Joseph Losey (Joseph Walton Losey) è un regista, produttore, è nato il 14 gennaio 1909 a La Crosse, Wisconsin (USA) ed è morto il 22 giugno 1984 all'età di 75 anni a Londra (Gran Bretagna).
Ci sono stati nella storia del cinema tre o quattro nativi americani che hanno invertito il flusso migratorio tradizionale E, trasferitisi a Londra per ragioni diverse, si sono istintivamente “acclimatati” e dalla loro nicchia si sono trasformati in acuminati osservatori della psicologia, delle idiosincrasie, dei costumi britannici. Talvolta, all’apparenza, più inglesi degli inglesi: giovani, come il giornalista Alexander Mackendrick (Goffredo Fofi ci parla dell’autore della Signora Omicidi), il regista televisivo Richard Lester, il disegnatore Terry Gilliam, o già affermati registi cinematografici, come Stanley Kubrick e, poco prima di lui, Joseph Losey, morto vent’anni fa, il 22 giugno 1984, residente in Inghilterra dal 1953 al 1976, quando si stabilì in Francia. Considerato negli anni 60 e 70 uno dei grandi del cinema internazionale, ingiustamente dimenticato negli ultimi vent’anni, l’autore sottile del gioco al massacro delle classi e dei vincolo opprimente del passato, dell’insinuante ambiguità sessuale e della sprezzante noncuranza morale, era nato nel 1909 nel Wisconsin, figlio di un avvocato di origine olandese, a vent‘anni era diventato attore dilettante e giornalIsta, poi direttore di scena al Radio City Music Hall di New York, allievo delle lezioni di cinema di Ejzenstejn a Mosca (nel 1935 durante un viaggio in Europa), supervisore e regista di innumerevoli cortometraggi pubblicitari, e aveva allestito nei teatri newyorkesi degli spettacoli influenzati dalle idee di Brecht. Il suo maggior successo arrivò nel 1947 quando, di n-torno dalla guerra, mise in scena a New York un celeberrimo Galileo in-terpretato da Charles Laughton, per il quale lavorò direttamente con Brecht. Il cinema drizzò le orecchie, i soggetti sociali, duri e stringati, erano all’ordine dei giorno nei dopoguerra, e Losey di-resse cinque film per Hollywood, costi medio bassi, tre settimane di lavora-zione ciascuno, forte tendenza al noir. Fu durante la lavorazione dei sesto (Imbarco a mezzanotte‘), in Italia, che gli arrivò la convocazione per testimoniare davanti al Comitato per le attività antiamericane del senatore MacCarthy. Era il 1951, il culmine della “caccia alle streghe”: qualcuno aveva fatto il suo nome come comunista. Losey preferì terminare le riprese del film, ma quando tornò in America era già stato inserito nella lista nera e Hollywood gli aveva sbarrato le porte. Prima di essere processato, emigrò in Inghilterra, dove lavorò per un po’ sotto pseudonimo (Andrea Forzano, Joseph Walton) e non disdegnò i generi, il mélo fiammeggiante (La zingara rossa) e il noir barocco (Eva, sottovalutato), la fantascienza sociologica (Hallucination, prodotto dalla Hammer) e soprattutto il poliziesco, dove delineò due storie labirintiche (Giungla di cemento e L’inchiesta dell’ispettore Morgan) che anticipano i suoi tratti dominanti, la claustrofobia scenografica e il minuzioso scavo sociale. Finalmente, nel 1963, il capolavoro, il film che colloca Losey tra i maggiori autori moderni. Quasi completamente chiuso in un appartamento della Londra che conta, ossessionato dallo sguardo penetrante e dal sorriso sfuggente di Dirk Bogarde, allucinatorio e suadente, Il servo racconta un mondo terminale e disfatto, dove la lotta di classe ha i bassi crudeli della sopraffazione sessuale, dove si può solo languire e marcire e specchiarsi negli occhi dei proprio nemico. L’incontro è folgorante: il barocco razionale di Losey e l’acume tagliente dello sceneggiatore Harold Pinter vivisezionano l’anima della borghesia, l’ipocrisia che incarna i rapporti d’amore e di amicizia (L’incidente), la forza d’inerzia di un mondo immutabile (Messaggero d’amore). Lbsey è il narratore nitido e contorto della crisi morale e ideale degli anni 60 e 70: tutto, l’esercito, la famiglia, la coppia, la politica, è una prigione tessuta in un’inestricabile tela di ragno; gli interni stritolano i personaggi, il buio li inghiotte, la macchina da presa li fruga senza pietà; persino nel suo unico film open air (il notevole Caccia sadica, scritto dall’autore e dal protagonista Robert Shaw) non si può sfuggire al percorso chiuso di una landa senza nome. Il fatto che Losey sia più volte incappato in incidenti di percorso (La scogliera dei desideri da Williams, insopportabilmente pomposo e fagocitato dalla strabordante coppia Taylor/Burton) non significa che non sia stato uno dei più inquietanti “ritrattisti” dei 900, pessimista, cinico, morboso, duplice, ossessionato dall’impotenza distruttrice del genere urnano e dai buchi neri dei passato che, come dice la citazione lancinante da Hartley che apre Messaggero d’amore, «è un paese straniero».
Da Film Tv, 26, giugno 2004
«Non saprei dire se i miei film abbiano la misura della tragedia. Ce n'è uno che vorrei fare da molti anni: una tragedia greca moderna raccontata, grosso modo, in forma di tragedia greca classica. Se un giorno riuscirò a farlo, e come e dove voglio, avrà finalmente la dimensione tragica. Sono delle tragedie i miei film? Ne dubito. Le storie che raccontano sono tragiche, questo sì: sono storie di uno scacco e di una distruzione umana. Alcune risultano sconvolgenti, ma non penso siano delle tragedie vere e proprie. Credo che i miei film siano drammi che contengono certi elementi tragici».
(Joseph Losey, 1963)
«Tutta l'opera più matura di Losey è influenzata da Brecht, e si muove intorno a un centro d'interesse essenziale», affermava Goffredo Fofi in una stimolante Introduzione a Losey apparsa sul n. 21, 1965, dei «Quaderni piacentini», e ripubblicata ora in «Capire con il cinema», Feltrinelli, Milano, 1977, p. 41: «adattare e ricreare per il cinema - nei limiti e nelle caratteristiche di quest'arte così vicina e così diversa dal teatro - il principio di straniamento […]. Losey dovrà prima superare un lungo periodo di entusiasmi ancora "rooseveltiani", dovrà fare anche i conti con i produttori e con le vicende politiche del suo tempo, dovrà dirigere film in cui non crede e che gli interessano poco».
Non entrando (per ora) nel merito della osservazione di Fofi sullo straniamento, ne condividiamo, piuttosto, il richiamo a non trascurare il peso degli "entusiasmi rooseveltiani" nella formazione ma anche nel lavoro successivo del regista, se pure in modi sempre più distaccati e delusi. Assai prima di conoscere Brecht e di mettere in scena, con lui e Charles Laughton, l'ormai leggendaria edizione americana di Vita di Galileo (Hollywood/Pasadena 1974), il giovane Losey aveva mostrato un acuto interesse per il teatro di denuncia e di agitazione. Sullo sfondo della grande crisi («sono stato educato in uno splendido isolamento dalla politica, e durante gli anni dell'università continuai a ignorare le realtà sociali e gli sconvolgimenti che esse generano, fino a quando fui gettato in uno dei più grandi, la depressione che segui il crack del 1929»), il teatro dovette sembrargli una delle forme più aggressive di "intervento". Lo confermano il viaggio in Europa (1935), gli incontri con Piscator (di cui tradusse Il teatro politico) e con Meyerchold, e soprattutto, nell'ambito del Federal Theatre di Hallie Flanagan, l'esperienza del Living Newspaper. Il «giornale vivente», ricorda Losey stesso, «era un teatro politico che ricorreva ai mezzi del mimo, della danza, del teatro, del cabaret e del cinema. Un tentativo di rompere con le abitudini del teatro tradizionale, di creare nuovi rapporti tra pubblico e spettacolo. La compagnia comprendeva oltre trecento persone, artisti, attori, ballerini e musicisti; più altre cinquanta o sessanta che si occupavano della parte letteraria, cioè della documentazione e della preparazione dei testi. Facevamo quattro rappresentazioni al giorno, a prezzi estremamente bassi. Ma non è durato: dopo tre anni, nel 1939, furono soppresse le sovvenzioni federali in seguito a un'inchiesta della commissione per le attività antiamericane».Una nozione e una pratica del teatro come "collettivo", al livello della scrittura scenica della comunicazione, alla quale non erano certo estranei gli incontri europei di Losey e che avrebbe dovuto segnare anche il progetto, elaborato con Elia Kazan e Nicholas Ray, del Social Circus, fondato sulla commistione deliberata e provocatoria di tecniche e "generi" diversi e contrastanti.
