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David Lynch

David Lynch (David Keith Lynch) è un attore statunitense, regista, creatore, produttore, produttore esecutivo, scrittore, sceneggiatore, fotografo, montatore, autore effetti, è nato il 20 gennaio 1946 a Missoula, Montana (USA) ed è morto il 15 gennaio 2025 all'età di 79 anni a Los Angeles, California (USA). Al cinema il 19 gennaio 2026 con il film Inland Empire - L'impero della mente.
Nel 2001 ha ricevuto il premio come miglior regia al Festival di Cannes per il film Mulholland Drive.

Il primo surrealista populista della Storia del Cinema

A cura di Fabio Secchi Frau

La filosofia del cinema di David Lynch si configurava come un'esplorazione radicale dell'identità, del sogno e della realtà, dove il cinema non si limitava a rappresentare il mondo, ma diventava esso stesso un soggetto pensante, capace di interrogarsi sul senso dell'esistenza e sulla natura del sapere.
Regista cinematografico e televisivo americano, David Lynch si impose mondialmente come costruttore di narrazioni frammentate e visionarie, in cui il corpo e la mente dei personaggi si dissolvevano in spazi liminali, sospesi tra il reale e l'onirico, e in cui l'identità si frantumava, si sdoppiava, si reinventava in un sogno lynchiano che non era semplice manifestazione dell'inconscio, ma atto creativo e utopico, una ribellione contro la vita alienante, nella quale i protagonisti cercavano di costruire mondi alternativi per sfuggire al dolore e alla colpa.
In questo contesto, la macchina da presa diventava un dispositivo filosofico che generava teorie preesistenti, le metteva in crisi per rigenerarle ancora, offrendo allo spettatore un'esperienza perturbante e profondamente riflessiva.
Amato dal pubblico, autore indipendente tra i più iconici e prolifici, insegnò a molti registi e sceneggiatori a lasciar andare i loro preconcetti su cosa dovesse essere l'Arte e a provare gioia nell'immergersi in qualcosa di astratto. Con umore e sentimento anche nei suoi lavori più inquietanti, rimodellò radicalmente il modo di vivere il grande e il piccolo schermo sul filo del formato episodico-cinematografico e di un nuovo oscuro lessico in continua evoluzione. Fu un vero e riconosciuto gigante del cinema, maestro del ritmo surreale, dei dialoghi atipici e di un'atmosfera peculiare all'interno della quale la sua narrazione si gonfiava e si sgonfiava, immergendosi regolarmente in intimi paesaggi del Pacifico Nord-Occidentale, tra tazze di caffè "damn fine", stili di regia inconfondibili, tropi e tecniche letteralmente categorizzati sotto il suo nome. E poi immagini bellissime eppure da incubo, ispirate alla meditazione trascendentale, che sono diventate parte integrante della nostra cultura, attraverso influenze e riferimenti che ci sono entrati sotto la pelle (Dennis Hopper con la maschera dell'ossigeno davanti al viso che dice "Non guardarmi, cazzo!", il figlio-agnellino di Eraserhead, "In Dreams" di Roy Orbison trasformata da semplice ballata malinconica a qualcosa di minaccioso, Bob che si arrampica sul divano e sul tavolino, il suono misterioso e terribile di una scatola che cade a terra in Mulholland Drive).
Nessun regista fu più d'avanguardia di lui, tanto che il NEW YORKER lo definì "il primo surrealista populista" della Storia del Cinema per il suo stile narrativo basato sul flusso di coscienza e le sue colonne sonore kitsch, che lo fecero muovere tra la sua responsabilità artistica e il suo inspiegabile fascino popolare nel pubblico cinematografico più convenzionale. Grazie alle sue frequenti collaborazioni con le più incredibili stelle di Hollywood (il Premio Oscar Laura Dern, Isabella Rossellini, Grace Zabriskie, Kyle MacLachlan, Sheryl Lee, Naomi Watts, Sherilyn Fenn, Justin Theroux, Diane Ladd, Jack Nance e Harry Dean Stanton), il regista lasciò dietro di sé un corpus artistico che rivaleggiò con i più affermati autori del genere (permettendosi anche il lusso di recitare sia in pellicole o serie tv dirette da lui stesso che davanti alla cinepresa dei suoi più amati colleghi), ponendosi (come loro) nell'ottica del fine analista dell'America moderna, slegato da ogni logica del profitto e sovente paragonato a Luis Buñuel e Alain Resnais.
Provò il primo assaggio di accettazione da parte della critica mainstream solo a partire dal 1980, quando realizzò il resoconto biografico sulla vita di Joseph Merrick, grazie al quale venne incensato come uno dei più grandi registi del XX secolo e come l'uomo che parlava il linguaggio del cinema, composto da una combinazione di elementi di sconcerto, disgusto e furia. Solo agli inizi degli Anni Novanta, partì alla conquista della televisione con una delle opere più durature del tubo catodico, il misterioso Twin Peaks, che divenne rapidamente uno dei programmi tv più analizzati e discussi, incentrato sull'omicidio della reginetta del ballo di fine anno Laura Palmer, grazie al quale catturò l'attenzione del pubblico di tutto il mondo. Nonostante fosse intriso di un surrealismo felliniano, bergmaniano, godardiano ed herzoghiano, e nonostante la narrazione non lineare, suo marchio di fabbrica, il pubblico ne fu affascinato fin dall'inizio, mentre le speculazioni sull'identità dell'assassino di Laura divennero argomento di conversazione da bar in tutto il mondo. Mentre la serie è ancora oggi citata per aver avuto una grande influenza su opere tv altrettanto acclamate.
Morì mentre stava ancora sventolando la bandiera da freak, mentre era ancora più forte e orgoglioso del suo lavoro, anche se ormai molto lontano dalla cinepresa e semplice osservatore del lato noir dell'America.

