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La politica degli autori: Daniele Vicari

Un regista che sa passare dal documentario al film a soggetto.
di Mauro Gervasini

In foto il regista Daniele Vicari in occasione della conferenza stampa di presentazione del film Diaz – Non pulire questo sangue.
Daniele Vicari (57 anni) 26 febbraio 1967, Rieti (Italia) - Pesci.

martedì 10 aprile 2012 - Approfondimenti

Daniele Vicari, classe 1967, appartiene a quel gruppo di registi capaci di passare senza soluzione di continuità dal documentario al film a soggetto. Come Davide Ferrario, Mimmo Calopresti, Francesca Comencini, Guido Chiesa... Con il primo, Ferrario, condivide il passato da critico cinematografico; con il quarto, Chiesa, realizza nel 1999 un film importante e attuale: Non mi basta mai. Ricognizione di un'epoca, l'autunno caldo del 1980 quando la marcia di 40 mila "quadri" della Fiat a Torino spezzò le reni al movimento operaio; e delle conseguenze su chi era impegnato nelle lotte sindacali. Cinque operai di allora raccontati oggi: cosa hanno fatto e cosa hanno preservato di quelle utopie. Bello, limpido. Manifesto di un metodo preciso: mostrare un affresco sociale per poi ritagliare piccole storie, però esemplari. Diaz – Non pulire questo sangue, dal 13 aprile nelle sale, funziona in modo simile da un'ottica opposta. Non più docu ma fiction. Anche se mai come in questo caso la parola finzione suona limitativa. Il film, come noto, racconta la "macelleria messicana" nella quale fu trasformata da agenti dei reparti mobili la scuola Diaz di Genova, dove decine di ragazzi inermi vennero massacrati di botte durante il G8 del 2001. Una vicenda impunita, nonostante qualche condanna, e per la quale Amnesty International scrisse una frase pesantissima: «La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale». Vicari è partito dai fatti per poi procedere con una sceneggiatura: personaggi interpretati da attori e situazioni ricostruite secondo una drammaturgia che non fa a meno delle emozioni di un prodotto cinematografico rivolto al grande pubblico. Finzione nobile, potremmo dire. Alla quale il regista è legato da sempre, fin da Velocità massima (2002), targato Domenico Procacci come Diaz. Dramma sociale, spaccato urbano, storie di periferia: elementi in equilibrio per raccontare la "sopravvivenza" quotidiana di un diciassettenne mago dei motori, del suo capo officina (Mastandrea, ottimo) in cerca di riscatto anche economico e di una fanciulla che fa forse intravedere la possibilità di un'isola, intesa come vita diversa, migliore.
Sorprende anche il successivo lavoro di finzione, L'orizzonte degli eventi (2005). Il titolo allude al punto di non ritorno dei buchi neri ma a dirla così se ne sa quanto prima. Senonché il protagonista è un fisico nucleare (ancora Mastandrea) fuggito sul Gran Sasso dopo avere manipolato una ricerca scientifica, perseguitato da tentazioni al malaffare alle quali non riesce a resistere. Il cuore del film è di tenebra, il documentarismo è lasciato ai margini, tuttavia la figura del ricercatore, nella sua fragile ma non redenta malevolenza, è singolare nel cinema italiano. Il regista ha uno stile raffinato, evita le facili piacionerie, non gioca ad accontentare sempre e comunque le aspettative del pubblico. Per questo risulta abbastanza sorprendente lo scivolone di Il passato è una terra straniera (2008), tratto dal best seller di Gianrico Carofiglio (già sovrastimato di suo, secondo chi scrive), confezionato secondo l'accattivante estetismo di certi prodotti Fandango per cui una musica ipnotica (qui Teho Teardo) e una fotografia livida (di Gherardo Gossi) sopperiscono alla mancanza di spessore di personaggi stereotipati e a una sceneggiatura stentata. E invece è forse il suo miglior film Il mio paese (2006), sintesi di una ricerca e di un amore per il cinema come espressione del mondo. Partendo da L'Italia non è un paese povero di Joris Ivens, che anche in virtù dei finanziamenti Eni esaltava nel 1960 l'industrializzazione italiana, il regista ripercorre lo Stivale da sud a nord per scoprire quanto siano andate sprecate le aspirazioni di allora, e quanto il nostro sia in realtà un paese dismesso. Un esempio altissimo di documentario "partecipato", raccontato cioè scegliendo un punto di vista che sia anche emozionale e non solo gelidamente fotografico.

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