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Jafar Panahi: peggio che morire

Condannato a 6 anni di carcere e a 20 di ... nulla.
di Pino Farinotti


martedì 21 dicembre 2010 - Celebrities

Adesso l'Occidente si attiverà. È scontata, è automatica la condanna, forte, gridata, per la vicenda del regista iraniano dissidente. Lo faranno tutti, tutti quelli che non vivono rinchiusi. Insomma, quasi tutti noi. Ribadisco: è scontato. E ribadisco che è nella natura dell'Occidente, che va inteso come mondo disordinato, nelle disparità, nei pregiudizi, nella violenza, in tutto insomma, ma continua ad essere il migliore dei mondi umani. Un segnale decisivo è proprio questo: non esiste il "dissidente occidentale". È un assunto semplice e sacro. E davvero non è poco. Non so se Panahi sarà davvero rinchiuso per sei anni. Credo che l'avvocato, i parenti, i figli, gli porteranno le notizie, gli racconteranno della mobilitazione, gli faranno avere stralci trafugati dai giornali, da internet. L'artista sentirà il mondo vicino, e aspetterà nella speranza che l'azione esterna, lontana, prima o poi provochi una piccola crepa, poi altre, fino a quando il muro si aprirà. Credo che succederà.
Ma ecco i dettagli della condanna. I cinque anni sono inflitti per aver fatto parte di un'organizzazione volta a sovvertire lo Stato, un altro anno per propaganda lesiva dell'immagine della Repubblica islamica. Ma il peggio arriva adesso: Panahi per venti anni non potrà dirigere, scrivere sceneggiature, concedere interviste, e potrà recarsi all'estero solo per motivi di salute o pellegrinaggio alla Mecca. Dunque, molto peggio delle quattro mura. Dunque morte artistica e fisica. La storia è piena di reclusi, sepolti, ma con la possibilità di espressione. Pensavano, scrivevano, le opere trovavano modo di evadere, arrivavano ai liberi. E spesso grandi opere sono venute da dissidenti, faccio pochi, conosciuti nomi, Pasternak e Solženicyn per la letteratura, e poi tutti i cineasti transfughi dalla Germania (e dintorni) nel '33, con l'avvento di Hitler: da Wilder a Lang a Zinneman. Non sono un innamorato del cinema di Panahi, ma certo non significa nulla, non sono neppure innamorato di Kubrick, ma davvero, come autore adesso sono con lui. Lo capisco e come: uno come lui, in un paese che ti dà tante occasioni di dolore, dove vedi che tutto è inibito, dove tocchi tutte le umiliazioni, delle parole, delle donne, dove misuri i soprusi e l'assurdo di un regime dalla mistica primordiale. Dove tu sei invece libero e intelligente, hai frequentato la qualità bella del mondo, il tuo talento è stato riconosciuto, sei stato portato a capire come i privilegiati, hai ottenuto il dono di decifrare, e poi di spiegare, ai tuoi e agli altri. Fra le mura, tutto questo lo pensi e per trasmetterlo lo scrivi. E se non puoi scrivere e trasmettere che fai? La tua idea ti rimbalza dentro senza una fessura per l'uscita, senza un destino? Ecco cosa significa quella condanna. Certo, un modello tanto accreditato nella cultura del mondo è un comodo pretesto per un Ahmadinejad, una leva potente da far valere, naturalmente in chiave politica. E ancora una volta la politica invade il cinema. La speranza è che la politica diventi anche uno strumento per aiutare il regista. Adesso ci sarà mobilitazione. L'Occidente si mobilita, come sempre.

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