Con Lac aux dames, che rivelò Simenon, e con Gribouille, che rivelò Michèle Morgan, il regista Marc Allégret si fece luce, tra il ‘30 e il ‘35, nel cinema francese, restando un po’ in ombra, tuttavia, vicino ai «grandi» Feyder e Clair, Renoir e Duvivier. Dopo Orage gli si riconobbe una certa capacità di creare un’aura sentimentale depressa e mortuaria, applicando ai borghési il «gusto» che Carné stava mettendo alla moda con il disertore di Quai des brumes e con l’operaio di Le jour se lève; mentre in Entrée des artistes mostrava di non esser vissuto invano, per tanti anni, vicino all’autore delle «Caves du Vatican». Se Marc Allégret è sicuro di sopravvivere, se non come cineasta, per essere stato nominato ventun volte nel «Journal» di André Gide, il minor fratello Yves non ha altra risorsa che il cinema per tramandare ai posteri il suo nome. Avendo co minciato assai giovane, col documentario del Voyage au Congo (1927), Marc Allégret si trova forse ora, non ancora vecchio, «au bout de souffle», come dicono appunto i francesi. Yves invece s’è fatto luce nel dopoguerra: è altrettanto lucido del fratello, ha la stessa qualità d’esecuzione, le medesime doti di precisione e di gusto, con in più una forza vitale che pareva negata allo scettico intellettualismo di Marc.
I film di Yves Allégret: Une si jolie petite plage, Dédée d’Anvers, La jeune folle, sono poco noti in Italia. Erano ricchi di pathos, di singolari qualità di osservazione, gli interpreti apparivano guidati da una mano intelligente e- sicura (Simone Signoret, la sorprendente Danièle Delorme di La jeune folle); però mancava sempre qualcosa di essenziale, l’opera suggeriva un senso di non finito, di provvisorio. Con Gli orgogliosi, che abbiamo visto alla Mostra veneziana del cinema, il giuoco è fatto, per dirla alla Sartre, sotto il cui emblema il film è stato appunto girato.
Gli orgogliosi non è per nulla piaciuto, come sanno da tempo i nostri lettori attenti alle cronache immediate, né ai critici e recensori «borghesi», né a quelli di sinistra, unanimi, come sempre, quando si tratti di acquietarsi a una inanizione collegiale. Hanno gridato allo scandalo, alla necrofilia, alla gratuita crudeltà; senza peraltro accorgersi della ben più turpe e acquiescente concupiscenza nascosta nel film Letto matrimoniale, paghi al cartiglio virtuistico fuoriuscente dalle aride labbra di Lilli Palmer, che incorniciò incongruamente gli stanchi vezzi di europea medio-orientale del lauro di miglior attrice del Festival. Salvato presso i più il maleodorante copione dal vuoto formalismo sacra-mentale inalberato nel titolo, madido di un pettegolezzo da grand hotel. Proni al minimo muover di foglie, molti intenditori han gridato al miracolo di Ugetsu Monogatari, elegante disegno a tratto su ,una tela resa sterile e insensibile da cogitazioni secolari, già rese note agli europei ai tempi, decadenti, di Lafcadio Hearn; mentre si capiva solo in parte la lucida lezione de I vitelloni dell’animoso Federico Fellini, lezione che sa del Renato Serra ai tempi dell’epistolario abbandonato e nutrito (con riferimenti al giuoco e a una squallida trama d’amore) con De Robertis e Ambropini.
Il bigottismo provinciale ed incondito dei refrattari al film di Allégret ha dovuto poi battere il naso, subito dopo la chiusura della Mostra, contro quella «decenza» di cui s’era fatto paladino; quando, nell’ora del domestico caffelatte, due noti scrittori di cinema erano stati portati dai loro naturali domicili di Milano e Bologna nei chiusi recinti della risorgimentale Peschiera; quasi a significare che nella libertà delle artistiche espressioni «tout se tient», e che non si può berteggiare ciò che accade nel Messico e poi stupirsi che altri non sopporti che si accenni a ciò che fu visto sulle rive dell’Egeo. A conferma, dalla vicina Custoza, arrivavano in visita ai reclusi i loricati eroi, con mocassini indenni di polvere (come si conviene a un’annata umida di continue, benefiche piogge sulla pianura padana) del film Senso di Luchino Visconti, simbolo anch’essi, oh quanto attuale, di un accurato «j’accuse» postcavouriano. Lagnarsi dopo i cinque anni recenti di orrori, dopo Dachau e le varie «epurazioni», della puntura lombare sopportata dalla fulgida Michèle Morgan, tra le braccia di Gérard Philipe che la trattiene dai piati, equivale oltretutto a dimenticarsi di una cultura che tra Proust, Svevo e Joyce ha fatto di tutto per renderci forte il palato.
Ispirato da un copione di Jean-Paul Sartre, intitolato «Typhus», il film di Allégret racconta il dramma di una giovane donna che si trova improvvisamente vedova, in una squallida cittadina messicana, del marito colpito da un’epidemia. Nitida, elegante signora francese in un mondo concesso alla miseria, al sole, alla pigrizia, la protagonista s’accorge che al dolore per la perdita del marito si sono aggiunti due grossi fastidi; nel trambusto della malattia è stata derubata; non solo, ma il terribile morbo che ha colpito il marito si è ora diffuso tra la popolazione. La fatale cittadina è ora una prigione da cui non si può fuggire. Nell’abbandono degli affetti, respingendo le lusinghe interessate del ricco proprietario dell’unico albergo, nel tedio di una condizione non sospettata, la giovane donna trova una consolazione: un ex-medico francese, che a causa del clima ha ceduto all’alcool e che a causa dell’alcool ha procurato per imperizia la morte della giovane moglie che stava per dargli un bambino. I due si ritrovano in una particolarissima e terrificante condizione umana: essi soli hanno coscienza del dolore, dell’angoscia e dell’orgoglio del mondo. Si rivelano l’uno all’altra quando crepitano i mortaretti ,e risuona lo scampanio della settimana santa, e mentre i primi colpiti dall’epidemia cadono come mosche.
Gli orgogliosi non è certamente un film da consigliare alle educande o alla gente nervosa cui del resto il cinema riserva tanta di quella pappa molle che esse possono benissimo farne senza. Appare tuttavia chiaro che il film di Allégret è un’opera forte, chiusa, interessante, con soluzioni intelligenti e veraci (la rivelazione amorosa scaturita da un abbraccio occasionale), con caratteri ben delineati, un ambiente fisico ripreso sui luoghi con occhio intelligente e partecipe. Si può osservare, a puro titolo di curiosità culturale, che come film Gli orgogliosi ha alcune parentele, ma soltanto di brevi elementi figurativi, con un altro bel film tartassato dai virtuosi, Vite vendute di Clouzot, e come ispirazione letteraria ha qualche punto di contatto con l’eccellente romanzo dell’ex-antico di Sartre, cioè con La peste di Albert Camus. Il commento musicale, tutto di testa ma assai suggestivo, l’interpretazione mirabile di Michèle Morgan e quella, efficace ma tenuta un po’ in ombra, di Gérard Philipe, conferiscono poi a Gli orgogliosi quelle doti di perfezione formale, quell’accento di artigianato intelligente ed al corrente con la cultura che sono la migliore dote dei più riusciti film francesi.