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Venezia 77, il ritorno di Lav Diaz: la dilatazione del tempo che studia la natura umana

L’ultimo film del regista filippino sarà uno dei titoli disponibili nella Sala Web di MYmovies.
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di Emanuele Sacchi

venerdì 28 agosto 2020 - Mostra di Venezia

Quattro anni fa Lav Diaz (nome d’arte di Lavrente Indico Diaz) si aggiudicò il Leone d’oro per The Woman Who Left (2016). Un premio discusso, come sempre lo sono i Leoni d’oro, ma dai più considerato doveroso, per celebrare una carriera straordinaria e troppo spesso relegata al microcosmo dei festival di cinema. La nomea di regista inaccessibile, d’altronde, si accompagna a Lav Diaz da anni, in virtù più della durata chilometrica dei suoi lungometraggi che di una effettiva complessità di linguaggio. Il tempo, per Diaz, poeta, rocker e cineasta, è un concetto differente dal nostro. Entrare nel mondo del cinema del regista filippino significa aderire a un ideale di contemplazione e visionarietà, in cui le immagini a cui assistiamo possono srotolarsi come un paesaggio infinito di fronte ai nostri occhi, superando il concetto di trama o l’usuale perimetro della narrazione in tre atti.

Se il grande pubblico lo ignora, il mondo dei cinefili lo ama incondizionatamente e, di festival in festival, gli tributa un consenso che è confermato dalle giurie internazionali. Dopo la sua lenta affermazione alla fine del secolo scorso, Diaz ha infatti vinto diversi premi negli anni 2000: prima che arrivasse il Leone d’oro, fu Batang west side (2001) ad aggiudicarsi il titolo di Miglior film al Festival di Bruxelles, mentre Death in the land of encantos (2007), girato nello scenario di devastazione lasciato dall’eruzione di un vulcano, e Melancholia (2008) vinsero la sezione Orizzonti della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia; fino al Pardo d’oro al Locarno Film Festival del 2014 con From what is before, autentica consacrazione internazionale per Diaz, nonché anticamera per il Leone.


Nel 2020 arriva Lahi, Hayop (disponibile nella Sala Web della Biennale venerdì 11 settembre alle 18.00), collocato nuovamente in Orizzonti, di cui sappiamo ancora molto poco, se non – parola dell’autore – che rappresenta una riflessione “sull’uomo che si comporta autenticamente come un animale, così come ha fatto, comunque, per tutta la sua vita”. 150 minuti, pochi per gli standard del regista filippino, in cui si interroga sulla natura umana e sulla inclinazione naturale dell’homo sapiens verso il male. Un limite all’evoluzione, secondo le note rilasciate dal regista, che lascia spazio alla speranza di un futuro più solidale e altruista. 

Il progressivo abbassamento della durata dei film di Diaz si conferma con Lahi, Hayop: uno scarto netto rispetto ai tempi in cui il Direttore artistico della Mostra di Venezia era Marco Müller e la strenua opposizione del regista a scendere sotto le nove ore di durata comportò l’esclusione del proprio film dal concorso principale. Fatto che entrò a far parte della trama di Melancholia, in cui uno dei personaggi, un regista, lamenta proprio il fatto che i Direttori di Festival gli chiedono di snaturare la propria arte e accorciare i film che realizza.

All’epoca il regista si spingeva fino alle quasi 11 ore di Ebolusyon ng isang pamilayang Pilipino (2004, L’evoluzione di una famiglia filippina), evoluzione di una famiglia filippina attraverso cui raccontare quindici anni di storia nazionale tra gli anni '70 e '80. Ma è proprio questa dilatazione temporale, così come le singole inquadrature, la staticità della macchina da presa o la predilezione per l’uso del bianco e nero a rendere il cinema di Diaz un cinema-mondo, singolare e totalizzante. Una voce unica e inconfondibile che racconta il proprio Paese e le sue iniquità, ma che usa questo apparente localismo come punto di vista privilegiato per studiare l’universalità del mondo dell’uomo, l’inesorabilità e la fragilità della sua natura. In attesa dell’ultima evoluzione.


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