Studi
Nato a Missoula, nel Montana, nel 1946, David Lynch era figlio di uno scienziato e ricercatore per il Ministero dell'Agricoltura e di una tutor di lingua inglese. Cresciuto seguendo gli spostamenti paterni assieme ai fratelli minori (dall'Idaho a Washington, dalla Carolina del Nord alla Virginia), si adattò fin da bambino a questa vita transitoria e fece amicizia con il figlio del noto pittore Bushnell Keeler, che lo avvicinò all'arte.
Iscrittosi alla Francis C. Hammond Middle School, frequentò poi la Corcoran School of the Arts and Design di Washington, D.C., prima di trovare un posto come studente della School of the Museum of Fine Arts di Boston, abbandonando però tutto dopo solo il primo anno perché "non ispirato". Ci riprovò alla Pennsylvania Academy of the Fine Arts, mentre parallelamente agli studi aveva trovato un lavoro come stampatore di incisioni per poter badare alla moglie e alla figlia.

I cortometraggi
Fu proprio durante questi anni che firmò il suo primo cortometraggio dando vita a una carriera che si sarebbe fermata molti anni più tardi. Nel 1967, firmò Sailing with Bushnell Keeler, proprio dedicato al pittore che l'aveva così tanto avvicinato alle arti figurative, poi seguito da Six Men Getting Sick, una videoinstallazione composta da un'animazione di un minuto proiettata in loop su una scultura che fa da schermo. La scultura raffigurava tre figure umane (basate su calchi della testa di Lynch ad opera del suo amico scultore Jack Fisk) che entrarono quindi a far parte della scena. Il corto mostrava sei persone che si ammalavano, si tenevano lo stomaco e la testa con le mani e, infine, vomitavano.
Dopo altri cortometraggi artistici meno noti (Absurd Encounter with Fear, Fictitious Anacin Commercial), arrivò The Alphabet (1968), che combinava animazione in stop motion e recitazione. Lo stile surrealista della trama raccontava simbolicamente gli effetti negativi dell'educazione e, soprattutto, il blocco psicologico nei confronti dell'apprendimento dell'alfabeto, criticando anche il metodo educativo. Realizzato a colori con un sonoro spesso distorto, l'opera ricevette un premio di produzione dall'American Film Institute che conferì a Lynch una piccola notorietà e gli consentì di girare il successivo The Grandmother (1970). Anche questo era una miscela di animazione in stop motion e recitazione, ma la trama verteva su un bambino che faceva crescere una nonna da un seme per cercare di sfuggire agli abusi dei suoi genitori. Senza dialoghi ma solo con effetti sonori, venne girato nell'allora appartamento di Lynch, con l'aiuto di amici, vicini di casa e altri non-professionisti.
Nel 1974, realizzò per l'American Film Institute The Amputee, che mostrava una donna che cercava di scrivere una lettera mentre un'infermiera (interpretata dallo stesso Lynch) cercava di medicarle una gamba amputata.
Dopo una lunga assenza da questa tipologia di opere, tornò dietro la macchina da presa per "The Cowboy and the Frenchman" (1988), episodio della serie francese Les Français vu par..., all'interno del quale diresse Harry Dean Stanton, Frederic Golchan e Jack Nance. Si trattò forse della prima commedia del regista. In essa, Lynch rilesse in chiave ironica gli stereotipi dei francesi e dei cowboy, risolvendo il tutto in una surreale notte di musica, occasione di incontro di due culture inizialmente inconciliabili. Un lavoro molto simile all'episodio "Lumière: Premonition Following an Evil Deed" (1995) per la serie Lumière and Company.
Dal 2001, si riscoprì ancora affezionato al genere (Pierre and Sonny Jim, Head with Hammer, Factory Mask, Dead Mouse with Ants, Ball of Bees #1, The Pig Walks, The Disc of Sorrow Is Installed, i videosaggi Cannes Diary, Coyote), fino a Darkened Room (2002), uno dei primi approcci di Lynch alla ripresa digitale, e la serie di corti Rabbits (2002), scritta, diretta e montata da David Lynch, che narrava la storia di tre conigli antropomorfi (Suzie, Jack e Jane rispettivamente interpretati da Naomi Watts, Scott Coffey e Laura Elena Harring, che nel terzo episodio fu però sostituita da Rebekah Del Rio) e che si prendeva gioco del genere televisivo delle sitcom. Qui, Lynch introdusse i a lui cari temi dell'alienazione nei rapporti relazionali.
Un esperimento molto simile a Dumbland (2002), composto da otto corti d'animazione, originariamente pubblicati su Internet attraverso il sito ufficiale di Lynch, che seguivano la routine quotidiana di un uomo violento e rude dall'espressione sempre furiosa. A questo si aggiungono poi molti altri piccoli titoli, alcuni video promozionali per brand di lusso (il più noto, Lady Blue Shanghai dedicato a Dior con il Premio Oscar Marion Cotillard, Gong Tao, Emily Stofle, Hong Cheng, Lu Yong e Nie Fei) e spot per raccolte fondi (This Video of David Lynch Is Not What It Seems), fino al curioso What Did Jack Do? (2017), su un detective che interroga una scimmia (Marcel di Friends) sospettata di omicidio, che poi sarà seguito da altri interessanti cortometraggi.