Il senso, se non il taglio, di alcune di queste esperienze si ritroverà nei primi film americani del regista (Il ragazzo dai capelli verdi, 1948; Linciaggio, 1949), sottesi ancora da una vigorosa indignazione nella denunzia delle conseguenze della guerra e del razzismo. Rivisto oggi, Linciaggio scopre impietosamente tutte le rughe di una confezione datata e artificiosa: il Losey di "poi" affiora soltanto nella cattiveria con cui è guardata questa "middle class" provinciale che scarica le proprie frustrazioni nel "big carnival" della montatura razziale e della violenza. Il regista, comunque, sembra ancora fiducioso nella possibilità di una mobilitazione collettiva contro le forze irrazionali che premono nell'anima "oscura" della nazione. Ma nel volger di pochi anni, dentro l'incubo della guerra fredda e dell'insorgente maccartismo di cui anche Losey subirà i colpi, l'interesse del regista si sposta nettamente dalla denuncia appassionata degli effetti di un sistema sociale sopraffattore all'analisi acre, spesso tortuosa e intricata, delle ripercussioni di quell'ordine-disordine istituzionalizzato sui comportamenti e sulle "deviazioni" individuali. Film irrisolti e tormentati come gli ultimi del periodo americano (Sciacalli nell'ombra, 1950; il significativo "remake" del langhiano M, sempre nel '50) o i primi del periodo inglese (L'amante misteriosa, 1955; L'alibi dell'ultima ora, 1956) non si possono spiegare soltanto richiamandosi alle difficoltà oggettive (l'urto con i produttori, l'ostracismo politico, il problematico inserimento nell'establishment inglese), difficoltà certo esistenti e pressanti, ma implicano un radicale ripensamento dell'"ottimismo" rooseveltiano e una diversa, più acre, consapevolezza di quanto siano profonde, e tutt'altro che rimosse, le radici del "male".
Di qui, tra l'altro, la sfiducia nella possibilità di smuovere emotivamente lo spettatore dallo stato di torpore e di assuefazione cui lo riduce la comunicazione dominante, e la tendenza, piuttosto, a spezzare la catena della ricezione passiva (che tale resta anche quando sia investita da contenuti "progressisti" mediati attraverso moduli comunicativi correnti): «credo sia importante far partecipare lo spettatore al film, a condizione di saper spezzare questa partecipazione al momento voluto». E ancora, citando esplicitamente il nome di Brecht: «egli mi ha insegnato l'attenzione scrupolosa al dettaglio in tutti i campi: immagini, parole, gesti, movimenti, suoni, musica». E, con l'ambizione abbastanza scoperta di riformulare un piccolo "breviario" cinematografico, questi i punti della lezione brechtiana che Losey mostrava di reputare essenziali, per il cinema in genere e per il proprio lavoro in particolare: «La messa a nudo della realtà e la sua precisa ricostruzione attraverso una scelta di simboli-realtà. L'importanza della precisione del gesto, della intelaiatura e della linea negli oggetti. L'economia nel movimento, attori e camere; non far muovere nulla senza scopo; la differenza tra calma e staticità. La messa a punto dell'occhio con l'impiego esatto degli obiettivi e dei movimenti di macchina. La fluidità della composizione. La giustapposizione dei contrasti e la contraddizione, grazie al montaggio e attraverso il testo, è il modo più semplice di ottenere il famoso "effetto" di straniamento: l'importanza della parola, del suono, della musica esatti; l'esaltazione della realtà per nobilitarla; l'allargamento della visione dell'occhio individuale».
«Ciò non significa» preciserà Losey in altro contesto «che io non desideri colpire emotivamente lo spettatore… Voglio che sia colpito dal pensiero… e da una identificazione ben più incisiva del solito bagno emotivo»: «un'emozione più cosciente, che nasca dall'estetica e dalla riflessione». Di qui un'enunciazione di poetica che equivale, ancora, a un ripensamento del proprio modo di fare cinema negli anni del dopoguerra: «…il mio interesse verso l'"intreccio" è diminuito, mentre è aumentato quello verso il tema, il personaggio, l'ambiente […]. Se esaminiamo i drammi greci e quelle poche decine di intrecci basilari che tutti conosciamo, notiamo che tutte le trame sono ormai prevedibili dalla maggioranza degli spettatori. Di conseguenza, il motivo per raccontare una vicenda e la differenza nella sua presentazione in termini cinematografici possono consistere soltanto nella diversa visione del fatto e nel modo in cui l'immagine è integrata da dialoghi e altri suoni».E alla banale obiezione secondo cui i dialoghi dei suoi film risulterebbero spesso "teatrali", Losey potrà replicare, coerentemente, che si tratta di una scelta che tende a «permettere al pubblico di comprendere ciò che accade realmente, per quale via, in quale momento alcuni giungano alla conoscenza, per permettergli, infine, di arrivare, lui stesso, a quella conoscenza».
E tuttavia si dovrà subito ricordare (non per stabilire confronti "ideologici" o giudizi di valore ma per segnare concrete divergenze di svolgimenti e di interessi) che mentre il discorso brechtiano tende sempre più a discostarsi, nel tempo, dalle ragioni autobiografiche, e a misurarsi, sul terreno e nei modi della parabola, con i grandi conflitti dell'epoca, l'itinerario loseyano seguirà un percorso sostanzialmente opposto. Se può sembrare legittimo, ma fino a un certo punto e con molte cautele perché le due vie spesso si intrecciano e confondono (si pensi, in particolare, a L'incidente o a Mr Klein), distinguere nel regista due anime - una (dei primi film americani, di I dannati, di Per il re e per la patria, di Trotsky) di esplicita denuncia della violenza del potere, l'altra (Eva, Il servo, L'incidente, Cerimonia segretav, Messaggero d'amore) tutta rivolta all'analisi tortuosa e insinuante dell'alienazione dei rapporti soggettivi e intersoggettivi nella società del capitale -, è senz'altro la seconda che poi prevale e diventa pressoché esclusiva. Non solo: il Losey migliore è quello che applica uno sguardo sempre più disincantato ai risvolti più ambigui e malati di quei rapporti in uno sforzo di lucida penetrazione.
Se a chi lo interpellava, all'inizio degli anni '60, sul tema di un eventuale film autobiografico, il regista poteva rispondere: «Evidentemente, il tema di fondo sarebbe quello delle mie origini» '63 è poi vero che la spinta e la riflessione autobiografica sottende, al di là dei singoli film o progetti di film, tutto il cinema di Losey. Ma all'interno di una scrittura drammaturgica densa e stratificata che, in un fitto gioco di emergenze e ripiegamenti, si raccoglie intorno ai nuclei apparenti del conflitto solo per tornare a scioglierli e rovesciarli nella loro ambiguità costitutiva: «Credo nella vita, amo la vita e gli esseri umani, come massa e come individui» replicava vivacemente Losey a chi lo accusava di pessimismo. «Spero che questi sentimenti e questa disposizione risultino evidenti nei miei film. Quel che c'è in essi di violento è una conseguenza. Amo talmente la vita da ribellarmi violentemente contro coloro che la soffocano, la distruggono o corrompono». E anche per lui, all'interno della grande tradizione dell'autocoscienza borghese nella quale la lezione di Marx si complica e si intreccia sempre più strettamente con quella di Freud e della psicoanalisi, il punto nevralgico di verifica della patologia sociale sta nel rapporto erotico, là dove la soggettività appare particolarmente schiacciata e distorta (si pensi alla trilogia Servo-Incidente-Messaggero d'amore, ma anche a Eva, Cerimonia segreta, La scogliera dei desideri e, risalendo nel tempo, ad alcuni film del periodo americano). Qui la sproporzione tra le potenzialità esistenziali e la mortificazione sistematica che esse subiscono appare violenta e non componibile: «Ogni essere umano aspira, almeno una volta nella sua vita, alla pienezza, però se questa non si realizza nella coppia, non si realizzerà in nessun altro aspetto […]. Perciò una società che provoca la distruzione di una coppia con la monotonia non può essere una società buona».E a proposito di Eva: «Eccoci di nuovo alla coppia, un uomo libero, una donna libera, un uomo e una donna ugualmente liberi, questa è la verità, questo è lo stato di innocenza».
