Robert Aldrich è un regista, produttore, è nato il 9 agosto 1918 a Cranston, Rhode Island (USA) ed è morto il 5 dicembre 1983 all'età di 65 anni a Los Angeles, California (USA).
Parlare del regista Robert Aldrich è una operazione tra le più gradite che possano capitare a un critico cinematografico. Abbiamo letto tante volte della spietata «macchina» hollywoodiana, che lo scoprire che finalmente una nuova personalità s’è imposta, una personalità libera ed affascinante, mentre nulla toglie a ciò che sappiamo vero del «sistema», ci dice almeno che è sempre reperibile un pertugio. Come altrimenti sarebbero stati possibili i fenomeni che si chiamano Huston, Stevens, Wyler, Ray?
Aldrich ha una figura massiccia, spessi occhiali che nascondono uno sguardo poco rassicurante, freddo come un lago alpino, e una, almeno per noi, inspiegabile antipatia per Humphrey Bogart. Ha diretto da principio brevi film per la televisione interpretati da Dan Duryea. Ma ha fatto molte cose nel cinematografo, impiegato di amministrazione e assistente di Renoir per lo splendido film L’uomo del Sud.
Aldrich è stato rivelato agli italiani da quattro film, tutti interessanti e vivi, ma di diversa importanza: L’ultimo Apache (Burt Lancaster, Jean Peters), Vera Cruz (Gary Cooper, Burt Lancaster), Il grande coltello (Jack Palance, Rod Steiger) e Un bacio e una pistola, interpretato da attori di secondo piano.
Robert Aldrich trattiene subito la nostra attenzione per il senso univoco dei suoi film. Pur diversissimi di contenuto e anche di genere, essi rivelano un innato amore per le situazioni drammatiche, nelle quali vengono affrontati i problemi fondamentali della vita, e per la verità oggettiva. Aldrich è in questo senso un realista, sebbene il suo film più geniale, Un bacio e una pistola, si apparenti all’espressionismo tedesco, e soprattutto a certi film di Fritz Lang. Amare i contrasti drammatici e la verità vuoi dire urtare inevitabilmente contro i muri dell’ortodossia hollywoodiana. Si richiede infatti a scrittori e registi che desiderano esprimere nel cinematografo contrasti fatali che almeno essi lancino, all’epilogo, una parola di speranza agli spettatori. La speranza, una virtù essenziale per le società attuali, è del tutto assente dalle pellicole di Aldrich, con la sola esclusione de L’ultimo Apache. Ma la parola speranza che nasce alla conclusione di questo film, ha un significato evasivo perché nel lungo corso dell’opera sono state espresse verità tanto brucianti che era inutile aggiungere qualcosa di nuovo, a costo di far traboccare il vaso dei giusti risentimenti.
L’ultimo Apache appare né più né meno che una difesa degli indiani non come tali ma nei rapporti con la civiltà che li opprime. Il racconto di come il protagonista evade dalla «riserva», di come è incatenato e di come fugge ancora ponendo la sua limpida chiarezza di barbaro come un termine non superabile dell’equazione pellerossa-uoni~6Th~ian-co, è sufficiente a dare a L’ultimo Apache un acceno di verità inconfondibile. È anche vero che, forse perché tutto preso dalla novità del suo assunto, Aldrich non è stato, ne L’ultimo Apache, così grande artista come negli altri tre film che abbiamo nominato. Malgrado certe durezze, malgrado la perfetta linea compositiva, L’ultimo Apache appare un po’ pedantesca, più didascalico che appassionato.
L’ironia di Robert Aldrich fa invece la sua trionfale apparizione in Vera Cruz, che è la storia di due amici-nemici al tempo della tragica avventura di Massimiliano nel Messico. Gary Cooper è il puro avventuriero, ormai sradicato da ogni interesse dopo il fallimento della sua parte nella guerra di secessione; mentre Burt Lancaster è il briccone simpatico, il fuorilegge che non ha paura di nulla, nella migliore tradizione dei film western. Non solo Aldrich ha avuto la poeticissima idea di portare il contrasto tra i due protagonisti in un mondo assurdo come quello che fu rappresentato dal breve regno di Massimiliano; ma fu sua l’intuizione felicissima di mostrare nel non gentiluomo dei due avventurieri proprio colui che si rivela capace di una generosità immensa, di una nostalgia del bene tale da vanificare in un gesto il senso e l’esperienza di tutta una vita. C’è qualcosa del Conrad dei romanzi d’avventure più mossi e meno impegnati con la psicologia slava, in Vera Cruz: che ricorda infatti tipici testi di Conrad letti nei pomeriggi d’estate: «La freccia d’oro», «Romanzo», ecc...
