IL GRINTA dei fratelli Cohen
Dopo 42 anni da Il Grinta di Henry Hathaway con il mitico John Wayne, arriva nelle nostre sale l’ultima fatica dei fratelli Cohen, con lo stesso titolo e tratto dallo stesso romanzo. Il “regista con due teste”, come qualcuno li ha chiamati, in una recente intervista respinge la connotazione di “remake” del film con Wayne, ed afferma di non aver voluto girare un western alla John Ford ma di essersi ispirato direttamente alla storia del romanzo di Portis .
C’è sicuramente molto western nel nuovo Grinta dei Cohen, almeno quanto a cornice, ambientazione, moventi, paesaggi, personaggi fissi, duelli. Analizziamo meglio. Nel western classico in linea generale tutto nasce dalla Vendetta, che è il motore propulsivo e motivazionale della vicenda che tende alla punizione del colpevole ed a cui i personaggi sono legati, come perseguitori o resistenti. La lotta tra queste due categorie di “attori” genera conflitto, e, visti gli strumenti usati per risolverlo, il prezzo è la soccombenza dei meno forti o dei perdenti. La legge impera e quindi gli schieramenti sono conseguenziali al suo rispetto o alla sua violazione; sceriffi e banditi, cacciatori e prede, inseguitori ed inseguiti, oltre ad una folla di spettatori che assistono passivamente o si trovano coinvolti nelle gesta degli uni e degli altri. La pistola o il fucile sono i mezzi sbrigativi di persuasione o di resistenza, in un mondo in cui il dialogo e la dialettica hanno scarsa presa sui contendenti. L’ambiente è quello dei villaggi polverosi e sperduti tra vaste distese selvagge dell’America di fine ‘800. L’epopea del lontano Ovest è essenzialmente uomocentrica, la presenza femminile è irrilevante o funzionale alle imprese degli uomini. I massimi rappresentanti delle due fazioni (pro o contro la legge) sono ben delineati, e chi prevale nello scontro finale trionfa e sopravvive.
Naturalmente dai Cohen non ci si aspetta che i fondamentali del genere classico siano rispettati. Tutt’altro; i nostri sono abili manipolatori dei generi storicamente codificati, e ne cambiano le regole spiazzando continuamente lo spettatore. Sicchè, mentre Non è un Paese per vecchi è nella sostanza un western ambientato in una cittadina americana ai giorni nostri, il nostro Grinta è una storia di uomini e donne coinvolti in un unico disegno e delle loro interazioni, di valori, di incontri e scontri, che vengono innestati in una cornice da Far West con i suoi tipici ingredienti come impiccati, sparatorie, speroni, cavalcate, ecc.
Dunque, prima variante: il film inizia e finisce, in un’ottica di circolarità narrativa, con una donna, che è la vera protagonista, colei che avvia il progetto di vendetta predisponendo le condizioni migliori per darvi attuazione. E’ lei che, appena 14enne, per sistemare preliminarmente alcune questioni in sospeso, contratta alla pari con un un furbacchione che aveva fatto affari con il padre, con cui ingaggia un lungo duello a distanza ravvicinata e verbale di mosse e contromosse, in cui si dimostra all’altezza dell’interlocutore nel conquistare il massimo vantaggio possibile (qui forse s’intravede una sottile autoironia dei registi nel ricordare la propria origine ebraica). E’ lei che assolda il vendicatore, si allea ad un Ranger federale interessato alla stessa preda, accompagna i due uomini di legge fino alla resa dei conti, che ricompare dopo anni per rivivere il ricordo di quella vicenda davanti a ciò che resta del suo salvatore.
Il vendicatore prescelto è un attempato sceriffo orbo di un occhio, appesantito dagli anni e dall’alcool, sepolto sotto i panni corposi ed ingombranti che affievoliscano il senso di freddo, indurito da una vita spigolosa e sempre attratto dall’odore dei soldi, ma ancora sensibile alle richieste di giustizia, oltre che ammantato dalla fama di grande pistolero. Cogburn è recalcitrante, burbero, poi conciliante ed infine accondiscende al progetto di una ragazzina che ha dimostrato di essere ai suoi occhi un “vero uomo”. Non è l’uomo tutto d’un pezzo con il fazzoletto rosso al collo di John Wayne, ma l’anziano sceriffo che ha perso per strada qualche pezzo e la sicurezza giovanile, conservando tuttavia i tratti valoriali della scelta di campo a suo tempo effettuata e mantenuta.
L’assassino ricercato verso cui converge la ricerca e l’attenzione di noi spettatori, è in realtà un imbecille che , grazie ad un incontro casuale, presto esce di scena. Inaspettatamente la preda cambia volto ed il duello finale si trasforma in singolar tenzone dove i contendenti, pistole in resta, si lanciano al galoppo sfidandosi all’ultimo sangue.
Tutto si svolge in Arkansas –che è ad Est, non ad Ovest- in ambientazioni fredde, nevose, in distese che non hanno nulla a che vedere con i territori desertici e piatti contrassegnati da cactus e torri rocciose a picco, tipici scenari in cui si muovevano i “cow boys” tradizionali.
Pertanto i continui depistaggi , i personaggi fuori schema, i movimenti imprevedibili delle pedine in campo rendono costantemente viva l’attenzione verso una vicenda in cui ha poco spazio l’azione e prevale il dialogo, la dinamica tra i tre partecipanti alla caccia, fatta di alleanze, separazioni, scontri, solidarietà. Un film che svela citazioni importanti (mi vengono in mente Uomini e cobra o un certo Spielberg ossessionato dalla presenza minacciosa dei serpenti), accuratissimo, come sempre, nella confezione e preziosità delle immagini: memorabile l’affannosa corsa notturna sul cavallo nero il cui sudore brilla nel vago chiarore della sabbia illuminata dal cielo stellato.
Jeff Bridges, molto maturato negli ultimi anni, ritorna nel circo Cohen con un’interpretazione di alto spessore ed intelligentemente contenuta (in un ruolo che, visto il personaggio, si presterebbe facilmente ad eccessi istrionici), mentre Matt Damon, trasformato dal truccatore da Big Jim, come qualcuno l’ha definito, ad uomo del West, mi sembra fuori parte:ma forse questo rientra nelle depistanti atipicità che i fratelli registi tanto amano.
Resta l’impressione comunque che il nuovo Grinta non raggiunga la vetta artistica di altri film dei Cohen e, quanto alle numerose candidature agli Oscar, non credo regga il confronto con il diretto concorrente: Il discorso del Re e Colin Firth sono ben altra cosa, anche se dai Signori di Hollywood c’è da aspettarsi di tutto.
CLAUDIO
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