Huerga, lei ha vissuto gli anni '70 in Argentina. Quanto ha influito sul film?
Huerga: In Salvador non cerco di spiegare nulla, a dire il vero: solo di raccontare una storia universale, che non appartiene solo al passato perché queste cose accadono anche ora, in altri luoghi. Il mio è più un invito a non adagiarsi su ideologie che sfruttano il torpore mentale.

Tu, invece, Daniel, non eri ancora nato. Che effetto ti ha fatto? Brühl: Mia madre è catalana, quindi i miei mi avevano raccontato molte cose, ma avevo solo sentito il nome di Salvador. Tuttavia, sono d'accordo con Manuel: è una storia che può è essere facilmente compresa da qualsiasi giovane moderno che abbia un minimo di coscienza politica.

Huerga, cosa è stato più difficile nel realizzare il film?
Huerga: Mi preoccupava molto la reazione della famiglia, a cui invece è piaciuto moltissimo e ha fornito anche un aiuto per richiedere la revisione del processo. Gli esponenti del movimento, invece, sono cambiati molto da allora e per questo ho voluto mostrare come l'importante fosse l'idealismo, più che il pensiero del movimento in sé e per sé.

Daniel, come ti sei calato nella parte?
Brühl: Ho avuto la fortuna di poter parlare con tutte le persone ancora vive che conoscevano Salvador, ho ascoltato la sua musica, visto le sue foto. Poi ho chiuso tutto in un cassetto e ho cercato di fare mia quest'esperienza di vita, tanto che in molti momenti ho provato vera e propria angoscia.

Huerga, parte dell'angoscia è dovuta alla scena dell'esecuzione, forse troppo forte?
Huerga: Avevo dubbi su come rappresentarla, ma ho creduto fosse importante illustrare la morte non con la superficialità che di massima hanno cinema e tv, ma con tutta la realtà e il terrore del vero. Ho cercato di usare un linguaggio moderno, per essere comprensibile a tutti: indubbiamente è un film contro la pena di morte.