Il debutto cinematografico
Il debutto nel lungometraggio venne invece segnato nel 1977 con Eraserhead - La mente che cancella, film sperimentale da lui scritto, prodotto, diretto e montato, sul quale lavorò per cinque anni grazie a una sovvenzione dell'American Institute, oggi considerato un vero cult del genere. Durante le riprese i problemi finanziari portarono Lynch a perdere la casa e a dormire sul set.
La pellicola rifletteva le paure e i pericoli che aveva incontrato studiando e vivendo a Filadelfia, ma soprattutto le ansie nei confronti della paternità, personificate da un mostruoso neonato. Inizialmente giudicato impossibile da distribuire, fu proiettato negli spettacoli di mezzanotte per dieci anni e ottenne un inaspettato successo di critica, che lanciò Lynch come rappresentante dell'avanguardia cinematografica postindustriale, riconoscendogli un gusto sofisticato per la composizione (esaltata da un magnifico bianco e nero), una notevole densità espressiva, una calibrata articolazione del montaggio: insomma, una padronanza del linguaggio filmico che risulterà più persuasiva quando saprà coniugarsi con quel senso del limite da cui ogni autentica forma d'arte non può prescindere.

Le prime candidature all'Oscar
Intanto, il film aveva consolidato le profonde amicizie con la crew e il cast (l'operatore Frederick Elmes, il tecnico del suono Alan Splet, l'attore Jack Nance e l'assistente alla regia, scenografa e attrice Catherine E. Coulson), che ritroverà anche nel suo film successivo: The Elephant Man (1980), un'opera che affrontava con intensità e delicatezza la storia vera di Joseph Merrick, un uomo affetto da gravi deformità fisiche nella Londra vittoriana. Il soggetto traeva origine dai testi di Sir Frederick Treves e Ashley Montagu, rispettivamente autori di "The Elephant Man and Other Reminiscences" e "The Elephant Man: A Study in Human Dignity", mentre la sceneggiatura (inizialmente redatta da Eric Bergren e Christopher De Vore, poi proposta a Terrence Malick che ne rifiutò la regia) fu rielaborata da Lynch, che vi impresse il suo stile personale, dopo essere stato coinvolto dal produttore Stuart Cornfeld e da Mel Brooks.
Lynch affrontò il tema della deformità senza nasconderla né edulcorarla. Dopo una lunga attesa, espose il volto di Merrick all'obiettivo e lo mantenne costantemente in campo, quasi chiedendo allo spettatore di accoglierlo. Una scelta che diventò un atto etico e cinematografico e che trasformò il disgusto in compassione, indagando il significato sociale e psicologico della cura e della spettacolarizzazione. Temperando l'indignazione con ironia, evitando il melodramma e mantenendo un tono civile e compassionevole, il titolo si muoveva tra horror gotico e dramma sociale, dissolvendo gradualmente la metafora mostruosa per far emergere la complessità interiore del protagonista. Alla sua uscita, fu accolto con entusiasmo dalla critica e dal pubblico, ottenendo numerose candidature ai premi più prestigiosi, tra cui Oscar, BAFTA e Golden Globe, in particolare per la regia e la sceneggiatura non originale, confermandone la forza emotiva e artistica e restando una delle opere più toccanti e raffinate del cinema degli Anni Ottanta.

