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Rassegna stampa di Massimo Troisi

Massimo Troisi è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 19 febbraio 1953 a Napoli (Italia) ed è morto il 4 giugno 1994 all'età di 41 anni ad Ostia (Italia).

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Viene subito in mente una battuta, tra lamentosa e buffa: “Perché siete tutti così sinceri con me? Cosa vi ho fatto di male?”. E un'altra: “Non emigrante, però, non emigrante”, ripetuta con l'insistenza di chi vuole smentire un destino storico o un luogo comune appiccicoso. Oppure lo rivedi quando, appoggiato a una porta, desolato, furente e insieme coraggiosamente conciliante, in Ricomincio da tre provava il suono del nome d'un futuro figlio, magari neanche suo: “Ugo. Ugo. Ugo.”. Tra i nuovi comici italiani di gran successo popolare, milanesi, romani, toscani, emiliani, era il solo napoletano, il solo erede d'una tradizione meravigliosa (però più vicino a Eduardo De Filippo che a Totò) e uno dei pochi capaci di raccontare la confusione, l'incertezza, la precarietà contemporanee nella vita delle persone giovani senza svenderla, senza incanaglire la realtà, senza involgarirsi nel turpiloquio, senza incarognirsi nella facilità. Tra i comici divenuti registi di se stessi e d'altri, era il meno disposto a ostentare vanagloria, sicumera, invidie, onnipotenza, disprezzo concorrenziale verso i propri simili; tra i comici più amati dagli spettatori italiani era fisicamente il più bello, il più riuscito come interprete anche di film altrui. Ed era bravo: i suoi dubbi, borbottii, inciampi, interrogativi, esitazioni, sospensioni, riuscivano più eloquenti delle battute brillanti, scattanti, pulite, spietate. Dopo il primo Ricomincio da tre, diretto a ventotto anni nel 1981, Troisi ha fatto pochi film, soltanto quattro, e spiegava bene perché: “Dipende essenzialmente da due motivi, la pigrizia e il pudore. Meglio, una pigrizia inquinata dalla paura della banalità e della superficialità: tutte le storie che invento mi sembrano sempre modeste, un po' inutili...”. All'inizio alla regia neppure pensava, progettava al massimo d'essere attore, ha scritto per I nuovissimi, il libro di Franco Montini; a un certo punto del suo lavoro televisivo e teatrale gli era venuta voglia di scrivere qualcosa di più che brevi monologhi o piccoli atti unici; Ricomincio da tre l'aveva immaginato come spettacolo da palcoscenico, lo convinsero a farne una sceneggiatura; per il film non si trovava il regista giusto (“la produzione non si fidava di un esordiente e io avevo paura di uno famoso”), finì per dirigerlo lui, “con spirito quasi donchisciottesco, con l'assoluta consapevolezza che c'erano molte buone probabilità che potesse andare male, con il conforto di pensare che, comunque, sarei potuto tornare al mio amato teatro”. Ricomincio da tre e Scusate il ritardo (1983) hanno per protagonista lui, ragazzo napoletano senza lavoro, ansiosamente imbranato nelle cose d'amore e spaventato dalle ragazze razionali e decise, impazientemente riottoso verso la famiglia d'origine eppure incapace di separarsene del tutto e di non rinnovarne i tic, straccamente trascinantesi con gli amici nel tempo della vita vuota. Non ci resta che piangere (1984), diretto e interpretato insieme con Roberto Benigni, ambientato per magia anche alla fine del Quattrocento, è uno scherzo mezzo riuscito e mezzo no. Le vie del Signore sono finite (1987) resta il più singolare tra i film di Troisi, una vicenda italiana sotto il fascismo, la storia di uno immobilizzato da una paralisi