L' aspirazione alla pienezza e l'impossibilità di raggiungerla, la frustrante alternativa tra reciproca distruzione e sopravvivenza di un rapporto fittizio, la logica del dominio e dell'espropriazione che si insinua e riproduce ferocemente nel rapporto sessuale, diventano i luoghi e le coordinate antinomiche del cinema di Losey. Non a caso, a proposito della "guerra dei sessi" spesso citata dal regista e della coppia come inferno, tra i progetti non realizzati di Losey c'è stato anche Il Padre di Strindberg. E questo può spiegare, almeno in parte e sulla linea di una certa "evoluzione" del dramma moderno, la stretta e lunga collaborazione con uno scrittore come Pinter, cos? Disponibile fin daLa stanza, sua prima commedia, ai labirinti, verbali e no, e al "nonsense" di quelle assurde case e famiglie dove suppellettili e persone, oggetti e parole, gesti e silenzi, ripetizione quotidiana e improvvisi deliri appaiono del tutto reciproci e intercambiabili.
Ma nella collaborazione, l'apporto di Losey tende poi a caratterizzarsi e riconoscersi in una immaginazione visuale ricca, "eccessiva" ma quasi sempre raggelata. Sovraccarichi di mobili, oggetti sfuggenti e preziosi, specchi che rimandano immagini allucinate di solitudine e desolazione, improntati a un "décor" minuziosamente studiato e previsto attraverso il procedimento del "pre-designing", gli interni loseyani, mentre sembrano perseguire una caratterizzazione ambientale o d'epoca, diventano la scena arroventata dei "jeux de massacre", subdoli o feroci, che si scatenano dietro la facciata protettiva e rispettabile della casa (si ricordino la prima e l'ultima inquadratura di Il servo). Sul senso e sul valore della "visività" nel cinema, Losey è tornato spesso: «i registi oggi non sanno più vedere: un buon film deve essere perfettamente intelligibile anche a prescindere dal dialogo […]. Voglio dire soltanto che il linguaggio cinematografico per me è essenzialmente visivo». E ancora, meno apoditticamente: «Io credo fermamente nel linguaggio essenzialmente visivo del cinema […]. Ciò non significa che noi dovremmo ancora girare film muti né minimizzare l'importanza dello sceneggiatore, delle sue parole o del suono o della musica. Anzi, come regista, mi accorgo che la battaglia con gli interessi commerciali per ottenere gli effetti sonori desiderati e un equilibrio fra suono, musica e parole non è meno ardua di quella per ottenere l'immagine voluta».
L'abbandono delle illusioni "riformatrici", che è già tutto scritto nel timbro "nero" di alcuni film del periodo inglese (penso, in particolare, al trattamento ossessivo e nevrotico al quale il genere viene piegato in L'inchiesta dell'ispettore Morgan, 1959; o all'esasperato romanticismo di Giungla di cemento, 1960), è sancito nettamente da I dannati (Hallucination, 1961). Film fantapolitico nelle apparenze, I dannati esibisce ruvidamente le antinomie ricorrenti di quella che si può ormai definire la negazione loseyana: la rispettabilità formale del potere (non a caso anche questo film si apre con la carrellata-panoramica su un monumento, quello a Giorgio III) e i suoi segreti abietti e inconfessabili («i servitori del popolo sono gli unici servitori ad avrete segreti per i loro padroni», commenta ironicamente la scultrice), le apparenze tranquille della realtà e la sua sostanza disgregata e sconvolta (si veda il finale: l'immagine calma e rassicurante del mare, delle barche, e le implorazioni di aiuto dei bambini "staccate" nel sonoro).
La mostruosità del protagonista non consiste solo nell'aver organizzato quel mondo sotterraneo e nell'amministrarlo secondo certe regole (per conto terzi, comunque, e non per follia individuale), ma nella persuasione che la catastrofe sia inevitabile: «niente» risponde alla scultrice che gli chiede che cosa si possa fare per evitare il "grande momento". Perfettamente integrato nell'esistente, e nel potere che ne garantisce la continuità, egli pensa che, nel paesaggio di cenere che l'esplosione si lascerà dietro, l'organizzazione della vita riprenderà come prima: di qui il "reclutamento" e l'addestramento dei bambini a perpetuare questa vita, secondo la gerarchia di regole e rapporti autoritari che la organizza. Losey delinea, più esplicitamente che altrove, il quadro di riferimento, la cornice politica in senso lato, in cui si dovranno collocare le rovinose parabole dei film successivi. Dopo Eva (sul quale, notoriamente, il giudizio è impossibile, data la devastazione che ne fu fatta in sede di montaggio), Il servo (1963) si risolve pienamente, senza residui didascalici, nella rappresentazione di una morte procurata per seduzione e affermazione dell`altro", dello svuotamento di un uomo, intimamente e socialmente "predisposto", da parte del suo "doppio" antagonistico e speculare.
Il bersaglio del feroce "jeu de massacre" è costituito, ma solo pretestualmente, dalle classi alte inglesi delle quali il giovane Tony può essere considerato un significativo esemplare, e l'accento batte, inizialmente, sull'aridità e sulla noia di tutto un modo di vita (si veda, tra l'altro, la visita all'anziana coppia uscita pari pari da una commedia di Pinter: la conversazione è fatta soltanto di parole). Di questo modo di vita Barrett, il servo, coglie il centro nevralgico di corruttibilità nella repressione erotica e nelle sue latenze sadomasochistiche e omosessuali. La "conquista" procede secondo una logica a suo modo inflessibile: immedesimazione totale nella propria parte («sono il servo», risponde Barrett a Susan) sino al limite della perfezione e del virtuosismo, lucida consapevolezza dell'impotenza e del velleitarismo del padrone, volontà-capacità di esasperarli spingendoli a un grado di tensione insopportabile ed esplosiva. Ma nella vischiosità mortale del rapporto trionfa soltanto la sostanziale volgarità che accomuna, nel processo di degradazione, i due personaggi: dominatore e dominato rimandano allo stesso ordine del discorso, già tutto scritto e non reversibile.
L'incontro con Pinter si rivela determinante nel taglio intellettuale della "dimostrazione" (quel «problema del predominio e della schiavitù» che il commediografo ammetteva ricorrere nei suoi lavori) '69 e, soprattutto, nella struttura di certi dialoghi spezzati e incongruenti. Ma è evidente, nella collaborazione, lo scarto e traspare continuamente perché, se Pinter predilige l'iterazione generalizzata dell'assurdo, Losey tende a descrivere un processo "necessario". «Questo è un film su coloro per i quali il servilismo è un modo di vivere» affermava Losey. «Poteva intitolarsi Servilismo, di tutti i generi. Oppure si può dire anche che ha per tema il violento scontro fra i vecchi e i nuovi costumi, questi ultimi riconosciuti con la mente ma ignorati nella pratica e nell'etica» "'.