L'unico film mainstream: Dune
Dopo l'enorme successo della saga di Star Wars, Dino De Laurentiis reputò il romanzo "Dune" di Frank Herbert adatto alla creazione di una nuova saga fantascientifica che potesse competere con quella di George Lucas. Contattò quindi il giovane David Lynch, che tentò uno degli esperimenti più ambiziosi e controversi del cinema di fantascienza degli Anni Ottanta. Il risultato fu un kolossal visionario, ma profondamente segnato da tensioni tra l'immaginario autoriale di Lynch e le esigenze produttive di un'industria hollywoodiana (ancora impreparata ad accogliere la complessità narrativa e simbolica dell'opera di Herbert), con tre anni di preparazione visiva, un anno di riprese negli studi di Città del Messico, oltre settanta set e seicento persone coinvolte, sei mesi di riprese e altrettanti di post-produzione. Il budget, che era stimato tra i 40 e i 45 milioni di dollari, fu ampiamente sforato, e il risultato finale, pur visivamente sontuoso, fu oggetto di pesanti tagli che ne compromisero la coerenza narrativa.
Alla sua uscita, Dune fu accolto con freddezza dalla critica anglofona, che ne sottolineò la confusione strutturale. Roger Ebert lo definì "un vero caos". Tuttavia, il pubblico reagì con maggiore apertura e, nel tempo, il film acquisì lo status di cult, soprattutto grazie alla diffusione nel mercato home video e al favore riscontrato in Europa, dove rimase a lungo ai vertici del botteghino.
Se da un punto di vista teorico, Dune fu un'opera che fallì nel suo intento narrativo ma riuscì a generare una tensione estetica e concettuale di grande interesse, dall'altro primeggiò per un linguaggio visivo barocco, disturbante, spesso criptico, anche se segnò la fine del rapporto tra Lynch e il cinema mainstream.

L'avvicinamento al noir
Segnerà una svolta radicale nella sua filmografia Velluto blu (1986), da lui scritto e diretto, inaugurando un universo estetico e tematico che si radicherà profondamente nel suo cinema successivo.
Nato da un'intuizione autobiografico-infantile, il film prese forma da un'immagine disturbante: un orecchio umano abbandonato in un campo, che diventa il punto d'innesco di un'indagine nel cuore oscuro della provincia americana. Un racconto che fuse il mistero poliziesco con il perturbante psichico, la quotidianità con l'incubo, la nostalgia con la perversione. Il grande cineasta lavorò finemente un tessuto visivo e sonoro che alternava il lirismo al grottesco, il silenzio minaccioso alla musica ossessiva (le canzoni d'epoca vennero riutilizzate in modo disturbante, diventando parte integrante della narrazione emotiva), anche grazie all'inizio della collaborazione con Angelo Badalamenti, il cui contributo musicale fu fondamentale per definire le atmosfere sospese e inquiete dell'opera lynchiana.
Velluto blu ancora oggi seduce per la sua indagine sull'ambiguità del reale, sulla coesistenza di innocenza e corruzione ed è palese che il regista Lynch propose una contaminazione continua, dove ogni gesto quotidiano poteva nascondere una minaccia e ogni figura angelica poteva rivelarsi complice del disordine. Costruito come un thriller psicologico, si nutriva di elementi visionari, simbolici, onirici, dove l'orrore non era mai esplicito, ma insinuante. La regia di Lynch fu precisa, chirurgica, capace di trasformare ogni dettaglio in un segnale e ogni pausa in una tensione in quella lunga discesa nell'inconscio, che custodiva una riflessione sull'atto di guardare e di essere guardati.
Alla sua uscita, suscitò reazioni contrastanti, ma venne candidato all'Oscar per la regia e al Golden Globe per la sceneggiatura, poi fu progressivamente riconosciuto come uno dei capolavori del cinema americano contemporaneo, un'opera che ridefinì il genere noir e aprì nuove strade alla rappresentazione del binomio desiderio-violenza.

Il capolavoro: Cuore selvaggio
Tratto dall'omonimo romanzo di Barry Gifford, firmò poi Cuore selvaggio (1990), una pellicola che incarnò con sfrontata intensità il lato più eccessivo e visionario del cinema lynchiano. Vincitore della Palma d'oro al 43° Festival di Cannes, assegnata dalla giuria presieduta da Bernardo Bertolucci, il film si presentò come un road movie atipico, una fuga amorosa che si trasformava in un viaggio allucinato tra pulsioni erotiche, violenza grottesca e deliri pop.
Interpretato da Nicolas Cage e Laura Dern, affiancati da Diane Ladd, Harry Dean Stanton e Willem Dafoe, mescolò la struttura archetipica della tragedia shakespeariana con un immaginario da fumetto erotico, saturato di kitsch e di ironia corrosiva. Esteticamente, fu infatti un'esplosione di contrasti, nei quali si alternavano momenti di brutalità disturbante a sequenze di lirismo, dissolvendo il realismo in una stilizzazione esasperata. Se in Velluto blu si intravedeva una vena sarcastica e un uso audace del perturbante, qui l'ironia si fece più esplicita, più sfacciata, più teatrale. Cuore selvaggio doveva stordire, abbagliare, destabilizzare, nel pieno del conflitto tra impulso e controllo.
Seppur dividendo la critica (alcuni lo considerarono un esercizio di stile privo di sostanza, altri ne riconobbero la potenza iconografica e la radicalità espressiva), è indubbiamente il capolavoro lynchiano per eccellenza.