psicosomatica che riesce per amore a rimettersi in piedi: da molti venne giudicato incongruo, inesplicabile, ma non lo era poi tanto dato che il suo tema centrale risultava la malattia, quella malattia contro cui Troisi combatteva già da tempo andando a farsi operare al cuore negli Stati Uniti, tentando vanamente di avere cautela, di risparmiarsi. Pensavo fosse amore invece era un calesse, 1991, l'ultimo suo film, era una commedia antinuziale intelligente, ricca di grazia ironica e di sincerità sentimentale, un'analisi giustissima e divertente dell'impossibilità amorosa nella generazione trentenne: “Io non è che sono contrario al matrimonio, ma mi pare che un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi”. Troisi attore è stato molto bravo soprattutto nei film di Ettore Scola, che ha il merito di averlo capito e valorizzato come interprete. In Hotel Colonial di Cinzia Torrini era bello, con la sua abbronzatura e la sua canottiera da italiano emigrato nel rischioso esotismo latinoamericano, ostinato a insegnare il calcio ai ragazzi locali. Ma in Che ora é di Scola formava con Marcello Mastroianni una coppia padre-figlio finissima, malinconica e conflittuale: recitando molto bene l'aggressività sotterranea e ricattatoria del figlio insicuro, anticonsumista, anticarrierista, vittimista e tuttavia molto simpatico, mentre Mastroianni irrideva e riduceva con la propria recitazione masochista il personaggio del padre ricco, invadente, carrierista, consumista, maschilista e pure lui simpatico. La coppia, simile con varianti di emozioni e di ruolo (proprietario di cinema-proiezionista) era la stessa in Splendor, ma Massimo Troisi appariva soprattutto memorabile in un altro film di Scola del 1989, Il viaggio di Capitan Fracassa, come narratore dell'esistenza vagabonda dei comici, come Pulcinella sentimentale, divertente, saggio. E un poco triste: “Il teatro procura gioia a tutti, tranne a chi lo fa”.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Viene subito in mente una battuta, tra lamentosa e buffa: “Perché siete tutti così sinceri con me? Cosa vi ho fatto di male?”. E un'altra: “Non emigrante, però, non emigrante”, ripetuta con l'insistenza di chi vuole smentire un destino storico o un luogo comune appiccicoso. Oppure lo rivedi quando, appoggiato a una porta, desolato, furente e insieme coraggiosamente conciliante, in Ricomincio da tre provava il suono del nome d'un futuro figlio, magari neanche suo: “Ugo. Ugo. Ugo.”. Tra i nuovi comici italiani di gran successo popolare, milanesi, romani, toscani, emiliani, era il solo napoletano, il solo erede d'una tradizione meravigliosa (però più vicino a Eduardo De Filippo che a Totò) e uno dei pochi capaci di raccontare la confusione, l'incertezza, la precarietà contemporanee nella vita delle persone giovani senza svenderla, senza incanaglire la realtà, senza involgarirsi nel turpiloquio, senza incarognirsi nella facilità. Tra i comici divenuti registi di se stessi e d'altri, era il meno disposto a ostentare vanagloria, sicumera, invidie, onnipotenza, disprezzo concorrenziale verso i propri simili; tra i comici più amati dagli spettatori italiani era fisicamente il più bello, il più riuscito come interprete anche di film altrui. Ed era bravo: i suoi dubbi, borbottii, inciampi, interrogativi, esitazioni, sospensioni, riuscivano più eloquenti delle battute brillanti, scattanti, pulite, spietate. Dopo il primo Ricomincio da tre, diretto a ventotto anni nel 1981, Troisi ha fatto pochi film, soltanto quattro, e spiegava bene perché: “Dipende essenzialmente da due motivi, la pigrizia e il pudore. Meglio, una pigrizia inquinata dalla paura della banalità e della superficialità: tutte le storie che invento mi sembrano sempre modeste, un po' inutili...”