La produttività, ma anche il limite, dell'apporto pinteriano si avverte nell'aura di astrazione in cui la "critica" rischia di irrigidirsi ed esercita la controspinta su Losey a dislocare e risciogliere l'apologo su un altro terreno: si veda la sinuosità sotterranea e avvolgente che istituisce e conduce il rapporto, la crudele inflessibilità con cui viene percorso e ripercorso il circuito di smascheramento-scacco reciproco che salda e dissolve i protagonisti. È anche certo che la vischiosità, sia pure di timbro allucinato e mortuario, di molte sequenze della seconda parte non ha molto in comune con lo "sguardo" brechtiano, di cui hanno parlato Dort e altri, e rimanda, piuttosto, al grande albero genealogico del romanticismo nero (da Poe sino a Wilde), ripreso con molta consapevolezza derisoria e sottilmente rifunzionalizzato nella impassibilità della scrittura. Ne viene, comunque, la netta conferma che gli esiti più persuasivi di Losey non si dovranno rapportare ai modi di una "critica" esplicita e motivata (I dannati è una parziale eccezione) ma, piuttosto, al furore dissimulato e impietoso con cui il regista viene disvelando l'orrore e la morte che si annidano nel cuore della rispettabilità e della norma.
Decisivo in questo senso, dopo l'intermezzo tutto esplicito e sopra le righe di Per il re e per la patria (1964), il ritorno alla tematica borghese-familiare, con L'incidente (1967), e il processo di intensificazione che questa "chiusura" comporta. Due brevi dialoghi, soltanto accennati e interrotti, lasciano affiorare in superficie, come certe parole o situazioni-spia, il discorso profondo di un'opera il cui luogo privilegiato è l'ambiguità, voluta e cercata con una tensione stilistica non nuova in Losey ma ora pienamente dominata. Il protagonista, maturo professore oxfordiano, incontra a Londra un'amica alla quale, dieci anni prima, era stato legato da una relazione che si intuisce (o si forge, nella memoria) esclusiva e contrastata. Dopo una notte trascorsa insieme, la donna gli chiede se la trovi cambiata e lui risponde quietamente di no, che non è cambiata affatto: «sei sempre la stessa, la stessa», insiste. Lo sgomento che si può cogliere sul volto di lei richiama, come in un lampo, una ben nota (e tra le più fulminee) "storia da calendario": quella del signor K., che impallidiva sentendosi dire da un tale che non vedeva da molto tempo: «Ella non è per nulla cambiato». L'altro dialogo si svolge poco prima del forale, quando il professore, per rassicurare la moglie, preoccupata che il loro terzo figlio appena nato respiri a fatica, le obietta, sempre quietamente, «sì, ma respira».
Marginali nell'economia narrativa del film, le due situazioni restano nella memoria perché Losey, ne L'incidente, non fa che descrivere questo: un mondo nel quale gli uomini non cambiano ma vegetano e invecchiano uguali a se stessi, un'aria sempre più rarefatta in cui respirano a fatica ma respirano. La negazione di una società che resiste soltanto per inerzia e assenza di alternative si applica ora al mondo accademico, fissato in alcune sequenze d'ambiente non particolarmente insistite, anzi, tirate via con una certa impazienza ma lasciando il segno, mentre la linea sinuosa della rappresentazione tende a raccogliersi e fermarsi su alcune figure portanti: Stephen, oppresso da frustrazioni e rancori impotenti dietro i modi di una distaccata rispettabilità, e il suo amico Charley, euforico ed estroverso, fortunato nel lavoro e con le donne quanto l'altro appare incerto e perplessa.
In realtà, l'inettitudine di Stephen e l'attivismo di Charley non sono affatto incompatibili: uomini senza qualità, per i quali il lavoro è soltanto una professione da misurare in termini di sicurezza economica e di prestigio sociale; circondati dall'affetto rassicurante e tedioso di mogli materne o di amanti comprensive, vivono in un ambiente le cui tradizioni di alta cultura e di egemonia intellettuale sembrano sopravvivere soltanto nella severità delle mura, dei loggiati, delle aule accademiche. Ma il punto di forza del racconto non è certo il ritratto morale di un personaggio: ricostituita con puntigliosa applicazione, la maschera del personaggio viene caricata dall'interno, nella pressione sinuosa del racconto, di tutto lo scompenso che la corrode. Come nel Servo, lo smascheramento avviene sul versante erotico, il più inerme ed esposto: è sufficiente l'arrivo di una attraente studentessa austriaca perché si metta in moto non il dramma, impossibile in un contesto così mediocre e prudente, ma un complicato e tortuoso romanzo d'appendice. Ma se per Charley la relazione con Anna ricalca puntualmente lo schema di uno di quei racconti conditi di molto sesso e di un pizzico di sociologia, e dunque irrimediabilmente ordinari, che egli scrive per la televisione, per l'irresoluto Stephen il rapporto si presenta ambiguo e tormentato sin dall'inizio.
Affiora la sua sostanziale impotenza e incapacità di scelta, evidente anche nell'ambigua simpatia con cui guarda, e in parte favorisce, il doppio rapporto della ragazza con Charley e con il giovane William: una continua, torturante proiezione della inerzia di Stephen, e del suo terrore della senilità, nei successi brutali del collega e nella giovinezza, in apparenza così disinibita e smagliante, del ragazzo. In questo groviglio di rimozioni e di squallidi sottintesi sarà proprio il ragazzo a rimetterci la vita, nel banale incidente d'auto che dà il titolo al film. Il colloquio, "da uomo a uomo", che il giovane aveva chiesto al suo professore non avverrà, lasciando in sospeso una domanda inquietante. Ma per poco. Partita la ragazza, tutto torna come prima.
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005
Dicevamo della tensione stilistica che regola tempi narrativi calibratissimi, il movimento alternativamente distaccato e insinuante del racconto, nitido e avvolgente, sempre sotto traccia. Sceneggiatore e regista evitano rigorosamente lo scarto espressionistico e la frase sopra le righe: quello che viene descritto è un mondo che sopravvive a se stesso, con lugubre condiscendenza. I conflitti non arrivano mai, né potrebbero, alla tensione risolutiva: i personaggi rifiutano sistematicamente di riconoscersi e, quando i fatti si incaricano di smascherarli, si apprestano pazientemente a rimettere insieme le labili apparenze di una identità smarrita da tempo o mai posseduta. La sinuosità catturante della forma diventa scrittura del comportamento di una soggettività frustrata, continuamente riassorbita nella propria inerzia.
D'altra parte, se lo scetticismo degli "educatori" nasconde solo aridità e impotenza, la violenza che affiora, e a tratti esplode nelle brutali competizioni dei ragazzi, in una crudeltà ammessa e regolamentata, è solo il sussulto di un organismo sociale profondamente minato. Qui anche la tragedia degrada e svilisce nella banalità di un incidente d'auto. Trionfano, nella calma mortale della conclusione, il nitore freddo del paesaggio e la levigatezza degli oggetti: nella quiete delle cose la presenza di quegli uomini, e delle loro mediocri vicende, è solo una stonatura. Losey descrive senza remissione una società accartocciata nella cenere che la fa sopravvivere: L'incidente abbraccia in un unico sguardo distanziato e impossibile servi e padroni, discepoli e maestri, dominati e dominatori. L'assenza di spiragli e di punti di fuga è totale, e la parola fine non può che siglare l'avvenuto processo di claustrazione.
Lo stesso discorso, con approccio diversissimo e altrimenti drastica determinazione, si ripresenta in Caccia sadica (1970) dove torna l'ambizione della metafora totalizzante, che comporta un provvisorio distacco dagli interni asfittici nei quali si consumano i rapporti tra servi e padroni e la "guerra dei sessi", per attingere un'immagine più vasta, ma anche più violenta e provocatoria, dell'alienazione che regola comportamenti e rapporti. Non a caso, Losey sembra ritrovare una situazione ricorrente nei primi film americani (Linciaggio, Sciacalli nell'ombra, ma anche altri): la condizione dell'uomo braccato. Ma se in quelli la fuga riceveva una sua determinazione precisa dagli uomini e dalle forze in conflitto (l'odio razziale, ad esempio), ora essa si spoglia di qualsiasi limitazione realistica, deludendo i meccanismi di riconoscimento e di compensazione dello spettatore. Dei due uomini in fuga non sappiamo, e non sapremo, nulla al di qua o al di là della loro condizione attuale di perseguitati: li seguiamo/inseguiamo in una corsa disperata attraverso le montagne, accompagnata da delitti feroci e gratuiti, nel tentativo, forse, di raggiungere "le nevi", oltre le quali c'è la salvezza. Né meno indeterminata, in questo paesaggio impervio e desolato, appare la condizione dei loro inseguitori, sicari stilizzati di un potere fantomatico di cui non si comprende la logica ma si subisce la crudeltà. Penso alle straordinarie sequenze, la prima in particolare, dell'inseguimento dei fuggiaschi da parte dell'elicottero, che in un'antologia del cinema della minaccia e della persecuzione entrerebbero di pieno diritto. Il mostruoso avvoltoio sfiora le teste dei due uomini, ruota intorno a loro, sempre più vicino, li lambisce, si risolleva solo per ripiombare con torva allegria su quei poveri insetti impazziti, riprende a seguirli ora blandamente ora con furiosa determinazione di morte, in un gioco calcolato la cui spietatezza mira a-destituire l'avversario di ogni superstite "dignità", riducendolo al grido e alla nuda implorazione biologica.