Il colore acceso della vicenda, le divise comiche dei soldati europei in quel paesaggio affocato, il fragore delle armi e la sete dell’oro sono per il regista gli elementi di una commedia che resta tale anche se si conclude tragicamente. Gary Cooper se ne va dopo la battaglia vinta, dopo l’oro conquistato, mentre la donna gli rivolge un ambiguo invito. Egli ha ucciso l’unico uomo che lo poteva capire. Un dialogo di una umanità straziante, anche se di parole rare e di gesti consueti, è stato interrotto per sempre. Una solitudine amara e non revocabile sarà il castigo di chi ha sparato per primo.
Il discorso per Il grande coltello può essere breve. Molti non hanno approvato l’acre polemica contro Hollywood. Hanno detto che si tratta di un caso troppo particolare perché possa trasformarsi in un giudizio. Osservazione vera, se non sapessimo che Aldrich, ancora una volta, ha scelto il testo di Odets non con l’idea di spiantare la capitale del cinema ma solo perché gli interessavano i personaggi e le loro vicende. L’originalità de Il grande coltello consiste in tre caratteri: quello di Rod Steiger, il produttore disposto a ogni bassezza pur di non farsi sfuggire il divo che gli procura montagne di dollari; l’attricetta raffigurata da Shelley Winters, che non s’accorge della trappola mortale in cui viene chiusa e che si dibatte come un bambino nelle spire del drago; e quello dell’agente del produttore, Wendell Corey, che non può essere un delinquente perché è stato in guerra poco meno che un eroe. Siamo anche noi perfettamente d’accordo sul fatto che questo film appassionante può offrire il fianco a osservazioni ed a critiche. È concitato, veemente, esagerato e forse un tantino confuso. L’impianto teatrale conferisce pure una certa fissità ai personaggi, che si muovono in un’aria greve. Però il film c’è, vario e potente.
Le nostre preferenze vanno sinora al film che Aldrich ha dedotto da un romanzo del romanziere popolare Mickey Spillane: Un bacio e una pistola. Il regista ha preso il rozzo intreccio dello scrittore poliziesco e se ne è servito per offrirci un film allucinante, denso di significati e di trovate, condotto con una sapienza stilistica senza pari. È per Un bacio e una pistola che sembra lecito scomodare tutta una tradizione di violenza cinematografica che parte dal Fritz Lang de Le spie per giungere allo Stroheim di Luna di miele e al Welles de La signora di Sciangai. È una parentela spirituale e stilistica di immediata evidenza: nutrita, si di-rebbe, di quel fantastico della vita sociale per cui Balzac appare nello stesso tempo narratore verista e visionario.
L’impasto è di prim’ordine, opera di una personalità estremamente originale. E particolarmente in Un bacio e una pistola è facile incontrare ad ogni passo donne in abiti di leggera eleganza estiva, uomini come tutti, direttori di gallerie d’arte moderna, cantanti, trafficanti, tipi della più varia umanità, implicati in vicende del tutto gratuite sul piano della comune esperienza. È come un leggerissimo ordito che salda due sostanze diverse: solo una estrema attenzione o la lente spessa dei ricercatore può scoprire l’incerta terra di nessuno dove finisce la realtà e comincia la ideologia, la polemica o il sogno.
Come s’è detto, Robert Aldrich ha da dire alcune cose che gli premono molto; Egli ha dichiarato una volta che un regista può avere bisogno di perdere la pazienza e di inquietarsi per raggiungere tutta la sua piena capacità di espressione. È chiaro che il nostro regista è persuasissimo di condurre una battaglia su due fronti: contro i produttori dal cervello pieno di crusca che disprezzano il pubblico e l’intelligenza, e che perciò vogliono imporre prodotti stupidi, ovvii e deprimenti; e contro certi miti della società statunitense contemporanea che gli sembrano contrari al buon andamento delle cose, all’ordine civile della città.
Mentre è più che certo che, a parte le esagerazioni testuali de Il grande coltello, Aldrich ha una quantità di buone ragioni per prendere a mattonate i produttori californiani, non è altrettanto sicuro che egli riesca convincente per ciò che riguarda le restanti sue impuntature polemiche. C’è chi ha detto che Un bacio e una pistola è un grido di rivolta contro il poliziotto Hammer, contro la sua volgarità e ferocia. Noi abbiamo visto il film almeno tre volte, ma non ci pare che tale disprezzo appaia persuasivo. Il protagonista, pur non essendo molto intelligente, ha decisione e coraggio; quando ricorre a mezzi illeciti è sempre contro criminali di bassissima lega; e alfine sconfigge i suoi nemici e trionfa. Ci sembra proprio difficile dire che Aldrich disprezzi il suo eroe. Noi diremmo che gli è indifferente, e che discorre dei suoi casi come lo può fare un entomologo che si occupi di un insetto dalle abitudini curiose.
Qual è per esempio il significato ideologico di Vera Cruz, a parte una simpatia generica e appena accennata per gli insorti? Ricordiamoci invece che per L’ultimo Apache, il discorso di Aldrich si inserisce in tutta una recente «spiegazione» americana nei confronti del recente passato; mentre per Il grande coltello le ragioni astratte della ideologia si saldano perfettamente con i fatti privati del regista.