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Rassegna stampa di Alec Guinness

Alec Guinness (Alec Guinness de Cuffe) è un attore inglese, sceneggiatore, è nato il 2 aprile 1914 a Londra (Gran Bretagna) ed è morto il 5 agosto 2000 all'età di 86 anni a Midhurst (Gran Bretagna).

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Attore meraviglioso, guizzante camaleonte del cinema inglese, Alec Guinness è stato sullo schermo Marco Aurelio e Disraeli, Hitler e Freud, l'arabo principe Faisal e Papa Innocenzo III: Ken Tynan, il critico inglese così intelligente, scrisse che era l'ultimo genio dei caratteristi, “un maestro dell'anonimità, una presenza evasiva, cauta....” Guinness preferiva definirsi un miniaturista, adatto alla commedia come alla tragedia. Raccontava quanto lo aiutasse l'osservazione distratta ma intensa della realtà, ricordava come lo avesse influenzato la solitudine dell'infanzia: “Ho sempre pensato che gli attori siano una sorta di adolescenti sottosviluppati, emotivamente e spiritualmente bloccati ai quindici-sedici anni, affamati di identità e di approvazione”. Come attore, lui era riservato ma non timido, asciutto ma non modesto. Verso il lavoro conservava un atteggiamento pragmatico: come fanno oggi Anthony Hopkins o Ian Holm non rispettava gerarchie, accettava anche i personaggi minori, più stravaganti o fisicamente tanto inadatti da sfiorare il ridicolo, ma con l'orgoglio di recitarli bene, con la sfida di renderli cari, interessanti o esemplari per gli spettatori. D'abitudine la sua era una recitazione a togliere, travestita da umiltà, praticata col più grande rigore: soprattutto nella seconda parte dell'esistenza, suoi personaggi dolorosi e solitari quasi non facevano un gesto e sapevano esprimere un mondo. Una delle sue interpretazioni più struggenti resta quella di George Smiley, il capo dello spionaggio inglese creato da John Le Carré: infelice e dal cuore spezzato per il disamore e il tradimento dell'amatissima moglie, impassibile e spietato nei complotti più sleali, implacabile ed esigente con i suoi uomini, afflitto da crepuscoli di vuoto, da momenti di sofferenza concentrata insopportabile, simbolo di un'autorità sfiduciata però irriducibile. La capacità di rappresentare l'autorità era staordinaria per un attore che si voleva tanto devoto all'understatement: il suo colonnello Nicholson ne Il ponte sul fiume Kway risultava un impasto sublime d'eroismo e di stupidità arrogante, il suo jedi Obi-Wan Kenobi di Guerre stellari appariva un mix di superiore divinità e di dolcezza paterna. Ma anche nella commedia era bravissimo, brillante, molto divertente: una farsa anticapitalista come Lo scandalo del vestito bianco di Alexander MacKendrick (il chimico Guinness scopre la formula d'una fibra tessile indistruttibile, inconsutile, impossibile da sporcare, provocando negli industriale tessili grande panico, funesti propositi) diventa grazie al protagonista una severa satira sociale e un quadro ironico-malinconico dell'idealismo eccentrico britannico; Sangue blu di Robert Hamer, lotta tra aristocratici per una eredità, diventa una vicenda cannibalica così umoristica da indurre Totò all'imitazione. È confortante pensare che lo stile di Alec Guinness, di Laurence Olivier o di John Gielgud, quel tipo di presenza nel cinema internazionale, non scompaiono con loro: l'eredità è già stata raccolta dagli attori inglesi più giovani, Branagh, Day-Lewis, Fiennes. O quasi. Guinness, certo, era speciale. Se ti invitava a cena per giovedì, sicuramente mercoledì mattina avresti ricevuto un biglietto elegante con conferma, indirizzo, ora, tenuta da indossare: come tutti coloro che temono il disordine mentale, soprattutto da vecchio Guinness odiava il caos, la maleducazione, le cattive maniere, e dava alla forma un'importanza straordinaria (“È la nostra sola salvezza”). Il formalismo si trasformava per lui in una regola di vita, così come il manierismo diventava dominante nel lavoro: riscattati da quella bravura, da quel talento misteriosi, tanto difficili da spiegare, tanto seducenti da vedere e ascoltare.

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