È chiaro fin dall'inizio che si tratta, anche qui, di una situazione chiusa senza scampo né alternativa: l'esecuzione" è soltanto rinviata, e in questo senso ha ragione Ansell quando dice che lui e il compagno di fuga sono già morti Gli uomini che li attendono al limite delle nevi hanno lo stesso profilo, irrigidito e mascherato, degli inseguitori: il più vecchio dei fuggiaschi perirà in un ultimo, disperato, duello con il mostro che viene dal cielo; il più giovane, abbandonato dal regista con una panoramica altissima, sparirà confondendosi nell'anonimato di quell'altro esercito senza bandiera, per dare e ricevere morte a sua volta. La metafora persuade quanto più Losey ne accentua il carattere estremo: la solitudine del paesaggio, la condizione indeterminata dei fuggiaschi e degli inseguitori, la fisicità della paura e del bisogno sui volti dei due uomini per i quali ogni cosa o incontro significa solo estraneità o insidia. Non convince proprio quando sembra voler cercare una "verifica" meno chiusa (il timbro "vietnamita" delle immagini dell'incendio e dei contadini che, stretti tra la guerra che viene dal cielo e quella della terra, cercano di salvare stentati raccolti). Sappiamo che queste "incongruenze" non riguardano soltanto Caccia sadica, e sappiamo anche che là dove l'impassibilità della scrittura e il movimento circolare e claustratorio della metafora tendono a spezzarsi, rompendo la spirale della ripetizione e accalorandosi nella "denuncia" e nella protesta, l'esito appare irrisolto anche se emblematico dei motivi di attrito e di tensione che continuano a rianimare le coordinate dell'"ideologia" loseyana, tendenzialmente sempre più chiusa e "unilaterale".
Le "incongruenze" spariranno del tutto, letteralmente dissolte, in quello che resta il risultato più alto di Losey: Messaggero d'amore (1971) dove il regista torna su un ambiente, e anche su un'epoca ora, che gli sono profondamente congeniali: le aristocratiche contee del Norfolk e l'estate del 1900, "l'estate più calda della storia". Anche i Maudsley e i loro amici sono figure provvisorie di un mondo che sopravvive: un'esistenza formalmente splendida, in realtà scandita da un cerimoniale inflessibile (i pranzi e le feste di famiglia, la preghiera, il cricket, ecc.), involucro mondano di una vita mortificata dalla ripetizione, rito di una sopravvivenza fondata esclusivamente sul privilegio. L'adolescente Leo se ne sente attratto e respinto: l'atteggiamento degli adulti (Mr Maudsley, Marcus, la stessa Marian) nei suoi confronti, fatto di tolleranza e ironica condiscendenza, sostanzialmente di benevolo disprezzo, è descritto da Losey con sferzante impassibilità e costituisce una rappresentazione cristallina, tutta "oggettiva", senza sovrapposizioni e intenerimenti, di una prassi comportamentale di classe e di casta.
Anche qui il punto di vulnerabilità è la repressione erotica che corrode dall'interno l'inalterabilità della forma e ne assedia e sconvolge i divieti. La storia d'amore tra l'aristocratica Marian e il giovane fattore Ted Burgess (con espliciti rimandi a uno Strindberg e a un Lawrence smussati e riassorbiti senza sforzo nel movimento indiretto e sinuoso del racconto) assume l'asprezza, effimera ma violenta, di un'antitesi dirompente all'interno del vecchio mondo dei Maudsley e dei loro rapporti ipocriti e consunti. E se ne veda lo smascheramento, infatti, nella sequenza della festa di compleanno sconvolta dallo "scandalo": la vita recitata si ferma in un cerimoniale interrotto e sospeso, resta un gruppo di marionette spezzate, con i grotteschi cappellucci di carta a sghimbescio sulle facce stravolte.
L'accento parzialmente nuovo, e comunque assai intenso, dell'approccio loseyano batte sulla figura e sul "ruolo" del ragazzo Leo e sulla traumatizzante scoperta, che egli viene facendo con rancore e dolore, dell'inesorabilità delle strutture e regole sociali da un lato, della forza prepotente e misteriosa del sesso dall'altro, che, come sempre nell'ottica loseyana, ha perduto, nel rapporto sociale istituito, qualsiasi potenzialità liberatrice e, nello stravolgimento che lo schiaccia e deforma, può soltanto agire come antitesi corruttrice e corrosiva della forma. La novità si diceva, non priva di inflessioni autobiografiche, di questo terzo tempo della trilogia avviata con Il servo e proseguita con L'incidente, sta nell'angolazione singolare in cui Losey ha voluto riconoscersi: l'ottica di Leo e di un'adolescenza spogliata di ogni innocenza e già tutta compromessa nell'area squallida e ambigua del mondo "adulto". Innamorato di Marian, con tutta la serietà esclusiva e concentrata dell'adolescenza, Leo trasferisce inconsciamente su Ted la propria impossibilità di amare: di qui la sua funzione di "intermediario", troppo coinvolto nel rapporto tra le divinità che dovrebbe servire e continuamente risospinto nell'affanno dell'impotenza. Una strozzatura radicale e irreversibile, che ritroveremo sul suo volto precocemente invecchiato, quando Marian lo chiamerà ancora una volta a fare da "tramite", nel tentativo di liberare il nipote di lei e di Ted da un paralizzante complesso di colpa.
La disponibilità sentimentale e visionaria di Leo (si veda il motivo ricorrente dei "sortilegi" notturni), sulla quale gli adulti intervengono con violenza o sottile coercizione, eludendone gli interrogativi e frustrandone le aperture, diventa il nucleo più vero del racconto. Losey sente e rappresenta l'adolescenza, nel rapporto con la società "adulta" e con le sue leggi etiche e istituzionali ferocemente governate dalla logica dell'esistente, come luogo della possibilità frustrata, esperienza della massima alienazione possibile della persona.
La vittoria, ancora una volta e malgrado tutto, è dei Maudsley: su Ted costretto a uccidersi («la colpa non è mai della donna», aveva detto Trimingham), su Marian, su Leo che, come "intermediario", è stato e continua a essere succube sia dei Maudsley sia delle loro vittime. Nonostante certe apparenze (l'epigrafe sul passato, i ricorsi della memoria, la "petite phrase" musicale ecc.), non c'è davvero molto di proustiano in questo romanzo di famiglia corroso dai veleni che scorrono nelle pieghe di una "mise-en-scène" controllatissima. Se Leo ha potuto pensare, osservava Losey, che «il passato è una terra straniera dove si agisce in modo affatto diverso [...], egli scopre ora che quel passato è più forte del presente, che gli altri continuano ad agire nello stesso modo: la donna che egli ha amato, e lui stesso davanti a lei» "'. Scoperta che non implica alcun risarcimento affettivo e memoriale: le immagini che Leo ricorda (compresa quella, ossessiva e struggente, di Marian abbandonata sull'amaca nella grande calura del prato) possono riportarlo solo a una strozzatura che è diventata coazione a ripetere. Escluso dalla vita, egli può replicare soltanto la propria esclusione nell'atonia di una maturità fittizia. E se quest'ottica seconda, di una memoria incapace di compensazione, si insinua costantemente nella organizzazione del racconto e ne asseconda la trama, al solito fitta e compatta, degli echi e delle rispondenze, quella che prevale è poi una terza ottica, lucida e disamorata, che comporta una distanza ferma e raggelante. Se ne veda il continuo riscontro nel paesaggio: fermo e sospeso nella sua astratta bellezza intorno alla casa dei Maudsley, improvvisamente dilatato e coinvolgente quando si tratti di Marian e Ted o della frustrata confidenza di Leo col mistero. Anche rispetto a L'incidente, l'"acrimonia" di Losey è completamente riassorbita, ma non placata, nelle pieghe del racconto, senza scarti e intemperanze.
