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Quel trebbia di Bellocchio

ONDA&FUORIONDA di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

In foto una scena del film Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio.
Pier Giorgio Bellocchio Altri nomi: (Piergiorgio Bellocchio ) (50 anni) 16 aprile 1974, Roma (Italia) - Ariete. Interpreta Federico nel film di Marco Bellocchio Sangue del mio sangue.

domenica 20 settembre 2015 - Focus

Il film di Marco Bellocchio Sangue del mio sangue ha evocato la mia piacentinità, quella della stagione più bella, quando da giovane battevo quelle valli. Sono nato a Piacenza, la mia famiglia viene da "Farinotti", quattro case che fanno parte di Rompeggio, in quel di Ferriere. Battere le valli significava pesca e bicicletta. Il Nure nasce proprio sotto "Farinotti". Era la mia casa. Conoscevo ogni cascatella o slargo, ogni nascondiglio delle trote. Mi spingevo giù fino a Canadello dove il torrente comincia ad allargarsi per arrivare, fiume, a Ferriere. Ma a volte andavo in trasferta. In bicicletta, zainetto con la piccola canna smontabile, scendevo a Ferriere, affrontavo la salita del passo Mercatello, poi la discesa, arrivavo a Marsaglia e poi a Bobbio. Il Trebbia era un lusso, più largo e ricco del Nure, più fiume, con più pesce. L'ho rivisto nel film di Marco Bellocchio, ripreso... come se fosse vero, diciamo così. E ho rivisto il monastero di Santa Chiara, che conosco bene.

Non conosco personalmente il regista, l'ho incrociato una sola volta, a una conferenza a Milano, dove parlava del suo L'ora di religione, storia di un agnostico che non vuole che suo figlio a scuola frequenti L'ora di religione. Il ragazzo sarebbe nel gruppo che vedrà il papa, ma il genitore fa in modo che non avvenga. Ricordo che dissi al regista che tutto sommato il protagonista aveva tolto al ragazzo una bella occasione, un ricordo importante, un bel sortilegio, al di là della fede, dei preti e di tutto il resto. Mi rispose che per l'equilibrio narrativo la soluzione era quella. In questo suo ultimo film Bellocchio rimane fedele... a Bellocchio. Non posso non fare una premessa, che ho già avuto modo di fare: ho più volte definito il regista "una delle poche prove di esistenza in vita del cinema italiano". E' un autore onesto e garante, un maestro. E ha dovuto scontare quello strepitoso esordio dei Pugni in tasca che lo aveva posto nel cartello dei grandi cineasti a soli 26 anni. Quel titolo continua a identificare Bellocchio. Ma non era facile mantenere quella promessa così esigente.

Sangue del mio sangue è un contrappasso di due epoche, l'inquisizione e i nostri giorni. 1600, monastero di Santa Chiara, una suora viene accusata di essere in combutta col diavolo, ma se confesserà potrà morire sicura del paradiso. Se non confesserà morirà lo stesso ma andrà all'inferno. Federico, il fratello del giovane da lei sedotto, a sua volta sedotto, assiste al processo, alla condanna, occhi sbarrati, ma senza mai muovere un dito. Un altro Federico - stesso attore, Giorgio Bellocchio - secoli dopo cerca di vendere il monastero a un russo, ma è tutto un imbroglio, smascherato da un vecchio vampiro che non si sa se sia morto o vivo. Bellocchio riprende le sue solite ossessioni, consce e inconsce, persino con violenza maggiore del solito, ripaga l'inquisizione con la stessa moneta.

Il film paga un debito troppo forte ai simboli. Occorrerebbe una lezione preventiva per cogliere tutte le indicazioni. Il vecchio morto-vivo (Herlitzka) racconta i sociali mali attuali dal dentista. Filippo Timi fa il matto all'improvviso - che simbolo sarà? - C'è chi canta Torna a Sorrento e chi una canzone del Piave. Due sorelle dalla visibile lunga astinenza accudiscono Federico come se fosse una reliquia e, tutte e due, si infilano nel suo letto. Un momento di erotismo pauroso, con l'inquisizione a incombere. Un commento singolarmente aderente all'opera di Bellocchio sembra venire dal passato, da 8 e mezzo.

Chi ama il cinema non potrà non ricordare la figura di Daumier, il petulante intellettuale che affianca Guido-Mastroianni, alter ego di Fellini, durante il film, ascolta le sue idee poi gli passa degli appunti. Che sono sempre negativi e disarmanti. Uno degli appunti conclusivi è persino crudele nel mettere a nudo le debolezze dei modelli narrativi: "... sono ricordi d'infanzia, niente a che vedere con una vera coscienza critica. No, se lei vuole davvero fare qualcosa di polemico sulla coscienza cattolica in Italia, ebbene, caro amico, in questo caso, mi creda, è assolutamente necessario anzitutto un livello culturale molto più elevato e poi una logica di una lucidità inesorabile... No, lei parte con un' ambizione di denuncia e arriva al favoreggiamento d'un complice, ma lei vede che confusione, che ambiguità...". Le parole messe in bocca a Daumier sono di Flaiano. Forse il regista di Bobbio ha schiacciato troppa roba nella confezione, e non è facile decifrare tutto, ed è faticoso. Ma l'asticella dell'autore è sempre alta, naturalmente. Ma la qualità, la storia, non devono renderlo immune da considerazioni critiche. Senza essere il felliniano Daumier.

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