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I cento anni di Monicelli

ONDA&FUORIONDA di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

In foto il regista Mario Monicelli.
Mario Monicelli 15 maggio 1915, Viareggio (Italia) - 29 Novembre 2010, Roma (Italia).

domenica 17 maggio 2015 - Focus

Sabato 16 maggio Mario Monicelli avrebbe compiuto un secolo. Del 1915 era anche Orson Welles, di cui ho scritto. Due autori giganti. Attraversando, col telecomando, la miriade di canali, mi sono imbattuto in questi giorni in una sequenza di L'armata Brancaleone alle crociate, e subito ho colto, di getto, la differenza. La differenza con cosa? Con quasi tutte le immagini che passavano. Monicelli è morto nel 2010, a 95 anni. Si è gettato da una finestra dell'ospedale di San Giovanni a Roma. Aveva un tumore, terminale. Aveva passato gli ultimi anni da solo, e ne aveva spiegato la ragione. "Se hai vicino a te una compagna, più giovane, è sempre pronta ad esaudirti, a portarti quello che ti serve. Così finisce che non fai più niente, rimani in poltrona, non ti muovi più, diventi un vecchio rincoglionito. Se invece il vecchio è costretto a gestirsi, rifarsi il letto, uscire, accendere dei fornelli, qualche volta bruciarsi, dura altri dieci anni". E lui ha durato molto, fino alla consapevolezza dell'ultima energia. Poi ha preso la decisione.

Una fine che rimanda a un altro autore, un altro eroe, Hemingway, che la fece finita molto più giovane, a 61 anni, e che come Monicelli si portava dietro un precedente tragico, il suicidio del padre. Sopra ho scritto "gigante". Non c'è alcun dubbio in merito. Monicelli è stato uno dei nomi del cartello più nobile del nostro cinema quando eravamo i più bravi del mondo. Era un narratore, nel senso che si applicava a una storia e la raccontava, come pochi o nessuno. Non è stato un artista generale, non ha firmato opere che trascendevano il cinema, come Ossessione, Paisà o Ladri di biciclette, ma ha fatto alcuni dei più bei film italiani. Inventando. Un'invenzione, decisiva, impossibile e paradossale, è quella del 1958, quando il regista toscano si accorge che il più grande attore drammatico italiano, in teatro, è in realtà il più grande attore comico in cinema: Vittorio Gassman naturalmente aveva già fatto molti film, ruoli diversi, persino ambigui, dall'eroe di cappa e spada (Il cavaliere misterioso) al criminale antagonista (Riso amaro), al nobile corrotto nel colosso Guerra e pace, e molto altro. E in teatro era stato... tutto, da Oreste ad Amleto e Otello, a Kowalski ad Adelchi. Insomma il repertorio classico e moderno più nobile. Monicelli sorpassò tutto questo e dede a Gassman il ruolo di Peppe, il semi-diota balbuziente, uno dei "professionisti" dei I soliti Ignoti. Era un film straordinario che inaugurava il filone della nostra commedia, quella che si sarebbe fatta notare nel mondo, trovando adepti e imitatori.

Monicelli ha firmato altri due titoli eroici del genere, La grande guerra e L'armata Brancaleone. I registi artisti, di cui sopra ho citato i titoli, davano alle loro opere impronte e stili precisi e riconoscibili all'istante. Avevano inventato estetiche e correnti. Monicelli: tecnica, linguaggio, gusto e conoscenza umana perfetti, si preoccupava che la storia emergesse, che la regia non prevalesse. Anche in questo caso il confine può non essere così netto. La grande guerra presenta una vera pittura senza colore, quei fotogrammi, studiati con applicazione maniacale sulle immagini dell'epoca, sono piccole singole opere d'arte, ma a prevalere è il racconto, con episodi che si alternano, uno comico e uno drammatico, in un insieme ancora oggi, dopo tanto tempo, perfetto per vedibilità. L'armata Brancaleone è il prototipo di un genere che avrebbe prodotto una serie infinita di emanazioni non all'altezza. Monicelli e Gassman studiarono la lingua medievale trovando un compromesso, a tratti persino in rima, spurio e grottesco, ma irresistibile. Siamo sempre nell'ordine delle 5 stelle. 6, se esistesse quella misura.

Il caso
Ho incontrato Monicelli, anni fa, a Milano a una mostra cui partecipava la sua compagna Chiara Rapaccini. Era in un angolo e guardava. Monicelli ha sempre parlato poco. Il caso, anzi il sortilegio, creò una situazione singolare e felice. Proprio quel giorno avevo ricevuto la copia pilota di un'edizione del mio dizionario. Per la copertina avevo scelto alcuni fotogrammi fondamentali: L'atalante, un primo piano di Brando in Fronte del porto, uno di Uma Thurman in Pulp Fiction, John Wayne in Sentieri selvaggi e Gassman e Sordi soldati ne La grande guerra. Mi avvicinai a Monicelli, lo salutai, dissi anche a lui del caso-sortilegio e gli mostrai la copertina. Sorrise e disse "La ringrazio Farinotti, ma non credo di meritare di essere lì in mezzo". "Lo merita, eccome" gli dissi. E lo ridico: lo meritava ecome.

Qualche anno fa facevo parte della Commissione consultiva del cinema. Il suo compito era, ed è, quello di valutare le sceneggiature per poi, eventualmente finanziarle. Un testo, Le rose del deserto, era firmato da Mario Monicelli. Una parte dei membri era contraria al contributo. La frase era più o meno questa: "Diamo dei soldi a un novantenne? Magari a scapito di qualche giovane?". La mia idea era che Monicelli lo si sostiene comunque, per talento e storia. Mi spesi in questo senso e Monicelli poté fare il suo film. E certo non "a scapito" di un giovane.

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