D'ora in poi, con la palma d'oro a Cannes e la "riconciliazione" con la Metro, l'anziano esule e "outsider" di ieri troverà sulla propria strada, con i tardivi riconoscimenti, non pochi tranelli. Penso a L'assassinio di Trotsky (1971), ma anche a Casa di bambola (1973) e a Una romantica donna inglese (1975), prodotti ragguardevoli e di tutto rispetto ma che non aggiungono nulla a quanto Losey aveva detto. Se mai, nella netta diversità di impianto e di risultati (molto più inquietanti nel secondo), Trotsky e Klein confermano quanto si sia accentuata, nel regista, la sfiducia nella dialettica storica della possibilità e del cambiamento. E questo fa anche giustizia di molti equivoci e conferma la sostanziale irriducibilità loseyana al discorso di Brecht: se questi (nonostante/attraverso tutto) indaga e mostra le possibilità del cambiamento, Losey ne verifica e replica l'impossibilità.
Anche il discorso sullo "straniamento" dovrà essere dunque nettamente ridimensionato, se è vero che in Brecht esso non è una "tecnica" ma un metodo, scrittura scenica di una interpretazione marxista della società e ricerca di una distanza calcolata per indurre lo spettatore-critico a una riflessione personale sul carattere relativo e modificabile di ciò che gli viene mostrato dall'autore e dagli attori: «Avete ascoltato e avete veduto / ciò ch'è abituale, ciò che succede ogni giorno. / Ma noi vi preghiamo: / se pur sia consueto, trovatelo strano! / Inspiegabile, pur se normale! / Quello che è usuale, vi possa sorprendere! / Nella regola riconoscete l'abuso / e dove l'avete riconosciuto / procurate rimedio!» "'.
In Losey lo "straniamento" (ma sarebbe meglio parlare di capacità di oggettivazione puntigliosamente cercata e perseguita) è invece un modo di cristallizzare, proiettandola in una distanza raggelata, una condizione di perdita e di sconfitta non reversibile. Se il movimento interno al discorso brechtiano trova la propria scrittura necessaria nella parabola, l'autocoscienza loseyana del trionfo ripetitivo della società del capitale pratica di volta in volta, ma con ferrea coerenza, le strutture della tautologia, del rituale, dell'ossessione claustratoria. E il momento latente di trasgressione e di rottura, lo smascheramento indotto dal sesso o dalla apertura visionaria, è un'improvvisa irruzione di luce che si spegne su se stessa. È certo tuttavia che quella luce ferma e cattiva che svela, senza alcun intenerimento o abbandono, tutta la desolazione e spettralità dell'esistente, è un momento di verità forse breve ma davvero accecante.
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005
Si laurea in lettere a Harvard, dopo avere abbandonato gli studi in medicina (il padre, un avvocato di origine olandese, muore quando il ragazzo ha 16 anni). Collabora alle pagine letterarie di quotidiani, lavora in teatro schierandosi a sinistra nel periodo del New Deal, scrive per la radio. Frequenta a Mosca le lezioni di Ejzenštejn, fonda la compagnia del «Living Newspaper». Finita la guerra inscena - ed è avvenimento memorabile - il Galileo di Brecht, con Charles Laughton (1947). L'anno seguente esordisce in cinema con una stridula fiaba antirazzista ( Il ragazzo dai capelli verdi, 1948). Gira altri quattro film privi d'importanza - uno è il rifacimento di M di Fritz Lang - prima di essere messo al bando in seguito alle indagini del Comitato per le attività antiamericane, mentre si trova in Italia per realizzare Imbarco a mezzanotte (1952) con Paul Muni.
Ripara a Londra, impegnandosi in una attività oscura (all'inizio sotto falso nome) fino a quando non si imbatte in Harold Pinter e si scopre in perfetta consonanza con il suo mondo morale. Dalla collaborazione fra i due nascono tre film straordinari: Il servo (1963), storia cupa di un plagio da parte di un cameriere intrigante ai danni di un nobile infingardo; L'incidente (1967), magistrale studio di caratteri (viltà, astuzia, sessualità repressa, ipocrisia borghese) in un ambiente universitario; Messaggero d'amore (1971), amore e differenze di classe nell'Inghilterra vittoriana scoperte da un ragazzo (Palma d'oro a Cannes). Uno come Losey, corrucciato uomo di sinistra e bislacco intellettuale, commette errori clamorosi (non si avvede della idiozia nascosta in imprese come Modesty Blaise, 1966, o in La scogliera dei desideri, 1968) ma sa anche essere pungente quando maneggia la misoginia di Una romantica donna inglese (1975) illustrata da una deliziosa Glenda Jackson, e sa descrivere con l'incalzare angoscioso di un procedimento mentale il dramma dell'identità contenuto in Mr Elein (1976), che è - interpretato da uno sfatto Alain Delon - uno dei suoi film più riusciti. Con Don Giovanni (1980) ambienta sfarzosamente l'opera di Mozart fra le ville palladiane lungo il Brenta.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Se dovessimo sintetizzare in un solo aggettivo la complessa personalità di un regista come Joseph Losey - mancato a Londra il 22 giugno 1984, a -settantacinque anni -, useremmo qualcosa di un po' démodé, l'aggettivo «serio». Losey era una persona seria e, come tale, una rarità nel mondo del cinema internazionale, di cui fu uno degli esponenti più insigni. Quando il presidente Giscard d'Estaing gli chiese se; a lui americano, non sembrava un'impresa troppo grossa quella di portare sullo schermo la Recherche di Proust, egli si limitò a rispondere che a sedici anni già leggeva Du côté de chez Swann nel testo francese. Il che, forse, non era accaduto neppure al suo illustre interlocutore.
Losey non riuscì a dar corpo al suo sogno, ma per altre ragioni, squisitamente economiche, le stesse che bloccarono l'analogo progetto accarezzato dal collega e rivale Luchino Visconti. Harold Pinter, il drammaturgo dei tre più bei film di Losey (Il servo), L'incidente), Messaggero d'amore), aveva già preparato la sua sceneggiatura proustiana, ma il finanziatore preferì alla fine imbarcarsi nel Gesù di Zeffirelli, che non gli creava nessuna complicazione. Così si dissolse la sfida clamorosa che aveva accomunato e messo l'un contro l'altro i due campioni del decadentismo europeo, fin da quella primavera del 1971 in cui Messaggero d'amore soffiò la Palma d'oro di Cannes a Morte a Venezia, imperniato tra l'altro su un protagonista «loseyano» quale Dirk Bogarde. Morto Visconti, e prima della morte di Losey, l'impresa è parzialmente andata in porto per opera del regista tedesco Volker Schlöndorff, che aveva dalla sua una onesta carriera di illustratore di romanzi - dal Giovane Törless di Musil al Tamburo di latta di Grass - e un apprendistato cinematografico effettuato in Francia.
Come Visconti, anche Losey era uomo di sinistra. Non se ne vantava, ma non lo nascondeva mai, in nessuna occasione. Vero radicai americano, aveva partecipato alla battaglia democratica rooseveltiana con la radio, il documentarismo didattico e il teatro. Era stato in Europa e anche in Russia, e vi aveva conosciuto un po' tutti, da Ejzenstejn a Mejerchold, da Piscator a Brecht. Brecht e Toller li rivide poi esuli in America. Un giorno del 1939 incontrò Ernst Toller, l'autore dell'Uomo massa e di Oplà, noi viviamo, per strada a New York e parlò con lui tranquillamente. Due giorni dopo, seppe che s'era ucciso.