. All'inizio alla regia neppure pensava, progettava al massimo d'essere attore, ha scritto per I nuovissimi, il libro di Franco Montini; a un certo punto del suo lavoro televisivo e teatrale gli era venuta voglia di scrivere qualcosa di più che brevi monologhi o piccoli atti unici; Ricomincio da tre l'aveva immaginato come spettacolo da palcoscenico, lo convinsero a farne una sceneggiatura; per il film non si trovava il regista giusto (“la produzione non si fidava di un esordiente e io avevo paura di uno famoso”), finì per dirigerlo lui, “con spirito quasi donchisciottesco, con l'assoluta consapevolezza che c'erano molte buone probabilità che potesse andare male, con il conforto di pensare che, comunque, sarei potuto tornare al mio amato teatro”. Ricomincio da tre e Scusate il ritardo (1983) hanno per protagonista lui, ragazzo napoletano senza lavoro, ansiosamente imbranato nelle cose d'amore e spaventato dalle ragazze razionali e decise, impazientemente riottoso verso la famiglia d'origine eppure incapace di separarsene del tutto e di non rinnovarne i tic, straccamente trascinantesi con gli amici nel tempo della vita vuota. Non ci resta che piangere (1984), diretto e interpretato insieme con Roberto Benigni, ambientato per magia anche alla fine del Quattrocento, è uno scherzo mezzo riuscito e mezzo no. Le vie del Signore sono finite (1987) resta il più singolare tra i film di Troisi, una vicenda italiana sotto il fascismo, la storia di uno immobilizzato da una paralisi psicosomatica che riesce per amore a rimettersi in piedi: da molti venne giudicato incongruo, inesplicabile, ma non lo era poi tanto dato che il suo tema centrale risultava la malattia, quella malattia contro cui Troisi combatteva già da tempo andando a farsi operare al cuore negli Stati Uniti, tentando vanamente di avere cautela, di risparmiarsi. Pensavo fosse amore invece era un calesse, 1991, l'ultimo suo film, era una commedia antinuziale intelligente, ricca di grazia ironica e di sincerità sentimentale, un'analisi giustissima e divertente dell'impossibilità amorosa nella generazione trentenne: “Io non è che sono contrario al matrimonio, ma mi pare che un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi”. Troisi attore è stato molto bravo soprattutto nei film di Ettore Scola, che ha il merito di averlo capito e valorizzato come interprete. In Hotel Colonial di Cinzia Torrini era bello, con la sua abbronzatura e la sua canottiera da italiano emigrato nel rischioso esotismo latinoamericano, ostinato a insegnare il calcio ai ragazzi locali. Ma in Che ora é di Scola formava con Marcello Mastroianni una coppia padre-figlio finissima, malinconica e conflittuale: recitando molto bene l'aggressività sotterranea e ricattatoria del figlio insicuro, anticonsumista, anticarrierista, vittimista e tuttavia molto simpatico, mentre Mastroianni irrideva e riduceva con la propria recitazione masochista il personaggio del padre ricco, invadente, carrierista, consumista, maschilista e pure lui simpatico. La coppia, simile con varianti di emozioni e di ruolo (proprietario di cinema-proiezionista) era la stessa in Splendor, ma Massimo Troisi appariva soprattutto memorabile in un altro film di Scola del 1989, Il viaggio di Capitan Fracassa, come narratore dell'esistenza vagabonda dei comici, come Pulcinella sentimentale, divertente, saggio. E un poco triste: “Il teatro procura gioia a tutti, tranne a chi lo fa”.