L'enorme successo di Twin Peaks
Parallelamente, si dedicò alla televisione, riuscendo a superare ogni altro autore che, prima di allora, si era approcciato a quel mezzo, costituendo una delle esperienze più radicali e influenti nella storia della televisione: I segreti di Twin Peaks (1990-1991) e la sua continuazione Twin Peaks: The Return (2017).
Ideati da David Lynch e Mark Frost, le serie si imposero fin dal loro debutto come un unico oggetto narrativo ibrido, capace di fondere il melodramma da soap opera con il thriller investigativo, il surrealismo con il folklore americano, la commedia con il dramma psicologico. Il punto di partenza (l'omicidio della liceale Laura Palmer in una cittadina apparentemente tranquilla) si trasformò progressivamente in una riflessione sul male, attraverso una narrazione che si frammentava, contorcendosi dolorosamente, fino ad aprire le sue ferite davanti a dimensioni oniriche e metafisiche, avvolte in un telo di plastica semitrasparente.
La forza di Twin Peaks risiedeva nella sua capacità di sovvertire le aspettative dello spettatore, di giocare con i codici del racconto televisivo e di ricomporli in forme nuove. Il tempo narrativo si dilatava, si biforcava, si interrompeva, mentre i personaggi (che oscillavano tra archetipi e caricature) vivano momenti di intensa profondità psicologica e di ironica funzione simbolica. Lo stesso luogo (la cittadina di Twin Peaks) venne percepito dal pubblico televisivo come un organismo vivente, un posto mentale dove il confine tra realtà e sogno era costantemente violato. Lynch introdusse nella serialità televisiva l'idea di inconscio freudiano visivo, di doppio e di possessione, aprendo la strada a una televisione che non cercava solo di intrattenere, ma di inquietare e di porsi domande. Durante la sua messa in onda, la serie divenne rapidamente un cult, grazie alla sua singolarità e al distacco stilistico rispetto ai programmi dell'epoca. Tuttavia, il successo iniziale fu compromesso da pressioni produttive. L'ABC impose la rivelazione prematura dell'identità dell'assassino di Laura Palmer, indebolendo il fulcro narrativo e provocando un calo di ascolti. La seconda stagione, penalizzata da sottotrame deboli e da scelte di palinsesto infelici, fu cancellata nonostante le proteste dei fan. Il finale aperto divenne parte integrante della leggenda della serie: il sogno interrotto di una televisione che voleva diventare arte. Solo nel 2017, Twin Peaks riprese a essere abitato dai suoi personaggi, ritornando ai suoi sogni e a una destrutturazione della narrazione tradizionale, che proponeva lo stesso linguaggio visivo sperimentale, che aveva affascinato gli spettatori più esigenti e gli studiosi di cinema. La serie, abbandonando ancora una volta le convenzioni del racconto seriale, si sposò con una nuova regia ipnotica e con una costruzione temporale labirintica che stimolò interpretazioni complesse e appassionate. Pur dividendo il pubblico per la sua difficoltà e lentezza, The Return fu celebrato come il completamento di una delle opere più audaci e influenti della televisione contemporanea, venendo paragonato a capolavori della cultura moderna per la sua capacità di reinventare il linguaggio narrativo e di riflettere il caos del presente.
Si riversò persino nel cinema con Fuoco cammina con me (1992), scritto da David Lynch e Robert Engels, prequel cinematografico della serie che, più che espandere quell'universo narrativo, lo fece implodere, trasfigurandolo in una nuova esperienza visiva e psichica radicale.
Presentato in concorso al 45° Festival di Cannes, il film fu accolto con freddezza e suscitò reazioni quasi unanimemente negative. Il pubblico, abituato all'ironia e alla coralità della serie televisiva, si trovò di fronte a un'opera cupa, claustrofobica, priva di risposte e dominata dalla sofferenza di Laura Palmer, che da icona pop diventa corpo sacrificale, figura tragica, centro emotivo e simbolico di abusi, dissociazione e desiderio di fuga. Lynch abbandonò la grammatica televisiva e costruì un linguaggio fatto di ellissi, rumori, volti deformati, in cui il tempo si frantumava e l'identità si dissolveva.
Penalizzato dalla sua uscita tardiva rispetto alla cancellazione della serie e dalla sua incomprensibilità per chi non ne conosceva il contesto, col tempo, il film fu rivalutato come uno dei vertici più intensi e teoricamente densi del cinema di David Lynch, accostato a opere come Meshes of the Afternoon di Maya Deren e Persona di Ingmar Bergman. Con le scene tagliate provenienti dal film, il regista costruirà poi un film dal titolo Twin Peaks: The Missing Pieces.