Con Charles Laughton, come con Brecht, era amico da tempo e lo aiutò quando, per paura della guerra, l'attore inglese si rifugiò da lui a Hollywood. Ma Laughton ricambiò la sua amicizia in modo assai tormentato. Proprio a Hollywood accettò di interpretare il Galileo di Brecht in prima mondiale nel 1947 al Coronet Theatre. Era troppo attore per rinunciare a un personaggio teatrale come quello. Fu la rappresentazione, poi ripresa a New York, che diede la fama a Losey: lo stesso Brecht e il musicista Hanns Eisler, anch'egli esule dalla Germania nazista, l'avevano preparata con lui per un anno. Ma appena si accentuò la caccia alle streghe, e sempre per paura, Laughton prese pubblicamente le distanze da tutti quei «comunisti». Fu una vigliaccata, ma Losey non gliela rimproverò mai, perché capiva l'individuo. Il coraggio uno non se lo può dare, come diceva il Manzoni di Don Abbondio. Ebbene Laughton era ancor più terrorizzato dal maccartismo che dalla guerra. Tradì i suoi amici per difendersi da quell'infezione atroce che penetrò in ogni amicizia e in ogni famiglia. Si riscattò anni dopo, affrontando la morte (testimonierà Losey) «con un coraggio immenso».
Quando l'attore fece in America il suo unico film da regista nel 1955, La morte corre sul fiume, senza interpretarlo lui stesso, Losey lo giudicò «decisamente notevole», come in effetti era. Nel ruolo del malvagio, un falso predicatore che terrorizza i bambini, il protagonista stupendo era Robert Mitchum. Anche a Mitchum, imprigionato per una storia di marijuana, Losey aveva manifestato solidarietà, assistendolo in carcere. Ma nel 1969, quando lo ebbe interprete di Cerimonia segreta, uno dei suoi film meno riusciti, Losey confessa di non aver saputo cavar nulla da lui. A tanta distanza da quell'episodio lontano, Mitchum si trova a lavorare in un film del suo amico di un tempo divenuto uno dei registi più importanti del mondo, e fa semplicemente cilecca. E Losey se ne attribuisce la colpa. E anche questo è un segno della sua generosità e della sua lucidità, strettamente intrecciate in tutta la sua vita.
Come alcuni dei migliori americani, e dei migliori esuli europei in America, Losey fu un bersaglio del maccartismo. La persecuzione durò anche oltre la caduta del fenomeno e gli costò moltissimo in termini di lavoro e perfino di identità personale: in Gran Bretagna dove si era rifugiato fu costretto, all'inizio, a nascondere sullo schermo il proprio nome. Tra Stati Uniti, Italia, Inghilterra e Francia, e dal 1948 fino a poco prima della morte, non poté realizzare. La rinuncia più dolorosa fu Alla ricerca del tempo perduto, perché ormai credeva di essersi conquistato il diritto di farlo.
Esattamente come in Visconti, anche in Losey la maturità recava una visione sconsolata del mondo, o meglio un mondo chiuso, fermo, immutabile che sembrava così lontano dalle lotte e dalle speranze di gioventù. Ma come pochi altri cineasti, Losey ha saputo coniugare Freud e Marx: e l'ambiente sociale, di classe, ha sempre un decisivo rilievo nella formazione delle psicologie tortuose e malate ch'egli descrive. Il decadentismo è nelle cose, non nell'autore. La decomposizione e la degradazione alto-borghese vengono da lui analizzate con un ardore freddo, radiografate da clinico. Quando nel 1963 Il servo approdò alla Mostra di Venezia, suscitò qualche sconcerto. Ci fu nella stampa chi si meravigliò che il giovin signore del film fosse così morbosamente imbelle di fronte al domestico che lo schiavizza. «Si vede che lei non conosce le classi alte inglesi», ribatté Losey. E quando un altro si stupì, o finse di stupirsi, che non ci fosse un solo personaggio positivo, il regista replicò: «Il personaggio positivo sono io!».
Il successivo capolavoro del 1967, L'incidente, è ambientato in un altro luogo «esclusivo» come l'Università inglese. Nella scena della sala di lettura, due docenti non trovano di meglio che discutere statisticamente di universitari americani e di sesso. «Il settanta per cento - puntualizza il primo - lo pratica di sera; e c'è uno 0,4% che lo fa durante la lezione su Aristotele». «Sono sorpreso - replica l'altro snob - di sentire che Aristotele è materia d'insegnamento nello stato del Wisconsin».
La battuta è bruciante, in quanto proprio nel Wisconsin, e precisamente a La Crosse che due anni dopo diede i natali anche a Nicholas Ray, era venuto alla luce Joseph Losey il 14 gennaio 1909. Una volta gli domandarono se, con tutto quello che aveva passato, non avrebbe fatto un film autobiografico. Lui ci pensò sopra e poi rispose che, per farlo, sarebbe dovuto risalire alle «origini». E le origini stavano nei pionieri come suo nonno, «un gigante, un divoratore della vita», che aveva sognato il Middle West, lo aveva raggiunto a piedi dalla Pennsylvania, e aveva fondato nel Wisconsin una città e una ferrovia. Ma con la stessa energia dilapidò la fortuna che aveva costruito, tanto che il figlio suo (il padre del futuro regista) per tirare avanti dovette impiegarsi da modestissimo funzionario nella società ch'era stata della famiglia. Ecco, per Losey quella figura di nonno, lacerata da energie
così in conflitto, l'una a dissipare le creazioni dell'altra, era un po' l'archetipo di molti suoi personaggi. «Dicono che una delle caratteristiche del mio lavoro sia l'ambiguità, la mancanza di certezze assolute, l'implicita consapevolezza di quel che vi è di doppio in ogni vita umana. Il male e il bene non sono entità separate. Coesistono, e a fatica si distinguono l'uno dall'altro». L'uomo del Wisconsin non escludeva che questo modo di vedere le cose potesse anche dipendere da quelle radici. E in ciò rivelava che non c'era bisogno di alcuna autobiografia, perché nel complesso della sua opera, come succede a ogni artista autentico, egli aveva già messo tutto quanto, personalmente, sentiva di dover dire.
L'opera prima americana di Joseph Losey si chiama Il ragazzo dai capelli verdi e risale al 1948. Uno dei due sceneggiatori era Ben Barzman che, egualmente messo sulla «lista nera» grazie anche a questo film, accompagnò poi il regista nell'esilio europeo scrivendo per lui lo sfortunato intermezzo italiano Imbarco a mezzanotte (1952) e più tardi un paio di eccellenti «polizieschi» inglesi, L'alibi dell'ultima ora (1957) e L'inchiesta dell'ispettore Morgan (1959), che rassodarono il prestigio di Losey nel paese che lo ospitava.
Barzman e Losey non erano uomini da favole, ma l'invenzione del bambino che si ritrova improvvisamente un «diverso» per via del colore dei capelli era funzionale a un avvertimento civile: serviva per un chiaro apologo contro la discriminazione razziale all'interno e, sul piano internazionale, per un messaggio di pace dopo gli orrori della guerra. Un film semplice e, visto con gli occhi di oggi e dopo gli sviluppi del cinema del suo autore, anche semplicistico. Ma allora divenne emblematico per il suo spirito progressista, che si rifaceva alla lezione didascalica di Brecht.
Una lancia contro l'intolleranza la spezzava anche il secondo film, noto in Italia come Linciaggio (1949), e nel quale un giovane indio innocente si trova coinvolto in un'accusa mostruosa e viene salvato da un giornalista democratico che si espone in prima persona agli stessi rischi del suo protetto. Nel taglio dell'azione e nel ritmare l'angoscia e la violenza montante, cominciava ad affacciarsi un Losey secco, essenziale, non retorico. Ma la contemporanea crescita del maccartismo lo costrinse, tra il 1950 e il 1951, a rifugiarsi nel thriller, come in Sciacalli nell'ombra dove però è notevole li personaggio del poliziotto criminale che prende coscienza della propria abiezione; oppure a nascondere
dietro il velo della metafora la polemica trasposizione negli USA di M, il classico prenazista di Fritz Lang. Il quinto e ultimo film americano, The big night, non è noto in Italia ma è interessante per due ragioni; perché è tratto da un racconto di Stanley Ellin, il giallista elegante e intenso resosi celebre con La specialità della casa, e perché per la prima volta l'azione s'incentra sul conflitto padre-figlio che sarà uno dei motivi dominanti del cineasta.
