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Le innumerevoli ispirazioni di Sono il numero quattro

Il film riunisce le peculiarità di numerose saghe di successo.
di Gabriele Niola

John (Alex Pettyfer) e il numero sei (Teresa Palmer) in una scena del film Sono il numero quattro di D.J. Caruso.
Alex Pettyfer (34 anni) 10 aprile 1990, Stevenage (Gran Bretagna) - Ariete. Interpreta Numero Quattro nel film di D.J. Caruso Sono il numero quattro.

giovedì 17 febbraio 2011 - Approfondimenti

Sarà vera saga?
Lungo, largo e pronto ad un sequel, queste le caratteristiche principali del film d’azione e fantascienza degli ultimi anni. Cercare di dar vita ad un universo parallelo e ad una mitologia esclusiva per garantire la propria sopravvivenza in sala attraverso altri film.
Sono il numero quattro è solo l’ultimo di una lunga schiera di film che in questi anni si sono chiusi con un’apertura, lasciando molti punti insoluti, misteri da sciogliere e personaggi da conoscere (vediamo il numero quattro e il numero sei, l’impressione che manchi qualcuno è forte), con la speranza che incassi favorevoli diano il via ad uno o più seguiti.
Jumper, Pusher, Percy Jackson: il ladro di fulmini, Eragon, La bussola d’oro e G.I. Joe: la nascita dei Cobra sono solo alcuni esempi di saghe mai partite, idee di franchise che non hanno riscosso il successo sperato. Film che tra qualche anno rivedremo con i loro finali sospesi, sapendo che appartengono ad una fase della storia del cinema in cui spesso si lasciava una porta aperta perchè si pensava che duplicare un soggetto fosse la soluzione.
Solo gli incassi potranno dire se il film tratto dal libro di Pittacus Lore (pseudonimo che riunisce James Frey e Jobie Hughes) diventerà una saga o meno. Di sicuro Sono il numero quattro, anche per scacciare lo spettro dell’insuccesso, va a pescare nel bacino giusto, quello delle saghe di successo, traendo ispirazione (più o meno esplicitamente) dai film che negli ultimi trent’anni di cinema sono riusciti a creare universi paralleli fatti di regole proprie, caratteristica essenziale delle saghe.

Sono come noi ma diversi
Erano gli anni ‘80 quando Highlander portava al cinema la storia di un’altra razza (aliena, lo si sarebbe scoperto nel primo sequel) che abita il nostro pianeta, indistinguibile dagli umani e mischiata ad essi. Non possono morire e sanno sopravvivere senza farsi vedere. Si cercano pur non sapendo con esattezza in quanti siano e sono in una strana forma di contatto psichico che li colpisce quando muoiono o sono l’uno in prossimità dell’altro.
A questo tipo di fascinazione attinge Sono il numero quattro per una parte dei suoi presupposti. I protagonisti vengono infatti da un altro pianeta e non sanno esattamente in quanti siano (il numero che li identifica però gli dà un mano) nè dove si nascondano gli altri, sebbene siano uniti da percezioni extrasensoriali che li colpiscono alla morte di ognuno.

Mai innamorarsi di un’umana
Regola numero: non farsi notare. Regola numero due: non affezionarsi. La rottura di questi due principi è alla base di Twilight, la saga dei vampiri dal cuore tenero, a cui Sono il numero quattro attinge per l’immaginario romantico/scolastico.
Due outsider che si incontrano e si innamorano, sebbene uno sappia di non potersi affezionare ad una ragazza normale e l’altra si renda presto conto di come la sua vita stia per cambiare e prendere una piega pericolosamente avventurosa in compagnia di lui.

Luke, sono io tuo padre
La saga cinematografica per eccellenza si fonda su un principio base: se non hai genitori e legami con il passato sei solo con il tuo destino futuro e puoi intraprendere un’avventura. Il numero quattro parenti non ne ha più e chi gli sta vicino non fa una bella fine. Chissà che il padre non salti fuori a saga iniziata, magari tra le fila nemiche...

Muoversi è l’unica soluzione
Quando si è soli e si è cacciati da una moltitudine di nemici è meglio muoversi, lo insegna Sarah Connor. Che poi a dare la caccia siano una serie di robot dalle fattezze umane venuti dal futuro o alieni dalle fattezze quasi umane (umani brutti diciamo) che vengono da un altro pianeta poco importa, quel che conta è muoversi, spostarsi lungo le infinite highways che tagliano i deserti americani, possibilmente avendo in sottofondo la propria rassegnata voce fuoricampo. D.J. Caruso deve essersi ricordato dei monologhi finali di Terminator quando ha pensato a come far recitare quelli del suo protagonista.

Ognuno un potere, ognuno diverso
Non c’è metafora della crescita adolescenziale e della scoperta di un corpo diverso buona come quella della scoperta di nuovi poteri. Meglio se tanti e diversi per ogni personaggio.
Per primi gli X-Men (fumettistici e poi cinematografici) hanno lavorato sull’idea che ogni adolescente è diverso e quindi deve avere poteri diversi che derivino dalla sua personalità e la possano influenzare. Ora in Sono il numero quattro, per quel che si vede in questo primo film, il concetto è replicato. Ognuno degli esuli dal pianeta conquistato ha un dono che scopre ad un certo punto della vita e che deve imparare a gestire.

Brutti, sporchi e alieni
Gli alieni buoni sono come noi, indistinguibili da un qualsiasi essere umano non fosse per i poteri; gli alieni cattivi sono orrendi e hanno caratteristiche animalesche. Soprattutto sono vestiti di nero, possibilmente tatuati e si camuffano male. Ce l’ha insegnato Men in Black che ogni umano che non ci convince probabilmente è un alieno e D.J. Caruso lo sa bene visto come ha deciso di mostrare e mettere in scena i suoi villain, mostri vagamente umani, mal mimetizzati nella folla delle persone vere. Non si ride per un pelo.

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