Strade perdute
Nel 1997, scriverà con Barry Gifford lo script di Strade perdute, che poi verrà portato al cinema come un noir moderno volutamente enigmatico e con una struttura narrativa circolare. La storia, in apparenza, seguiva il sassofonista Fred Madison, che riceveva misteriose videocassette che lo ritraevano insieme alla moglie Renée, fino a una registrazione, che lo mostra accanto al cadavere di lei. Arrestato per omicidio, Fred subirà una metamorfosi psichica e si risveglierà nel corpo di un giovane meccanico coinvolto in una relazione pericolosa con una donna fatale. A quel punto, la vicenda si avvolgerà su se stessa, culminando in una fuga che ricondurrà Fred al punto di partenza, in un loop narrativo che sfiderà ogni linearità. Lynch lo definì una "fuga psicogena". Stratificato e citazionista, richiamò l'espressionismo tedesco, la nouvelle vague francese, il cinema noir classico e l'avanguardia americana con influenze che spaziavano fino a Hitchcock. Una manifestazione dell'ansia maschile, dove il protagonista era incapace di confrontarsi con il proprio trauma.
La ricezione del film fu polarizzata: chi cercava una narrazione tradizionale lo trovò incomprensibile, delirante ed eccessivo; chi invece accettò la sfida, ne riconobbe la potenza teorica, anticipatrice delle inquietudini del nuovo millennio.

L'atipico Una storia vera
Poi spiazzò tutti confezionando un'opera che, nella sua apparente semplicità, rivelò una profondità rara e una bellezza discreta: Una storia vera (1999), scritto da Mary Sweeney e John Roach. Sobria e radicale deviazione da quel linguaggio che lo rese così celebre, basato su un fatto realmente accaduto, il film raccontava il viaggio compiuto nel 1994 da Alvin Straight, un settantatreenne dell'Iowa che, privo di patente, decise di raggiungere il fratello malato a bordo di un vecchio trattorino rasaerba, percorrendo 317 miglia a cinque miglia all'ora. Presentato in concorso al 52° Festival di Cannes, abbiamo un Lynch in una versione inedita e priva di provocazioni, che compose con sensibilità pittorica un racconto che si snodava sotto cieli mutevoli, tra distese di grano e borghi sospesi nel tempo, muovendosi tra chiaroscuri e silenzi, nei ritmi lenti di un'America rurale che il cinema ha spesso ignorato o stereotipato. Lynch, invece, la osservava con rispetto, attraverso una regia essenziale e meticolosa. Una meditazione sulla senilità, sulla riconciliazione, sulla dignità del gesto semplice.

Il ritorno al noir onirico
Il ritorno alla sua poetica oscillante tra sogno e incubo avvenne invece nel 2001 con Mulholland Drive. Originariamente concepito come pilot televisivo, il progetto fu rifiutato dalla ABC, ma grazie all'intervento della casa di produzione francese Canal Plus e alla tenacia di Lynch, il materiale girato fu trasformato in un lungometraggio. Il risultato fu un film che conservava la struttura episodica e aperta della serialità, ma la trasfigurava in un'esperienza cinematografica stratificata. La trama, solo in apparenza lineare, seguiva Betty Elms, giovane attrice appena giunta a Los Angeles, e Rita, donna misteriosa che aveva perso la memoria in seguito a un incidente sulla Mulholland Drive. Le due si incontravano, si cercavano, diventavano amanti, e insieme tentavano di ricostruire l'identità di Rita. Esteticamente, Mulholland Drive fu straordinariamente orchestrato dalla suspense, dall'erotismo, dall'humour nero e dalla raffinatezza rétro, con una regia magnetica che impresse una riflessione sulla funzione del cinema stesso: la sua capacità di creare illusioni.
Alla sua uscita, il film fu accolto con entusiasmo dalla critica, vincendo il premio per la regia al Festival di Cannes ex aequo con i fratelli Coen, e ricevendo candidature agli Oscar e ai Golden Globe. Tuttavia, il successo commerciale fu modesto, con incassi contenuti negli Stati Uniti e nel mondo. Nonostante ciò, Mulholland Drive ha raggiunto lo status di cult, diventando uno dei film più studiati, discussi e amati del cinema contemporaneo.
Andò molto meno bene Inland Empire (2006), girato interamente in digitale, con un budget contenuto e una libertà creativa assoluta. Un film che rappresentò un ritorno alle origini sperimentali del regista, evocando l'energia disturbante di Eraserhead ma ben spingendosi oltre. La trama ruotava attorno a un'attrice che otteneva il ruolo principale in una produzione televisiva. Ma anche per lei la distinzione tra finzione e realtà si frantumava: le sembrava di vivere scene del film, o forse sognava di viverle, o forse le aveva già vissute, tra dialoghi in polacco, figure mascherate da conigli che recitavano battute surreali, palcoscenici vuoti, corridoi infiniti, apparizioni spettrali. Un film nel film, generando un cortocircuito narrativo in un mosaico nero, costituito da tasselli incomprensibili. Qui, la regia fu volutamente imperfetta, perché il digitale accentuava la grana, la saturazione, la prossimità. Sarà il suo ultimo film, anche a causa degli incassi disastrosi.