FULVIA CAPRARA
La Stampa

Quel senso malinconico della vita, quel modo stanco di prendere in giro se stesso, quella fatica di adattarsi ai disagi della giovinezza, ai problemi con l’universo femminile, con gli amici ossessivi, con gli stereotipi rifiutati della napoletanità. Guardate dopo sembrano tutte cose legate strettamente alla fine. Arrivata un giorno dopo la conclusione delle riprese dell’ultimo film Il postino, diretto da Michael Radford e interpretato dall’attore-regista al fianco di Philippe Noiret, Maria Grazia Cucinotta, Anna Bonaiuto. Portabandiera di una comicità in linea con l’esempio di Eduardo De Filippo, Troisi aveva fatto ridere, e moltissimo, fin dalle prime apparizioni nel Centro Teatro Spazio del suo paese, San Giorgio a Cremano, poi nella «Smorfia», il gruppo fondato con Lello Arena e Enzo Decaro, poi in tv, nel programma di Enzo Trapani «No stop». L’esordio folgorante sul grande schermo risale al 1981 e si chiama Ricomincio da tre. Anche lì le risate del pubblico scorrevano a fiumi, ma non derivavano mai dagli eccessi dei gesti, dagli sberleffi, dai travestimenti. Troisi faceva ridere quando ragionava pacato alla sua maniera, quando si scontrava con la realtà scontata per cui un napoletano in viaggio verso il Nord dev’essere per forza un emigrante. Quando all’amore con la fidanzata preferiva la cronaca della partita di calcio. Le celebrazioni, in questi giorni tanto copiose, non erano certo la sua passione. Si divertiva con gli amici, con le donne, con i colleghi di lavoro a cui lo legava particolare sintonia, come Carlo Verdone, o come Roberto Benigni, protagonista, al suo fianco, dell’esilarante Non ci resta che piangere. «Massimo era una persona vera, normale, umile - dice oggi la sorella Rosaria -. Non si è mai comportato da divo, tutt’altro. Gli piaceva stare in mezzo alla persone, sentirsi parte di loro. Ed è per questo che la gente, ancora oggi, a dieci anni dalla morte, continua ad amarlo». Un amore vero, documentato, di cui resterà traccia concreta nel libro intitolato Come un cesto di viole, raccolta di «pensieri, poesie e ricordi lasciati in questi anni sulla sua tomba». Rosaria ha conservato tutto per fare un volume che vuol essere «un omaggio floreale a mio fratello, come si fa nelle grandi occasioni». I proventi andranno all’Associazione italiana per le adozioni a distanza. Dice ancora Rosaria: «Mi manca Massimo, anche se il suo ricordo è ancora molto vivo in me. E mi manca non solo come uomo, ma come artista. Ogni tanto mi chiedo quante cose avrebbe ancora potuto fare in questi anni». Come lei se lo chiedono di certo i vecchi amici e i compagni di strada, quelli che decidono di celebrarlo con il silenzio, come Lello Arena, e quelli che, invece, preferiscono elencarne le qualità oppure si divertono a ricordare gli scherzi subiti o magari organizzati insieme. La sua città, San Giorgio Cremano, è già da giorni mobilitata per le manifestazioni legate al decennale della morte, prima fra tutte la mostra su «Massimo Troisi attore». Nelle sale della settecentesca Villa Bruno, la villa vesuviana sede del Premio Troisi, è possibile osservare i copioni originali della «Smorfia», le scenografie di celebri sketch come quello sull’arca di Noè, l’abito dell’animale fantastico «Minollo», la giacca indossata dal protagonista nel film d’esordio Ricomincio da tre e perfino la bicicletta dell’ultima opera, Il postino. E’ in preparazione anche un secondo libro, firmato dall’amico Alfredo Cozzolino, apparso in molti dei film di Troisi e oggi autista di professione: «Massimo era un genio, fin da quando eravamo bambini avevamo capito che lui, con la sua intelligenza, con la sua furbizia, aveva una marcia in più rispetto a ognuno di noi. Mi piacerebbe che anche gli altri, quelli che continuano ad amarlo, potessero conoscere chi era davvero Massimo». Ci sono anche dei programmi televisivi annunciati, e degli altri già pronti, rispettivamente di Vittorio Cecchi Gori e di Gianni Minà, dedicati all’attore e divenuti, negli ultimi giorni, oggetto di polemiche e dichiarazioni incrociate. Un gran fervore, insomma, anche affettuoso, anche appassionato, eppure in contrasto stridente con la figura dell’artista. Schivo, riservato, estraneo a qualunque tipo di volgarità, perfetto interprete dell’understatement alla partenopea. Uno che si ritrovava a pennello nella battuta chiave di Ricomincio da tre: «Voglio ricominciare da tre, pecchè due o tre cose ‘bbuone le ho fatte». Due o tre, niente di più.

RENATO NICOLINI
L'Unità

Mi sembra impossibile che siano già trascorsi dieci anni dalla morte di Massimo Troisi, come la sua morte mi è sempre sembrata assurda. Agli artisti è spontaneo continuare sempre a fare domande, perché fanno ormai parte della nostra immaginazione, del nostro io più interno. Aspetto le risposte dal suo prossimo film, anche se so che non potrà più arrivare.
Ho incontrato, durante la sua vita, cinque volte Massimo Troisi, ogni volta in modo molto diverso dalle altre. Non sono stati i soli incontri, ma la memoria ne è stata assorbita da quelli che, per me, hanno finito per assumere un valore simbolico.
La prima volta è stato l’incontro di un giovane spettatore cinematografico, laureato da non molto ma già oltre la soglia dei trent’anni, ricercatore universitario, segretario della sezione Trevi Campo Marzio del Pci, con la passione del cinema e con l’intermittente sensazione, non troppo gradevole, di non conoscere affatto la propria strada e di stare perdendo tempo, con un film. Ricomincio da tre mi è sembrato scritto da un fratello, perché narrava una storia tutta diversa dalla mia (l’emigrante di famiglia era stato mio nonno Giovanni, ma era ancora l’Ottocento), ma con questo nucleo intimo, di incertezza, resistenza e insieme disponibilità prevalente al cambiamento, in comune. E mentre tutto mutava, il figlio si sarebbe sempre chiamato, se non Ciro, almeno Ugo. Ho tanto amato quel film, che il titolo Scusate il ritardo del successivo mi sembrava fatto su misura per me.

