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Film non italiano, potente, di Martone

Il Risorgimento non era "quello che credevamo".
di Pino Farinotti

Luigi Lo Cascio (56 anni) 20 ottobre 1967, Palermo (Italia) - Bilancia. Interpreta Domenico nel film di Mario Martone Noi credevamo.

lunedì 15 novembre 2010 - Focus

Sui primi libri di scuola trovavamo quattro effigi accorpate in una cornice barocca. Erano quelle di Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II e Garibaldi. Gli eroi che avevano fatto l'Italia. E noi abbiamo attraversato la fase giovanile con quell'informazione e quel sentimento. Il nostro non era solo un bel paese, ma anche un buon paese. Tutto sommato, rispetto alle nazioni, stavamo abbastanza bene, certo con tutte le imperfezioni, fisiologiche, di una democrazia. Poi, con la consapevolezza e la maturità si aggiungevano altre informazioni, e poi la critica e la revisione. L'era recente è ambigua. Troppe informazioni (troppi canali e programmi) nessuna verità univoca. Uno schieramento dice che siamo un paese felice, l'altro che siamo un paese disperato. Ma credo che la percezione comune certo non sia di felicità. I media, oltre ai fatti naturalmente, ci hanno insegnato a conoscere la politica e i politici: non c'è generosità, o solidarietà, o responsabilità. Non si fa nulla per nulla. C'è il territorio da occupare e c'è il proprio potere da tenere. Non ci sono "gli altri". Martone conclude il suo film Noi credevamo facendo dire ad Angelo, che ha vissuto tutta la storia, un paio di frasi che sono davvero un programma: "l'albero dell'unità d'Italia è stato piantato con radici malate". E poi, alla fine ".. paese gretto, arrogante, assassino."

Moti
Si racconta di Domenico, Salvatore e Angelo, ragazzi del Cilento, che percorrono il Risorgimento a partire dai primi moti del 1828 fino al 1862, quando Garibaldi viene fermato e ferito in Aspromonte dall'esercito regio. Tutto viene vissuto, dibattuto, sofferto. Si guarda alla Giovine Italia, alla rivoluzione, alla militanza, ma di volta in volta tutto viene disatteso. L'ideale repubblicano è tradito. Vittorio Emanuele? Se rimaneva Ferdinando, per il sud, era lo stesso, con nessuno dei due forse era meglio. E poi l'azione, si pensa a uccidere Carlo Alberto, il grande traditore, poi si attenta a Napoleone III e Domenico, scoperto, viene condannato alla ghigliottina non prima di aver perorato la causa col confessore "perché il Papa non rinuncia al potere temporale?" Poi ci sono i salotti parigini e londinesi, con la celebre passionaria e rivoluzionaria, Cristina di Belgioioso, anche lei, alla fine, deludente. È Angelo ad arrivare fino in fondo, fino a vedere la morte del sogno repubblicano e alcuni dei suoi antichi compagni integrati nel parlamento sabaudo. E poi, tutta la dialettica possibile: sugli ideali, sulla libertà, sulla rivoluzione e sulla speranza. Fino al crollo e alla delusione feroce. Vittorio Emanuele è solo un nuovo padrone che pensa all'espansione del casato, Cavour è il suo diligente complice. Garibaldi è un mito impalpabile, Martone lo colloca di notte, a cavallo, lontano su una collina dell'Aspromonte. La delusione peggiore è proprio Mazzini, un terrorista visionario, elegante e in contumacia, schiacciato dai rimorsi e dagli incubi.

Politico
Non sto, completamente, col Martone sociale e politico, qualche piccola speranza cerco ancora di difenderla. Ma sto col Martone artista e mi piace da sempre il suo impegno: l'applicazione sulla ricerca del dolore e della verità nascosta, nel privato o nel corale. E poi, certamente, il contrappasso. Non basta un'idea quasi condivisa per unirsi e far fronte comune, l'idea può essere la libertà, ma repubblica libera e monarchia seppure costituzionale sono divergenze più che sufficienti a dividere. Divisioni "interne" dello stesso schieramento. Ne sappiamo qualcosa, adesso. Vuole essere, naturalmente, l'indicazione di Martone. E poi il nord e il sud, divisi da cultura da tutto, incompatibili. I corsi e i ricorsi. Niente di assolutamente nuovo, i Taviani e Lorenzini, e altri, avevano già "rivisto" il Risorgimento, e di metafore da contrappasso sono pieni i film. Tuttavia Noi credevamo è un film di contro-epica che finisce per essere epico. È certo potente, saltuariamente grande, non perfetto, perché nessun film lo è. Rifugge, e non è piccolo merito, dai canoni italiani. La genetica teatrale del regista lo porta a dare il meglio nel kammerspiel, nello spazio stretto e scuro della prigione, dove i carbonari si svelano nell'intimo e nella sofferenza. Forse si spiega e si parla troppo ma c'è il soccorso della passione. E comunque una ventina di minuti, dei 170, potevano essere stralciati. Ribadisco il concetto della non italianità e della potenza. Non ci siamo più abituati e meno male per questo promemoria. Da tempo rilevo qualche segnale italiano, quasi sempre piccolo, che per speranza e passione cerco di rilanciare come auspicio. Martone ha tradotto l'auspicio. Il regista non è un gigante, li abbiamo conosciuti, e Noi credevamo non è un'opera generale, le abbiamo viste, ma qui c'è più di una promessa. E pur trattandosi di storia in assoluto italiana, forse si farà accettare dal movimento internazionale, senza mafie e camorre. Finalmente.

Enfasi
Un po' di epica l'aveva tentata Tornatore con Baarìa, ma c'era troppa enfasi e una manifesta intenzione di mostrare i muscoli. Troppo trucco e troppa regia, troppa "scolastica". Alla fine, ribadisco, la regia migliore è quella che non si fa vedere. Tornatore si è preoccupato di Tornatore, Martone della storia. Da ricordare: nel finale, Angelo, vecchio, col suo fucile percorre boschi e colline per unirsi a Garibaldi. Ha tanto, anzi ha tutto sofferto e nutre quell'ultima speranza. È lento e stanco come un don Chisciotte. Le trova, le camicie rosse, e il generale lo intravede lassù, ma è lontano, sfuocato. E sarà pure sconfitto.
Ultimo rilievo: i due film di maggiore qualità e respiro, da molte stelle, Noi credevamo, e Oranges and Sunshine, presenti rispettivamente a Venezia e a Roma, sono stati ignorati dalle commissioni. Nessun premio. I film buoni sono pochi, pochissimi, ma disturbano. Se ti arriva un po' di bellezza e di qualità vanno tenute nascoste. Non fanno parte del progetto gretto, depresso e piccolo in atto in questa epoca, da noi. Il film di Martone è stato distribuito in pochissime copie. "È bello, è importante, ha un orizzonte e un respiro, non è dei nostri. Meglio che la gente non lo veda", avranno pensato quelli del "progetto".

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