Il film si apre e si chiude con la stessa immagine che ha per sfondo New York (anche se il tutto è stato girato a Parigi, città natale e rifugio saltuario del “latitante” Polanski), in cui due ragazzini si confrontano in un parco davanti ad un gruppo di coetanei. Ma mentre nella prima inquadratura la dinamica di rapporto sfocia in una violenza (dell’uno verso l’altro) che fa da spunto agli eventi successivi, in quella finale il problema è risolto con un gesto di riappacificazione, sul quale si innestano i titoli di coda. Come dire che i ragazzi, pur nella loro irruenza e apparente immaturità, sanno trovare da sé il modo di appianare i loro conflitti, molto più dei genitori, come dimostra tutta la storia che si dipana tra l’incipit e l’happy end.
I genitori di Zachary (il pestato) e quelli di Ethan (il pestatore) si riuniscono in casa di questi ultimi per una composizione bonaria dell’incidente. L’accordo raggiunto non pone problemi ed è presto liquidato, i toni della discussione inizialmente sono cortesi e concilianti tra un caffè ed una torta, ma….al primo minuscolo screzio si mette in moto una reazione a catena che diventerà valanga e che nessuno dei quattro (un venditore di articoli casalinghi accomodante e sua moglie autrice di un libro non proprio da best seller, un industriale farmaceutico senza scrupoli e la snob consorte broker finanziario: piccola e alta borghesia a confronto), vuole o può fermare prima che produca effetti devastanti e forse irreversibili. Il gruppo si blinda come imprigionato da un invalicabile muro, tanto che i vani tentativi di fuoriuscirne, mascherati da iniziative fatue e buonistiche, sono solo micropause per riprendere fiato e organizzare il successivo attacco. La dinamica spinge vorticosamente i protagonisti in crescendo a rintuzzare, provocare, aggredire, affondare, con argomenti talora pretestuosi o addirittura infantili. Ciascuno, rotti gli argini del ritegno, vomita fuori (anche letteralmente) il peggio di sé, smascherandosi per quello che è e non appare: il piazzista bonaccione si rivela (e si definisce) cialtrone e figlio di puttana, la scrittrice pura e idealista è in realtà un’isterica fallita, la fredda professionista di successo una donna emotivamente instabile (oltre che debole di stomaco), mentre l’ultimo esempio di mediocrità rivelata al contrario si manifesta fiero di ciò che è e appare: un cinico intellettualoide, indifferente al fatto che la propria azienda produca un farmaco probabilmente nocivo. Le metamorfosi ed i movimenti psicologici si fanno sempre più veloci, così come mutano le alleanze: una coppia contro l’altra, fugaci sintonie tra uomini e tra donne, ma non c’è equilibrio, non c’è pace, non c’è composizione che duri più di pochi minuti. Le continue ed estenuanti telefonate, lungi dal costituire pause foriere di riavvicinamento, complicano la situazione inserendosi nella già concitata discussione. Ma, quel che è peggio, il gioco al massacro non risparmia le singole coppie, che, sotto la spinta disgregatrice iniziata in punta di piedi per un banale litigio giovanile, esplodono a turno, mettendo a nudo ed in mostra bubboni finora celati o mal sopportati. Cambiano gli argomenti, cambiano gli alzi, le traiettorie e gli obiettivi, ma la carneficina non si placa. Crolla l’autocontrollo, i quattro si impantanano nelle proprie miserie, ma soprattutto implodono le loro certezze, fatte a pezzi dall’incapacità di guardare spietatamente dentro se stessi e conseguenzialmente costruire e saper mantenere un’identità umana solida e matura a prova di confronti anche conflittuali.
Tratto da una piece teatrale e non a caso girato tutto in una stanza, il film è uno di quelli in cui l’interazione delle psicologie in campo si snoda con ritmi incalzanti in contrasto con l’immobilità della location (si pensi per esempio a “La parola ai giurati” di S. Lumet). Le continue azioni, reazioni e controreazioni dei personaggi non consentono allo spettatore di riprendere fiato come in un thrilling, e nello stesso tempo di sottrarsi al partecipare smarrito al loro degrado progressivo. Fin troppo facile è la simbologia sottesa dal contesto di una storia espressa con dialoghi fluidi ed intelligenti -improntati alternativamente all’ironia o al dramma- che rispecchia la vorticosa società occidentale fatta di burattini, marionette e robot intrisi di fragilità e tesi a forgiarsi spesso ruoli e identità fittizie che non reggono all’impatto di relazioni sociali impegnative.
Merito della riuscita dell’operazione un grande regista sempre attento ai molti e complessi meandri della realtà umana, che, coadiuvato dalla stessa autrice dell’opera teatrale originaria in qualità di cosceneggiatrice, ha saputo dirigere magistralmente un cast stellare di 3 premi Oscar su 4. Ma è proprio la prova dell’unico attore non insignito della statuetta (John C. Reilly) che, a mio parere, merita il massimo dei voti, per aver splendidamente dato vita ad un personaggio dove il più ed il meno, il meglio ed il peggio, l’accondiscendenza e l’egoismo si fondono e si contemperano in modo realisticamente perfetto. Bravissimo.
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