Altri lavori televisivi
Tra le altre regie televisive, oltre al già citato Twin Peaks, Lynch firmò anche una serie di tredici documentari American Chronicles (1990), seguito dalla miniserie Un catastrofico successo (1992), ideata da David Lynch e Mark Frost, trasmessa solo parzialmente negli Stati Uniti, ma integralmente in Italia. Ambientata negli anni Cinquanta, raccontava le disavventure di una stazione televisiva alle prime armi che tentava di produrre un varietà con risultati disastrosi. I sette episodi, diretti da Lynch, Frost e altri collaboratori, misero in scena una comicità slapstick e surreale, giocando con il fallimento come motore narrativo. Misconosciuta ma originale, anticipò in chiave farsesca la riflessione meta-televisiva che Lynch svilupperà in forme più cupe e complesse nei suoi lavori successivi, compreso il film tv Hotel Room (1993), composto da tre episodi ambientati nella camera 603 di un hotel, ma in periodi diversi.

I documentari
Anche documentarista, nel 2011, dopo aver diretto Where Are the Bananas? (2002), realizzò Duran Duran: Unstaged (2011), un esperimento audiovisivo che mise in collisione due mondi apparentemente inconciliabili: il glamour pop dei Duran Duran e il suo immaginario. Documentando il concerto della band tenutosi a Los Angeles nel marzo 2011, Lynch non si limitò a registrare l'evento, preferendo immergerlo in un flusso visivo e sonoro di 121 minuti, dove la performance musicale si fondeva con inserti onirici, sovrimpressioni, apparizioni spettrali e manipolazioni digitali che trasformarono il live in una sorta di sogno elettrico. Una deriva percettiva che sfidò le convenzioni del documentario musicale, con un Lynch che si fece alchimista delle immagini, filtrando Simon Le Bon e soci attraverso il suo sguardo cerebrale e sfuggente e creando un'esperienza a dir poco anomala.

I ruoli da attore
Sporadicamente anche attore, non solo partecipò ai suoi stessi cortometraggi, ma apparve anche in piccole parti di pellicole dirette da colleghi come John Byrum che lo volle in Heart Beat (1980) e Tina Rathborne in Zelly and me (1988).
Dopo aver interpretato il curioso Agente dell'FBI Gordon Cole in I segreti di Twin Peaks, continuò a fare dei cameo per Michael Almereyda (Nadja), Agnieszka Jurek (Does That Hurt You?) e Davi de Oliveira Pinheiro (The Soul Detective).
Doppiatore dei cartoni animati di Seth MacFarlane (The Cleveland Show e I Griffin), partecipò anche alla serie comica Louie (2012) e fu la voce narrante del film La festa delle fidanzate (2017) di Michael Stephenson. Ebbe poi una parte nel drammatico Lucky (2017) di John Carroll Lynch e partecipò al cortometraggio a sei mani (Sam Raimi, Catherine Hardwicke e Theodore Melfi) The Black Ghiandola (2017). Una delle sue ultime apparizioni cinematografiche fu l'interpretazione del regista John Ford nel film di Steven Spielberg The Fabelmans.

Vita privata
Vincitore del Leone d'Oro alla carriera nel 2006 e onorato con l'Oscar alla Carriera nel 2020, David Lynch si sposò quattro volte.
La prima volta con Peggy Reavey in un matrimonio che durò dal 1967 al 1974, che lo fece diventare padre della sceneggiatrice e regista Jennifer Chambers Lynch. Poi si unì a May Fisk nel 1977, dalla quale ebbe il produttore e regista Austin Jack Lynch. Ufficialmente divorziati nel 1987 a causa del legame romantico del regista con Isabella Rossellini, che poi finì dopo alcuni anni, nel maggio del 2006, sposò la compagna di una vita, la montatrice e produttrice cinematografica Mary Sweeney, madre del musicista Riley Lynch, divorziando anche da questa addirittura il mese successivo al matrimonio.
Tre anni dopo, sposa l'attrice Emily Stofle, dalla quale ebbe l'ultima figlia, Lula Boginia. I due erano sul punto di divorziare quando Lynch morì per un grave enfisema polmonare nel 2025.

Prossimi film

Drammatico, (Francia, USA - 2001), 145 min.

Ultimi film

Drammatico, (USA - 2017), 88 min.
SERIE - Thriller, Drammatico - (USA - 2017)

Focus

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domenica 5 maggio 2019
Marzia Gandolfi

Con la gioia di un bambino che scopre il colore pitturando con le dita, David Lynch trova nell'inchiostro grasso spalmato sulla pietra materia altra per le sue visioni, le sue idee e le sue figure allucinate. Nel 2007 bussa alle porte dell'inconscio e dell'antico atelier Mourlot (oggi Idem Paris), stamperia in cui vennero impressi i lavori di Matisse, Fautrier, Chagall, Miro, Picasso, e dispiega su un nuovo supporto una nuova grammatica creativa. È in rue de Montparnasse e nell'illustre matrice di una sezione della storia dell'arte che David Lynch scova la magia di impressionare la pietra, mantenendo la qualità perturbante del suo cinema tra strappi di luce e zone d'ombra profonde.
Prima di approdare al cinema, ovvero all'immagine in movimento, David Lynch era ossessionato dall'immagine fissa e dalla ricerca plastica che ha nutrito il suo cinema e viceversa, disegnando il profilo di un artista totale.

