalila di De Mille. State pur certi tuttavia che non vedrete mai sullo schermo la scena, nel lawrenciano «Amante di Lady Chatterley», nella quale la eletta dama intreccia serti di violette sugli attributi più intimi del guardacaccia innamorato. È vero che per consolarci possiamo immaginare per giuoco chi potrebbe essere l’interprete di Lady Chatterley: Vivien Leigh, Deborah Kerr, Gree Garson? (L’autore dice che Lady Chatterley aveva colori naturali; di giorno, alla luce del sole, splendida, scadeva in abito da sera).

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Regista controverso, «scandaloso» e impertinente, giudicato in maniere opposte dai critici, accanito costruttore di marchingegni angosciosi a carattere ora giallo ora grand guignol, professionista impeccabile e duro «seviziatore» di attori e di maestranze, H.-G. Clouzot non ha mai nascosto di essere un uomo di destra e secondo atteggiamenti di destra ha sempre impostato le sue storie pessimistiche, feroci, talvolta sinistre. Voleva fare l'ufficiale di Marina, non poté per un difetto alla vista. Voleva essere diplomatico al servizio di un deputato conservatore, ma la salute lo tradì, costringendolo a trascorrere quattro anni in sanatorio e impedendogli in futuro un'attività regolare nel cinema. Esordisce come sceneggiatore e nel 1942 passa alla regia con un giallo di buona fattura (L'assassino abita al 21), nel quale Piene Fresnay, nei panni di un commissario, scopre una serie impressionante di delitti. Negativo e aspro è il giudizio sulla natura umana che ne emerge, e più ancora lo sarà in Il corvo (1943) che il regista gira durante l'occupazione per una società tedesca: una storia cupa che si svolge in una cittadina di provincia, sconvolta da uno stillicidio di lettere anonime. Per questo film Clouzot sarà, dopo la liberazione, radiato per sei mesi dall'industria. Non si arrenderà. Anzi, accentuerà l'umor nero e la sfiducia nell'umanità con quello che molti ritengono il suo capolavoro, Legittima difesa (1947), una storia poliziesca in cui si muove, con sardonica precisione; un vecchio ispettore (Louis Jouvet, eccellente) che vive solo, in compagnia di un orfanello.

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