Una certa continuità col periodo americano è senza dubbio avvertibile, dopo i primi film anonimi o quasi, in quel terzetto di gialli criminali che consentirono al regista di emergere professionalmente in Gran Bretagna. Due li abbiamo già citati. Il terzo, Giungla di cemento del 1960, non soltanto è un modello di film carcerario, affidato alla prestanza dell'attore Stanley Baker, ma già prefigura l'universo concentrazionario che esploderà nel villino chiuso del Servo.
A questo punto, vinta la scommessa linguistica e tecnica, il cinema loseyano si muoverà su due fronti, non necessariamente contrapposti, e bene esemplificati nei due film messi in cantiere nel 1961: The damned e Eva. Il primo è il ritorno di fiamma a una tensione ideologica e morale mai spenta: I dannati (che naturalmente ci rifiutiamo di chiamare col titolo «italiano» Hallucination!) è un apologo fantapolitico sull'incubo nucleare in cui i bambini atomizzati hanno tutti il sangue congelato e nessuno ha più i capelli verdi, né potrebbe averli. Questa linea proseguirà in opere come Per il re e per la patria (1964), pamphlet antimilitarista dove il rapporto tra il soldato da fucilare e il capitano che tenta invano di difenderlo (e poi gli darà il colpo di grazia) è un ulteriore sviluppo del tema figli-padre, ferreamente scandito da un codice sterminatore.
Invece Eva, voluto da Jeanne Moreau che era allora la star di punta del cinema europeo, fu in certo senso la prova generale del Servo, perché per la prima volta Losey si buttava in un'analisi impietosa della guerra tra i sessi, concentrandosi sulla natura umana come aveva fatto nel finale di Sciacalli nell'ombra e nei risvolti più privati dei suoi eroi perdenti. Oggi Eva è ingiudicabile: il metraggio originale era troppo lungo per tutti e venne drasticamente ridotto prima dall'autore, poi dai produttori, infine dai distributori. Un fallimento commerciale sicuro si uni dunque al fallimento artistico presunto. Ma per Losey il fallimento si dimostrò proficuo: ne tenne conto per Il servo, dove riuscì a evidenziare, e questa volta senza fumisterie, una guerra di coppia come
una guerra di classe. Personalmente credette sempre che Eva non fosse per nulla inferiore al Servo. Ma una differenza sostanziale c'era: il contributo di Harold Pinter in sceneggiatura. Tanto che il regista se ne sarebbe ancora avvalso nelle due altre occasioni più alte: L'incidente nel 1967 e, tre anni dopo, Messaggero d'amore.
Un leit-motiv sotterraneo e profondo percorre queste tre opere e le innalza al livello delle maggiori del cinema contemporaneo. È l'equazione vittima-carnefice che consente di indagare con oggettività e imparzialità sia i rapporti e conflitti interpersonali, sia quelli sociali. Qui davvero Marx e Freud, Brecht e Pinter si sposano perfettamente: vittima e carnefice sono, per cosi dire, sullo stesso piano, i loro ruoli sono interscambiabili, entrambi sono i prodotti della stessa infezione ideologica, dello stesso decadimento morale, di costume e di cultura, della stessa ingiustizia classista. Nella gabbia più o meno dorata che l'uomo si è costruito, e dalla quale non può più uscire, servo e padrone sono le due facce di un'unica medaglia: il primo si fa carnefice e il secondo diventa vittima per l'identica legge di violenza e di sopruso che un tempo li teneva su sponde opposte e ora li travolge insieme in un abisso di cinismo autodistruttivo. La grandezza del Servo è che ambedue i protagonisti ci fanno pietà sul piano dell'individuo e che nessuno dei due può in realtà farcene sul piano della storia. Non c'è compensazione né riscatto né rivolta, in questo procedere congiunti verso un comune destino, che segna la ime di una civiltà basata soltanto sul predominio e sul plagio.
Sotto questo profilo L'incidente è forse il film più forte che sia stato realizzato sull'ipocrisia culturale. Il vecchio equilibrio latino mens sana in corpore sano si ritrova capovolto in una pratica fisica che sa di barbarie e in una dell'intelletto che non mira ad altro che a nascondere i propri istinti, a mascherare invidie e tradimenti. Dirk Bogarde, ch'era stato il servo del film omonimo e il capitano di Per il re e per la patria, ritorna nel personaggio di un professore che è esattamente il contrario di quel che il suo verbo, i suoi gesti, la sua veste di gentleman lascerebbero supporre. La sua educazione è il veicolo della sua ferocia. E anche lui, da vittima apparente e da sconfitto nella partita sessuale, si fa carnefice della ragazza ammirata e contesa, violentandola quand'è in stato di choc, per l'incidente d'auto che apre e conclude il film.
Messaggero d'amore è in costume primo Novecento ed è l'opera che più di ogni altra fa pensare che Losey si sarebbe trovato a suo agio anche con l'«impossibile» Proust. Il protagonista è un fanciullo usato come intermediario inconsapevole di un gioco tra adulti, cioè di una relazione inconfessabile tra una signorina ricca e il suo fattore. Anche il piccolo è una vittima che si fa carnefice, innocente sia quando presta il suo servizio di messaggero, sia quando provoca la tragedia. Egualmente ignorante dei rapporti tra i sessi come dei conflitti di classe, il messaggero è il portatore inconscio di un amore che, senza che il suo ruolo muti, si rovescia in morte. E il suo ruolo non muterà neppure col tempo, perché gli verrà riproposto il medesimo servizio anche quando sarà cresciuto. Nel film passato e presente si confondono, diventano la stessa cosa, e anche questo, se si vuole, è un dato proustiano.
Tali sono i vertici dell'arte di Losey ed è chiaro che non tutto il suo cinema vola alle stesse altezze. I due film del 1968 con Elizabeth Taylor, La scogliera dei desideri e Cerimonia segreta, risultano tra i meno felici, e così Una romantica donna inglese del 1975. Non aggiungono molto al suo magistero le riduzioni per lo schermo da Casa di bambola di Ibsen nel 1973 e dal Galileo di Brecht nel 1974. L'assassinio di Trotzky (1972) e Le strade del Sud (1978) dicono poco o niente di inedito in fatto di tensione ideale e politica. A queste più o meno vistose sconfitte si aggiunge forse La trota (1982), almeno in rapporto alla superba eleganza formale e alle ambizioni del discorso, concernente tra l'altro le multinazionali, il potere della donna, e il desiderio di dominio che può condurre l'uomo all'autodistruzione; mentre nulla sappiamo dell'ultimo film Steaming (un aggettivo che significa «bollente»), che l'anziano regista aveva appena finito di girare in Gran Bretagna, dov'era rientrato dopo sette anni di attività in Francia e in Italia.
Fermo restando che anche nei suoi lavori più discutibili si può sempre rinvenire qualche tassello della sua complessa concezione del mondo, ci sono ancora tre opere che meritano qualche commento. Caccia sadica del 1970 è un saggio quasi astratto sulla persecuzione, in cui gli ampi orizzonti non promettono né permettono alcuna libertà e i due fuggiaschi non sono che oggetti, le «figure in un paesaggio» del titolo originale, prigionieri e prede di una minaccia permanente, di un potere anonimo e spietato. In Mr. Klein, realizzato in Francia nel 1976 su una sceneggiatura di Franco Solinas già collaboratore di Pontecorvo e di Costa-Gavras, il tema del «doppio» è sublimato attraverso il personaggio di un ricco antiquario (Alain Delon) il quale s'identifica a tal punto nel sosia ebreo ricercato dai nazisti, che quando costoro lo chiamano all'appello per il campo di sterminio, risponde lui accettando il destino dell'altro. Infine il Don Giovanni del 1979, il film-opera che immetteva Mozart nelle architetture palladiane e che anticipava le più recenti prove in questo genere di altri registi. Esso si fregiava di un'epigrafe piuttosto inconsueta in uno spettacolo di classe internazionale e molto costoso. «Il vecchio muore - suonava il testo - e il nuovo stenta a nascere; e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati» Era un pensiero di Antonio Granisci.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006