Regista, fotografo, pittore, disegnatore, attore, autore di film di animazione, musicista, sound designer, creatore di oggetti, il suo atelier a Hollywood è una fabbrica di sogni e di incubi da donare al pubblico senza istruzioni per l'uso.

Per questa ragione Lynch resta un enigma film dopo film, a punta di matita o nelle sue creazioni plastiche. Ma è poi necessario comprenderlo per lasciarsi sedurre dalle sue opere?
Evidentemente no. Per capire invece perché questo artista occupi, con la eterogeneità dei suoi interventi, un posto unico nel panorama della creazione, "La settima arte - Cinema e Industria" ('celebrazione dei mestieri del cinema' ideata ed organizzata da Confindustria Romagna, Khairos Srl, Università Alma Mater Studiorum Bologna - Dipartimento Scienze per la Qualità della vita di Rimini, con la collaborazione del Comune di Rimini) gli consacra uno spazio prestigioso all'interno delle sue giornate e dei suoi numerosi appuntamenti. Nella cornice di Castel Sismondo dal 3 al 14 maggio, gli spettatori appassionati di Lynch (e i neofiti) potranno assistere all'esposizione "David Lynch: Dreams - A Tribute to Fellini", 11 litografie nere e incandescenti che 'omaggiano' l'ultima sequenza di , la farandola finale 'sognata' da Federico Fellini e divenuta celebre come le note di Nino Rota che l'accompagnano. Il sogno come risorsa tecnica e strumento per sondare l'animo umano accomuna i due autori che si incontrano due volte a Cinecittà e nella camera crepuscolare delle rispettive anime, condividendo le fantasmagorie più insensate e le paure più ancestrali. Quei brevi incontri 'incidono' oggi la pietra litografica andando oltre la reverenza che si deve a un maestro e all'omaggio mimetico alla sua opera. Perché Lynch, affascinato dagli arcani dell'inconscio, rivisita la meccanica dei sogni di Fellini trovando una luce più nera, popolata di mostri terrificanti accomodati dietro il décor felliniano. Lynch interpreta il tratto ontologico fondamentale di tutti i (suoi) sogni: ci colgono di sorpresa come il sonno e non sappiamo mai cosa riservano.
Da Fellini a Lynch, dal sogno all'incubo la frontiera sovente è sottile e il passaggio può rivelarsi brutale. Nel cinema dell'uno come dell'altro, realtà e sogno convivono e compongono la materia organica della finzione cinematografica. Il sogno per loro non è mai ai margini dell'esistenza ma costituisce una condizione singolare dell'essere umano. Le emozioni che viviamo in sogno non sono meno reali di quelle che sperimentiamo nella veglia e Fellini come Lynch le collocano nel posto giusto e nel cuore della (loro) finzione. E quella finzione è anch'essa un sogno, il nostro sogno di spettatori. Film o 'lastre' d'inchiostro rinviano al nostro statuto di spettatori-sognatori dentro la notte cinematografica o le segrete buie di un castello. Sfogliando le litografie di Lynch, che rifanno i disegni di Fellini, è ancora una volta la sua estetica personale a parlare. A parlare del nero, degli abissi, dell'essere. A disintegrare come a rivelare, a respingere come ad avvincere, rimanendo all'erta tra le due, in un'azione dinamica che suggerisce da qualche parte qualcosa da afferrare. Maestro del sogno, la veglia nel suo cinema non ha più importanza e non è più reale del mondo onirico, abbraccia con disinvoltura il linguaggio dei fantasmi visivi di Fellini, che cura la crisi creativa del suo protagonista nei fumi di uno stabilimento termale. Speculari fin dalla prima litografia, che apre una sequenza modulata dalla luce, Fellini e Lynch dialogano sulla carta magnificamente come il primo nel celebre carteggio con Simenon ("Carissimo Simenon, Mon cher Fellini"), proiettando contenuti inconsci sulla pietra ed elaborando un complesso gioco di specchi per comprendere come si costruisce la realtà dell'uomo e riflettere sul processo creativo.

News

Muore a 78 anni il regista di grandi capolavori come Twin Peaks e Mullholland Drive. 
Alcuni dei suoi capolavori e quattro film che, alla sua opera, devono molto se non tutto. In programma fino a fine novembre.
Dal 3 al 14 maggio Rimini ospita l'omaggio di David Lynch ai sogni e ai disegni di Federico Fellini.
Rivelato anche il numero di film in concorso: saranno 35, tra cui Logan Lucky di Steven Soderbergh.
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