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La politica degli autori: Davide Ferrario

Un cineasta versatile e attento ai temi sociali.
di Mauro Gervasini

In foto il regista Davide Ferrario.
Davide Ferrario (67 anni) 26 giugno 1956, Casalmaggiore (Italia) - Cancro. Regista del film La zuppa del demonio.

mercoledì 10 settembre 2014 - Approfondimenti

Dice: il critico cinematografico è un regista mancato. Pure un po' frustrato, poverino. Mica sempre vero. Davide Ferrario, ad esempio, classe 1956, cremonese di nascita, bergamasco di crescita, torinese d'adozione, ha cominciato come critico sulle pagine di "Cineforum", ha scritto un Castoro su Fassbinder poi, come normale evoluzione del mestiere, è passato dietro la macchina da presa dimostrandosi negli anni (il suo esordio è del 1989: La fine della notte) cineasta versatile. Un tempo si sarebbe detto "attento ai temi sociali". E in effetti l'ultimo suo film, La zuppa del demonio, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia, racconta attraverso materiali d'archivio l'industrializzazione italiana, dalla nascita del cinema (!), quasi contemporanea al sorgere della "civiltà automobilistica" (leggi: FIAT), alla crisi petrolifera degli anni 70. Parliamo, s'intende, del Novecento, della sua idea di progresso drogata, «giusta anche se sbagliata» come più o meno sostiene Marinetti. La drammaturgia di La zuppa del demonio prevede letture di poeti e intellettuali che fuori campo commentano lo sviluppo, l'industria, le sue glorie e i suoi guasti, non raramente rimpiangendo il mondo contadino dal quale veniamo.

Davide Ferrario ha il documentario nel DNA. Ricordiamo anche gli altrettanto riusciti Materiale resistente e Partigiani, diretti con Guido Chiesa nel 1995, o il più recente La strada di Levi (2006). Ma il grosso della sua produzione è a soggetto, e ha contribuito a dare colore, respiro, ritmo, visione al cinema italiano (soprattutto) degli anni 90. In particolare con la doppietta Tutti giù per terra (1997) e Figli di Annibale (1998), il primo notevole successo anche di pubblico, il secondo meno, entrambi ben sintonizzati con lo spirito del tempo. Non solo cinematografico ma letterario e musicale (il romanzo d'esordio di Giuseppe Culicchia, i CSI, gli Üstmamò, la musica degli Almamegretta...). In Tutti giù per terra seguiamo attraverso una narrazione alla Trainspotting l'incedere balordo di un ragazzo (Valerio Mastandrea) che pare il cireneo del riflusso ideologico ormai pervasivo: disilluso, apatico, scostante. Il servizio civile in un centro di aiuto per migranti e nomadi non lo aiuta a trovare il proprio centro di gravità. Un'opera generazionale importante per capire come eravamo a due passi dal nuovo millennio. Figli di Annibale è invece commedia all'"italiana" pura, con l'Africa a fare da approdo per le anime fiammeggianti (il rapinatore Diego Abatantuono, l'imprenditore-ostaggio Silvio Orlando, il poliziotto Flavio Insinna) in cerca di una nuova vita. Riusciranno i nostri eroi...?

Anche coraggioso, Ferrario, e provocatore. Lo dimostra il più controverso dei suoi titoli, Guardami (1999) storia di una attrice porno interpretata (molto bene) da Elisabetta Cavallotti. Un film preso a pesci in faccia alla sua uscita e che oggi andrebbe rivisto con meno conformismo cinefilo. Piace a tutti invece Dopo mezzanotte (2004), storia di una fanciulla che praticamente vive dentro il Museo del cinema di Torino come Quasimodo in Notre-Dame, splendido ritratto femminile nonché piattaforma di lancio di una delle migliori attrici italiane degli anni Zero: Francesca Inaudi. Seguono anni convulsi: un film commerciale con Luciana Littizzetto (Se devo essere sincera, 2007), un'opera più personale ma davvero molto fragile (La luna su Torino, 2013), qualche documentario più ispirato fino a La zuppa del demonio, che riporta Ferrario a una salutare "militanza".

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