RENATO NICOLINI
L'Unità

Mi sembra impossibile che siano già trascorsi dieci anni dalla morte di Massimo Troisi, come la sua morte mi è sempre sembrata assurda. Agli artisti è spontaneo continuare sempre a fare domande, perché fanno ormai parte della nostra immaginazione, del nostro io più interno. Aspetto le risposte dal suo prossimo film, anche se so che non potrà più arrivare.
Ho incontrato, durante la sua vita, cinque volte Massimo Troisi, ogni volta in modo molto diverso dalle altre. Non sono stati i soli incontri, ma la memoria ne è stata assorbita da quelli che, per me, hanno finito per assumere un valore simbolico.
La prima volta è stato l’incontro di un giovane spettatore cinematografico, laureato da non molto ma già oltre la soglia dei trent’anni, ricercatore universitario, segretario della sezione Trevi Campo Marzio del Pci, con la passione del cinema e con l’intermittente sensazione, non troppo gradevole, di non conoscere affatto la propria strada e di stare perdendo tempo, con un film. Ricomincio da tre mi è sembrato scritto da un fratello, perché narrava una storia tutta diversa dalla mia (l’emigrante di famiglia era stato mio nonno Giovanni, ma era ancora l’Ottocento), ma con questo nucleo intimo, di incertezza, resistenza e insieme disponibilità prevalente al cambiamento, in comune. E mentre tutto mutava, il figlio si sarebbe sempre chiamato, se non Ciro, almeno Ugo. Ho tanto amato quel film, che il titolo Scusate il ritardo del successivo mi sembrava fatto su misura per me.

RENZO SOLINAS
Il Giornale

L’understatement è una qualità anglosassone. Sta a indicare la minimizzazione, la non esaltazione, il non prendersi troppo sul serio, il saper valutare nel giusto rapporto ciò che si fa e ciò che se ne riceve. Nel decennale della morte di Massimo Troisi, fra un coro di elogi in stile latino - sentimentalismo, lacrime e retorica - si può solo dire che in quanto comico napoletano l’unico vero inglese era lui. Come si fa a non rimpiangerlo?
Quando era al culmine della popolarità gli chiesero se avesse sempre voluto fare l’attore, se si trattasse, insomma, di una vocazione o, magari, di una missione. Rispose così: «Come aggio accuminciato? Ecco... io ero ‘nu guaglione... ero andato a vedere un grande film. Si trattava di Roma città aperta, chillo grande lavoro di Rossellini. Me n’ero uscito da o’cinema con tutte quelle immagini dint’a capa e tutte quante le emozioni dentro. Mi sono fermato ‘nu mumento e m’aggio ditto... “Massimo, da grande tu devi fa’“o geometra”».

RENZO SOLINAS
Il Giornale

L’understatement è una qualità anglosassone. Sta a indicare la minimizzazione, la non esaltazione, il non prendersi troppo sul serio, il saper valutare nel giusto rapporto ciò che si fa e ciò che se ne riceve. Nel decennale della morte di Massimo Troisi, fra un coro di elogi in stile latino - sentimentalismo, lacrime e retorica - si può solo dire che in quanto comico napoletano l’unico vero inglese era lui. Come si fa a non rimpiangerlo?
Quando era al culmine della popolarità gli chiesero se avesse sempre voluto fare l’attore, se si trattasse, insomma, di una vocazione o, magari, di una missione. Rispose così: «Come aggio accuminciato? Ecco... io ero ‘nu guaglione... ero andato a vedere un grande film. Si trattava di Roma città aperta, chillo grande lavoro di Rossellini. Me n’ero uscito da o’cinema con tutte quelle immagini dint’a capa e tutte quante le emozioni dentro. Mi sono fermato ‘nu mumento e m’aggio ditto... “Massimo, da grande tu devi fa’“o geometra”».

News

Regia di Mario Martone. Un film con Massimo Troisi. Da giovedì 23 febbraio al cinema.
Regia di Alessandro Bencivenga. Un film con Lello Arena, Cloris Brosca, Massimo Troisi, Gerardo Ferrara, Carlo Verdone....
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