Il quadro familiare che ci viene descritto (attenzione, la regista è una donna, e la cosa –visto il tema affrontato- non è irrilevante) è apparentemente idilliaco: una coppia lesbica, con ruoli leggermente differenti (almeno questa è la percezione di primo acchitto) in cui prevalgono amore, concordia ed armonia, due figli nati tramite il seme di uno stesso donatore sconosciuto dalle due donne (uno da ciascuna) legati da un rapporto di profondo affetto e rispetto sia tra di loro sia con le due “madri”, il tutto condito da un interscambio a tutto campo e da un’intesa tra le varie componenti, che fanno del gruppo una famiglia sostanzialmente non diversa da una qualsiasi felice famiglia tradizionale americana.
Il gruppo appare ben inserito socialmente e pertanto tutto sembra fluido e “normale”. Tuttavia si avverte qua e là qualche traccia di tensione: se una delle donne è professionalmente appagata, l’altra non ha ancora una collocazione lavorativa soddisfacente, si avvicina il momento doloroso ma necessario della separazione di uno dei figli, l’età non più adolescenziale di questi li spinge ad indagare gli spazi oscuri della propria storia, ed in particolare a cercare la tessera mancante del mosaico: l’identità del comune padre biologico. Le impercettibili incrinature che ne derivano diventano crepe quando il donatore del seme viene rintracciato e messo a contatto con la famiglia: è bello, ancora giovane, scapolo, socievole, e dimostra una certa sensibilità verso il calore familiare. L’impatto, dopo i primi istintivi disorientamenti per l’improvvisa ingerenza (“mi sento come se mi avessero sottratto la famiglia”), fa esplodere dinamiche disgregatrici, e ciò che sembrava un’ avvincente prospettiva si trasforma in pericolosa minaccia. All’urto di una divagazione imprevista la cristalleria si rompe, va in mille pezzi e gelosie, incomprensioni, difficoltà di “vedersi” reciprocamente emergono tumultuosamente. La commedia diventa dramma. Ma la capacità tutta femminile di rimettersi in gioco, di andare a fondo sotto le rassicuranti coltri di apparenza, di superare i muri del pregiudizio e gli arroccamenti psicologici compatterà le componenti del clan, creerà nuove alleanze e ricomporrà, fortificandolo, il recinto di sicurezza, corroborato da un’esperienza di vita che servirà a tutte le pedine in gioco (proprio tutte?).
Il contesto narrativo, dove il conflitto viene concentrato sugli effetti dell’improvvisa –anche se sollecitata- irruzione di un elemento esterno nella famiglia e non sulla sua strutturale anticonvenzionalità, in realtà è fortemente trasgressivo, probabilmente anche in una società dove puritanesimo e progressismo convivono in perenne contraddizione come quella americana. Anzi le trasgressioni sono molteplici: una coppia di omosessuali conviventi, il ricorso all’inseminazione artificiale di entrambi i partner, l’adozione di fatto da parte di ciascun partner del figlio dell’altro, il rapporto dei “fratellastri” con i due genitori dello stesso sesso. Ma il pregio del film –supportato dalla prova tutt’altro che agevole delle due stratosferiche attrici protagoniste (Annette Bening e Julienne Moore, splendida sotto quel manto dorato di efelidi) sta nel fatto di mostrare come potrebbe funzionare un modello alternativo condiviso di famiglia, con tutte le difficoltà, le dinamiche talvolta sismiche di qualsiasi aggregazione di genitori e figli, quasi si trattasse di una storia realmente accaduta o comunque di routine. Naturalmente i temi posti dagli autori suscitano molte domande, cui è difficile non cercare di dare risposte dopo aver visto il film; la lunga onda di pensieri, considerazioni, commenti e confronti che prosegue dopo aver lasciato la sala è un’altra prova della validità di un tipo di cinema, moderno e sanamente “provocatorio”, che in Italia non si potrebbe mai girare. Temi come la libera convivenza di coppie omosessuali, l’inseminazione eterologa, da noi vietata, i rapporti tra figli e genitori dello stesso sesso, l’identificazione del donatore del seme sono tutti argomenti che nella nostra società sfiorano il tabù; e ben vengano opere come questa –di alto spessore e di notevole valore artistico- che inducano, si spera, a porsi il problema e a dare risposte, qualunque esse siano. Magari solo a se stessi.
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